Non è mia intenzione fare una trattazione minuziosa e completa della “precarietà”. Non solo per mancanza di spazio ma, soprattutto, per la debolezza dei riferimenti ermeneutici che, oggi più che mai, sono come fuochi fatui da cogliere con fatica. Probabilmente dovremmo riprendere le lanterne della follia per ricercare queste fiamme ipotetiche, per comprenderle (senza necessariamente vederle) ed averne coscienza. Ci mancano dei riferimenti, ci manca una grammatica, ci manca un linguaggio.
La “precarietà” non è semplicemente una categoria economica attraverso cui leggere le dinamiche sociali che si sviluppano tra il Capitale ed il Lavoro, magari in associazione a poche righe marxiane sul “General Intellect” per costruire su questo asset una nuova elaborazione onnicomprensiva della realtà. Non è, quindi, la caratteristica “unificante” di un’ipotetica nuova soggettività produttiva, che si dovrebbe fare, prima o poi, antagonista (di questo tenore sembra essere la trilogia di Negri ed Hardt). Sono stati spesi decine, forse centinaia, di libri e di articoli su questo argomento. Ma c’è qualche conto che, evidentemente, ancora non torna. Perché nulla è accaduto, nulla è cambiato. Nulla si è organizzato e niente si scorge all’orizzonte. La “precarietà”, a livello meramente contrattuale, si potrebbe associare a diverse forme, nessuna riconducibile ad un modello prestabilito, secondo le infinite fattispecie previste (non a caso) dall’attuale Diritto del Lavoro. A livello esistenziale, invece, non si auto-determina come “precario” semplicemente chi viene definito da un lavoro subordinato, parasubordinato, “a progetto”, “a chiamata” ed affini. Insomma, non accade, oggi, quello che è accaduto durante mezzo secolo di Welfare State, quando la collocazione lavorativa definiva a tutti gli effetti anche i tratti somatici ed ontologici delle soggettività interessata. “Io operaio”, “io dipendente pubblico”, “io funzionario” e via dicendo. Non esiste, quindi, un “io precario” perché la precarietà è una condizione da cui si vuole sempre fuggire. D’altronde non dovrebbe neanche essere considerata come un fenomeno esclusivo dei giorni nostri. Essa, da questo punto di vista, è sempre esistita. Sarebbe sufficiente leggere dei libri di storia economica, ma basterebbe anche sfogliare le pagine del primo libro de “Il Capitale” (soffermandosi in particolare sulle splendide inchieste giornalistiche che vi sono contenute). La “precarietà” è semplicemente stata sospesa e riorganizzata, per un certo periodo di tempo, a causa della forte propulsione politica ingenerata nelle dinamiche sociali ed economiche da alcune organizzazioni novecentesche che hanno costretto una parte di borghesia industriale a scendere “a patti” con i lavoratori, concedendo qualche diritto elementare e strutturando queste “cortesie” attraverso un registro giuridico (lo “Statuto del Lavoro”). Ma questa spinta ha cominciato ad incrinarsi già dalla fine degli anni Settanta, e in maniera più evidente dagli Ottanta, fino a presentarsi come catastrofe ai giorni nostri. La “precarietà”, sempre a livello di rapporto tra Capitale e Lavoro, non è altro che un ritorno al passato.
Cosa, invece, c’è di nuovo? Che cosa ne fa un elemento dirimente e, spesso, ridondante in molte elaborazioni socio-economiche del presente? Innanzitutto è una sensazione. Esiste la percezione che la precarietà vada ben oltre l’economico (o, meglio, l’oikonomico) ed irrompa direttamente nell’esistenza, nella linearità delle “forme di vita”, nei rapporti tra Essere umano ed Essere umano ed in quelli tra l’Essere umano e la Natura (ma, anche in questo caso, pare essere ritornati al Marx dei “Manoscritti economico-filosofici del 1844”). La “precarietà”, quindi, da sola non dice nulla. È necessario declinarla in qualche modo. La sfida a cui siamo chiamati è proprio comprendere quale sia questa declinazione e dove essa di annidi.
È nota l’etimologia da cui si fa derivare il termine. Dal latino precārium (da prex, preghiera). Varrebbe a dire “ottenuto per preghiera”, di un qualcosa che si può praticare in seguito ad un permesso, “per grazia ricevuta”. L’iconografia della precarietà prevede un giovane inginocchiato, con le mani unite in segno di preghiera, che attende qualcosa dall’alto. Potrebbe anche riferirsi a qualcosa di instabile, di temporaneo. Di precario, appunto. Perché la preghiera ha una contingenza, è un atto immediato, limitato nel tempo e nello spazio. Si presenta come qualcosa che rompe la linearità del tempo futuro, la consequenzialità della Storia. Si fa presente, eterno presente. Si fa Evento. Il punto da cui partire potrebbe essere proprio questo. L’eventualità della precarietà.
D’altronde il Lavoro, di qualunque tipo, non è più semplicemente una ridondante mansione da svolgere, con una rigida committenza da rispettare sia nel coordinamento che nella disciplina. Tutto è diventato estremamente mutevole (nel tempo e nello spazio) e flessibile. Il Lavoro è diventato, soprattutto, un percorso formativo ulteriore ed aggiuntivo che trova la sua unica coerenza direttamente con quello che si sta facendo in un determinato momento dell’esistenza, piuttosto che con quello che si è fatto prima (o dopo). Insomma, non è una litania costituente che accompagna l’essere umano “dalla culla alla tomba”, bensì si mostra come una banale contingenza da rispettare per far fronte a precise necessità economiche. Le propensioni personali si costruiscono andando avanti nel tempo futuro; il Lavoro, invece, è attualmente una possibilità che si apre esclusivamente nel tempo presente. È un chiodo conficcato nel terreno, che lega ogni persona all’attimo ed alla terra su cui cammina. Di conseguenza non può più presentarsi come un livello comune di organizzazione e, neanche, di comprensione della società. Perché esso è “umanamente” legato alla presenza, a differenza del Capitale che invece conserva ancora una dimensione “strategica” e di slancio nel futuro, attraverso le magnifiche sorti del progresso. Per questa ragione il punto di vista del Lavoro non ci sembra essere adeguato a sostanziare la questione della precarietà. Questa onnipotenza teleologica del tempo presente mette in luce, nella loro splendida solitudine, le “singolarità costituenti”, ossia la forma moderna dell’individuo liberale sottratto all’alveo del tempo storico e che, sotto le nuove connessioni del Capitale, diventa Human Resources.
Da questa sottrazione rimane la Terra, il territorio, lo spazio su cui tutto questo si sviluppa. L’organizzazione territoriale (la stessa struttura aziendale, ormai, non può fare a meno di un punto di vista sul territorio). È l’elemento invariate, quello che accomuna la spazialità di fabbrica a quella della “vita postmoderna”. Rimane l’Ecologia, non considerata semplicemente secondo una prospettiva “fisica” (e, quindi, strettamente ambientalista) ma incanalata attraverso una panoramica “etica” e “sociale” complessa, in cui si mettono al centro del ragionamento le “persone”, in quanto potenziale “Capitale Umano” o “singolarità”, che si sviluppano in diversi contesti socio-economici. Per Ecologia, quindi, si rimanda in questo caso al greco, da οίκος (casa, ambiente…) e λόγος (discorso, studio…), come analisi di contesto, delle sue espressioni complessive (endogene ed esogene).
In questi giorni critici, per concludere, quello che è temporaneo, che ci viene concesso dietro licenza quasi divina, non è tanto il Lavoro quanto la presenza sulla Terra. È questa presenza instabile, ma sempre insaziabile, che non permette di immettere la mancanza di reddito in una dimensione progettuale. È quest’assenza che distrugge la cronologia. È quest’angoscia territoriale che sottrae l’individuo liberale moderno alla sua storia, per trasformarlo in una schizofrenica bilancia mai in equilibrio tra singolarità e Capitale umano. “Singolarità” se ricerca e costituisce Comune, “Capitale umano” sotto le alternate vicende del governo neoliberale.
(articolo pubblicato su Terre Libere)
avantieri, nel master che sto frequentando, una ragazzina con un contratto a tempo determinato alla regione Basilicata dice che bisogna accettare lo sviluppo, l’innovazione, il progresso, la fessibilità e che bisogna smetterla di ostinarsi di parlare di lavoro fisso. Non era la Marcegaglia,ma solo una ragazzina. E continuava a ripetere che LO STATO NATURALE delle cose, il PROGRESSO delle cose è la flessibilità. Ho provato a spiegarle, quasi litigando, che avere un bambino a 40 anni non è lo stato naturale delle cose, ed ho provato a spiegarle che è vero che il lavoro a tempo determinato costa alle imprese il 50 per cento in meno, ma è anche vero che costa alla società e al suo futuro il 100 per cento in più. Poi le ho accennato il fatto che l’attuale status economico, l’attuale organizzazione dell’economica e delle imprese, è solo una delle tante possibilità, uno dei tanti mondi possibili: nulla è scontato, nulla è naturale, nulla è dato. Lei insisteva dicendo che ha fatto mille lavori e che la colpa dei “precari” è solo della loro inattività, io le ricordavo che quando sarà in mezzo alla strada, e che quando le banche non le concederanno mutui per la casa, vedrà un po’ più chiaramente a chi dare la colpa. Poi le ho ricordato che alcuni pugliesi che stanno formandosi lì al master, e che stanno invesendo ancora nella formazione, lo devono ai finanziamenti della regione puglia, non certo al loro stacanovismo produttivo; inoltre le ho detto che un modello “flessibile” potrebbe anche, al limite, andare bene, ma non in Italia, dove io per stare a Roma e formarmi, investire ancora, riqualificarmi, devo spendere 400 euro di affito. L’Italia non è l’America, non si pùo parlare di flessibilità e avere al contempo una società gerontrocratica, immobile, asfittica, dove i filgi dei medici fanno i medici ed i figli di operai fanno gli operai. E anche gli Usa stanno passando il loro bel momento… cmq mi faceva una pena pazzesca vedere una ragazzina così condizionata e così ridottaa ad atomo che parlava, inconsapevolmente, contro se stessa, e contro il proprio futuro. Una pena pazzesca e una rabbia che pian piano mi cresceva dentro.
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