Persona, Territorio e Comunità dal punto di vista neoliberale
Per una grammatica del Potere
(2010)
1. “Crisi” come paradigma di Governo
Il discorso neo-liberale ha definitivamente dispiegato il proprio mantra (dopo una lunga fase di transizione che dura, più o meno, dagli anni Ottanta del secolo scorso). Si tratta di un ritornello costituente che parla ossessivamente di responsabilità, dono e solidarietà. Niente di nuovo sul fronte del Pensiero occidentale, se non fosse per la critica profonda e distruttiva alla “vecchia ideologia” del Welfare State, descritto come un modello degenerativo, un mix implosivo e socialmente pericoloso di assistenzialismo, paternalismo e immobilismo sociale.
D’altronde un certo approccio di “etica della responsabilità” del discorso liberale si potrebbe far risalire alla Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith. Si pensi, ad esempio, alla descrizione della “Simpatia” quale possibilità di proiettare la coscienza morale dei singoli individui in una dimensione pienamente “relazionale”, non “innata” e fondamentalmente soggettiva. Attraverso questa capacità simpatetica, infatti, si riuscirebbe a comprendere l’altro, ricevendone apprezzamento ed approvazione “tramite un immaginario scambio di posto con chi soffre” (Smith 1995, 82). Alla base di questo approccio ci sarebbe un “sentimento di partecipazione” che richiamerebbe la radice greca di συμπάθεια, nel significato di “patire insieme” (in relazione ad ogni tipo di sentimento). “La simpatia, perciò, – scrive Smith – non sorge tanto dalla vista della passione, quanto dalla vista della situazione che la suscita” (ivi, 86). È questa l’armonia della società liberale “classica”, il tratto costitutivo dell’individuo moderno successivamente inserito nella Ricchezza delle Nazioni (ovvero Ben-Essere delle Nazioni): “affinché possa esserci qualche corrispondenza di sentimenti tra lo spettatore e la persona principalmente interessata, lo spettatore deve, prima di tutto, tentare, per quanto può, di mettersi nella situazione dell’altro, e ricondurre a sé anche la più piccola occasione di disagio in cui può imbattersi la persona che soffre” (ivi, 102).
Il ruolo dei processi di soggettivazione, cioè le forme di condensazione del “soggetto”, è fondamentale per comprendere le dinamiche della governamentalità. Su questo si potrebbero riprendere ampiamente le ricerche di Michel Foucault, come i corsi al Collège de France raccolti in Sicurezza Territorio Popolazione (Foucault 2005) e Bisogna difendere la Società (Foucault 2010). Semplificheremo dicendo che la “soggettivazione” non è altro che il processo di creazione di un discorso capace di “individuare”. Anche il nuovo modello neo-liberale (un’innovazione di percorso del liberalismo) ha il proprio meccanismo di soggettivazione.
La Crisi, nel caso specifico, è utilizzata come paradigma del cambiamento. La differenza o, se vogliamo, lo scarto ontologico rispetto al discorso “storico-politico” rintracciato da Foucault a partire dal XVI secolo (“Bisogna difendere la Società”), sta nello sfruttamento della crisi. Non si agisce più per prevedere/evitare l’Evento catastrofico, ma semplicemente per trarne il massimo profitto nella contingenza del momento. Nel Kairòs dell’attualità. Si sposta l’attenzione su una serie di Eventi catastrofici da fare esplodere (o da gestire) per invocare misure continue di Emergenza (economica, ambientale, sociale, territoriale…) che investono tanto il lato istituzionale quanto quello sociale in senso ampio. Si governa l’Emergenza delle cose e degli uomini. Questo modifica radicalmente l’approccio neo-liberale, pur facendolo rimanere in uno scheletro “classico”.
Ci sono dei nessi che andrebbero indagati con grande attenzione genealogica. Qui faremo solo cenno a qualche elemento che riteniamo importante. La promozione della Salute, nelle prospettive del modello neo-liberale, è fondamentale perché consentirebbe la riduzione delle cause primarie e profonde della povertà, dell’emarginazione e, più in generale, del disagio sociale. In questo modo aumenterebbe la produttività del lavoro, crescerebbero i tassi di occupazione e, conseguentemente, si verificherebbe una crescita complessiva dell’Economia e dello sviluppo. La “cura di sé” ed il ben/essere psico-fisico diventano indici di mobilità sociale e di dinamismo individuale e collettivo. Il nesso neoliberale, in questo caso, si costituisce tra la Salute e la prosperità economica. Sta bene, fisicamente e socialmente, solo chi lavora e, in modo particolare, chi non si fossilizza su un singolo lavoro bensì mette il Lavoro al centro della propria “Vita attiva”. La Salute, quindi, non è intesa esclusivamente come un aspetto relativo all’organismo umano, nella sua dimensione “medica”, ma sempre rapportata alle relazioni sociali di ogni persona. Da questo nesso scaturirebbe la “Società attiva” e la “Vita attiva” come modello di comportamento personale e comunitario. La Vita attiva, infatti, è anche una Vita buona perché solo in essa si può intrecciare la dimensione personale a quella sociale, in modo da evitare ogni forma di egoismo corporativo (ad esempio, le “culture nichiliste”). Per “egoismo corporativo” si intende tutto quello che potrebbe essere riconducibile a rivendicazioni collettive. La dimensione comunitaria, quindi, sembra essere la culla dove nasce e cresce il destino di un popolo che ricerca la sua Felicità (ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con la “Vita activa” analizzata da Hannah Arendt).
Questa proposta non si basa solo su elementi che, nonostante tutto, potrebbero rimanere ancora ad un livello concettuale. In realtà si attribuisce ad ogni fattore una dimensione ed un contesto di realizzazione ben definito. Questo “ambiente” non è più quello dello Stato nazionale “moderno” (quello del Welfare State), ma diventa sempre più esplicitamente il Territorio. Esso viene intesto come la dimensione dove attuare un certo tipo di trasformazione sociale perché è proprio sul Territorio che le differenti strutture della Società (Istituzioni, Organizzazioni di vario tipo…) sono più “prossime alle persone” e riescono ad integrarsi meglio ed in modo efficiente per costruire “soluzioni efficaci ai fini tanto dello sviluppo locale quanto della giustizia sociale” (Libro Bianco). Il Welfare delle opportunità (il “modello sociale” del Libro bianco) viene inteso, letteralmente, come uno stato di benessere psico-fisico da garantire ad ogni individuo e, per conseguire questo fine, a partire da ogni Persona, si dovrebbero sviluppare forme di azione personalizzata. Il “rischio” sembra non essere più cadere nella povertà ma lo “star male”. Lo “stare male”, come si è visto, significa immobilità sociale, attesa impotente di qualche dimostrazione di paternalismo statale e, di conseguenza, porterebbe alla degenerazione dell’intera Società. Salute, Lavoro, “occupabilità” e mobilità sociale, sono tutti canali variabili, elementi modificabili, nodi di una “economia del benessere psico-fisico” reticolare che sembra dover essere risultato di alchimie produttive e di ristrutturazioni sociali territoriali, piuttosto che una condizione di sicurezza e “protezione sociale” (com’è accaduto almeno fino agli anni Ottanta).
Il cambio di paradigma è tanto evidente quanto, ancora, inesplorato. In questo caso sembra che una versione ancora perfettibile della tecnica “terapeutica” dei meccanismi del Potere si sia totalmente dispiegata, sfruttando soprattutto le nuove tecnologie. La povertà, il disagio sociale, la disoccupazione, ogni elemento prima regolato ed eventualmente “protetto” da meccanismi di ridistribuzione della ricchezza generati dal Welfare State, oggi sembra al centro di una vera e propria (ri)formulazione medica ed istituzionale.
2. Persona, personalizzazione, Territorio, Comunità
La centralità della Persona, in sè ma, soprattutto, nella molteplicità delle sue proiezioni relazionali, emerge come un fondamento principale di questo nuovo modello sociale. In tale contesto la Famiglia sembrerebbe essere il luogo privilegiato delle relazioni affettive, il “nucleo primario intorno al quale si addensa la vita sociale”, capace di trasmettere alla singola persona l’impulso verso la solidarietà e la Vita buona.
Il Lavoro non sarebbe altro che l’espressione “attiva” di un progetto di Vita e diventerebbe “l’ambito nel quale si misura la riuscita della integrazione sociale” (Libro Bianco), poiché è proprio nel Lavoro che ogni singolo individuo può finalmente trovare la dimensione personale delle sue relazioni sociali. Sembra qui volersi incrinare la relazione tra Lavoro e Diritto, che sta alla base tanto del Diritto del Lavoro quanto dello Statuto dei lavoratori. Il Lavoro, nella nuova retorica neoliberale, diviene semplicemente un accesso privilegiato alla Società.
La Comunità ed il Territorio sono rappresentati come ambiti dove devono svolgersi tutte le “relazioni solidali” che sostengono la “Vita attiva”. Diventano elementi strutturali fondamentali in un contesto di spersonalizzazione profonda, causata dai processi economici e sociali della Globalizzazione, a cui è corrisposta una crescita caotica ed informe degli agglomerati urbani che ha contribuito a generare solitudine, a costituire ritmi impersonali aumentando le necessità di protezioni sociali informali (quali, appunto, la Famiglia e la Comunità). Sarebbe proprio il Territorio lo spazio geo-sociale privilegiato dove si può sviluppare questa rete complessa di relazioni tanto orizzontali tra gli Enti (pubblici e privati) che verticali in rapporto ai singoli individui. Il Territorio garantisce le strutture da predisporre alla cura delle Persone, alla occupabilità, all’integrazione. È lo spazio territoriale che, fornendo i confini entro cui tessere questa rete, realizzerebbe anche la morfologia storica della Comunità.
Una generale ristrutturazione delle Relazioni industriali, quindi, andrebbe proposta in senso “territoriale”. Le parti sociali assumono una dimensione sempre più locale/aziendale per sviluppare un nuovo modello economico-produttivo che connetta i salari alla produttività (quindi ai meriti, individuali e/o collettivi) rompendo, una volta per tutte, la gabbia salariale della contrattazione collettiva su base nazionale e costruendo un sistema differenziato di contrattazione aziendale o, addirittura, di singoli accordi individuali. Questo auspicato e progressivo “decentramento contrattuale” sarà utile per favorire lo sviluppo degli organismi bilaterali territoriali che dovrebbero occuparsi della gestione dei mercati locali, del Lavoro e dei servizi che offriranno un “valore aggiunto” alle Persone (quali la sicurezza, una formazione continua, l’integrazione del reddito ed il ricollocamento in caso di trasformazioni del sistema produttivo).
Dare centralità della Persona, in questo modello sociale, implicherebbe operare una riorganizzazione profonda dell’attuale sistema di “protezione sociale”. Infatti il Welfare State, peccando di “paternalismo”, avrebbe considerato solo i bisogni presi nella loro generale eventualità e non le Persone come “veicoli” di necessità e come soggetti direttamente interessati alla risoluzione di questi bisogni. Le procedure dello Stato Sociale consideravano “i bisogni delle persone in modo anonimo, prescindendo dalle preferenze delle persone e dalla trama delle relazioni”. Inoltre, lo Stato, su questi presupposti, avrebbe assunto una “direzione monopolistica” nell’erogazione dei servizi pubblici, mentre dovrebbe limitarsi solo a determinare le linee guida generali degli interventi, assicurando un controllo “a posteriori” e concedendo la gestione dei servizi ad Enti intermedi (principalmente operanti nel “Terzo settore”). Questo darebbe vita ad un circuito positivo di “società intermedie” che avrebbero come riferimento la Persona e, quindi, riuscirebbero a costituire un “Welfare comunitario”.
Insomma, il nuovo modello sociale, per dare certezze sul presente e presentare un futuro potenzialmente “solido”, si dovrebbe organizzare intorno alla Persona in modo da diventare relazionale e comunitario. Famiglia, Comunità e Territorio, sono fattori imprescindibili della nuova governance. Non rappresentano semplicemente delle parole, dei concetti astratti, bensì forniscono le coordinate di un discorso governamentale uniforme. Una forma di governance che assuma come centrale la Persona, però, potrebbe correre il rischio di diventare fobica, quando non compulsivo-ossessiva, nei confronti dell’oggetto/soggetto del suo spasmodico interesse.
Non a caso la narrazione neoliberale ha anche previsto la redazione di un “portfolio” individuale, in modo da tracciare lo sviluppo degli individui sotto molteplici aspetti (salute, educazione, comportamento sociale, formazione e lavoro). La completa tracciabilità di queste informazioni renderebbe il cittadino più “responsabile” perché più controllato. La percezione di essere parte integrante di una rete totale di controllo funzionerebbe quasi come deterrente rispetto ad alcuni comportamenti ritenuti pubblicamente “sbagliati”, non considerati “attivi” o, più nello specifico, bollati come “nichilistici”. Il nesso controllo-responsabilità è evidente.
La Persona non viene presa in considerazione semplicemente in quanto corpo (fisico e spirituale), ma come un complesso di relazioni di varia natura (familiari, lavorative, comunitarie) da porre al centro della governamentalità neoliberale. La nuova retorica neoliberale è interessata alla Persona ma solo per l’ambiente di relazioni esterne, strettamente connesse ad un contesto territoriale, che essa riesce a creare. Per questa ragione è sulla Persona che si calibra l’intervento degli Enti amministrativi, in modo da anticipare i rischi di emarginazione e le potenziali conflittualità sociali, piuttosto che intervenire a posteriori e in maniera banalmente risarcitoria (com’è avvenuto nel Welfare State). La Comunità, concepita su queste basi, diventa l’ambiente “sanificato” dove di costruiscono le relazioni personali. Ricerca della Felicità, rifiuto delle “culture nichiliste” (si vorrebbe far riferimento alle tendenze disgregatrici di un ipotetico solidarismo comunitario), consolidamento delle relazioni solidali all’interno delle Comunità: è questa la ricetta proposta per stimolare una società che sembra, oggi, aver perso “il senso stesso della vita”.
A livello economico è auspicata una liberalizzazione delle relazioni internazionali tendendo fermi, ed anzi estendendo, i diritti individuali, proponendo una versione contemporanea dell’Economia Sociale di Mercato come uno strumento utile per uscire dalla crisi. A suo fondamento vi è, infatti, un forte principio collaborativo e solidaristico che dovrebbe animare i rapporti tra le differenti Classi sociali, in netta contrapposizione alla visione messianica del “conflitto di classe” proposto dal marxismo. La “democrazia economica”, infatti, è intesa come partecipazione diretta (che si esprime attraverso modalità differenti) dei lavoratori alla gestione delle aziende. È questo lo stesso presupposto teorico che sembra aver caratterizzato anche la costituzione dello Stato corporativo durante gli anni del Fascismo italiano. Possiamo considerare il passaggio dalla protezione sociale alla “solidarietà” genericamente intesa, che definirebbe anche l’agenda dei governi e degli Enti preposti all’organizzazione ed alla gestione dei territori locali, come un dato costituente di questa retorica. Un dato non nuovo se si considera che già Adam Smith, nella “Teoria dei Sentimenti Morali”, parlava di pietà e compassione che l’Essere umano, egoista, avrebbe dovuto comunque provare “per la miseria altrui”. Se da una parte è evidente l’attacco mosso contro la forma dello Stato sociale che, con l’assistenzialismo ed il paternalismo, soffocherebbe la libertà di scelta e di iniziativa delle Persone, dall’altro si cerca nel Capitale umano l’unica possibilità emancipativa. Sono, infatti, l’autonomia e la responsabilità personali che il nuovo modello sociale cerca di recuperare e promuovere.
Il discorso si riduce alla personalizzazione. Si dice che “non è l’uomo in funzione dello Stato, ma quest’ultimo in funzione dell’uomo”. Dovrebbe essere lo Stato, quindi, a conformarsi all’insieme complesso delle esigenze della Persona, il “cuore” di tutto l’edificio costituzionale. Da qui si muove una critica durissima al vecchio modello del Welfare State, colpevole di aver marcato una separazione “morale” tra l’aspetto pubblico (finalizzato al “bene comune”) e quello privato (rivolto a fini personali, senza valenze socialmente utili). Il Welfare State avrebbe diviso il mondo sociale in “buoni” e “cattivi”, demonizzando il profitto personale in favore dei servizi pubblici. Il “Libro bianco” si interroga, quindi, sulla costituzione di un sistema di Welfare che intervenga in anticipo rispetto al formarsi del bisogno e non in risposta ad esso, attraverso un’azione personalizzata tesa alla promozione di comportamenti e stili di vita responsabili e, appunto, “preventivi”. In netta contrapposizione alla cultura dell’assistenza volta a comprimere (quando non ad annientare) le responsabilità sociali (ed imprenditoriali) e l’autonomia delle Persone.
Il passaggio dal Welfare State alla Welfare Society non è indolore. L’idea è quella di passare dalla centralità dello Stato (obsoleto ed opprimente) a quella della Persona e, in modo particolare, della Società civile (quindi alle Comunità ed a tutti gli Enti intermedi), al fine di rispondere ai bisogni sociali emergenti ed alla necessaria crescita socio-economica. La stessa visione del Lavoro, da modello di emancipazione a tecnica di “integrazione” sociale, sta alla base di questa trasformazione. La cornice di questo modello è definita dalla Famiglia, quale luogo del legame solidale e riconosciuta come “valore sociale aggiunto”; dalla Comunità, fonte di relazioni sociali che possono diventare l’antidoto naturale alla solitudine del cittadino globale; dalla singola Persona intesa come Human Resource (Capitale Umano). Il principio di sussidiarietà diventa l’elemento attorno a cui si renderebbe possibile la collettività. Per la produzione di Welfare Society diviene decisivo il “terzo settore” che, con gli Enti bilaterali, permetterebbe di costruire relazioni e “tessere i fili smarriti della comunità”, favorendo una “nuova organizzazione dei servizi e del lavoro nell’era post-industriale”.
3. Conclusione
Nella proposta del “Libro bianco” le cause degli attuali bisogni (reddito, casa, formazione…) non sarebbero da ricercare nell’incuria delle Istituzioni o nella crisi economica, ma sono descritte come il prodotto “catastrofico” della de-responsabilizzazione nichilista degli Esseri umani, della loro incapacità di produrre relazioni sociali, del distacco dei giovani dalla collettività, della poca flessibilità sul posto di lavoro. Sarebbe stata, inoltre, l’assistenza “paternalistica” del Welfare State ad “imbonire” (quando non istupidire) gli Esseri umani, le Persone, generando un diffuso senso di alienazione e disperazione. È la “logica assistenzialistica”, in ultima analisi, che alimenterebbe i fattori di disuguaglianza sociale. Al contrario la responsabilizzazione del singolo individuo produrrebbe “comportamenti virtuosi” utili a prevenire le possibili situazioni di bisogno dovute ad eventi fisici, mentali o economici.
La trasformazione del “lavoratore” nel semplice titolare di un “percorso lavorativo”, slegato dalle garanzie contrattuali, non fa altro che completare il percorso della “flessibilizzazione” avviato già dagli anni Ottanta, prevedendo cicli produttivi frequenti in cui si alternano fasi di occupazione (sia dipendente che autonoma) a momenti di riqualificazione professionale per meglio aderire ai cambiamenti strutturali. Più che di “occupazione” (e, quindi, di conseguente “tutela” del posto di lavoro) si fa riferimento alla “occupabilità” della Persona, a come responsabilizzarla nonostante le soventi trasformazioni economiche ed industriali che si presentano come tragedia per settori che tendono ad “alleggerire” periodicamente il costo del lavoro. La formazione diventa un grande regolatore di mercato, capace di reinserire immediatamente il Capitale Umano nel ciclo produttivo, evitando forme di obsolescenza occupazionale che incidono negativamente sulle dinamiche della “Società buona”. In questo approccio l’Impresa è considerata, in opposizione all’offerta auto-referenziale di alcuni sistemi educativi pubblici, il luogo idoneo per la formazione e l’aggiornamento delle competenze personali.
Per legittimare questa nuova dimensione del rapporto tra Capitale e Lavoro (nella “nuova” contraddizione tra Capitale e Territorio) si definisce un nesso tra “occupazione” e “libertà”. Sarebbe una sorta di variante al più conosciuto “il Lavoro rende Liberi”. Non c’è il Lavoro al centro della speculazione neoliberale bensì l’occupazione o, meglio, l’occupabilità del Capitale Umano. È la possibilità di trovare/cambiare continuamente lavoro che “libererebbe” le persone. Libertà di commercio, libertà di riciclarsi, libertà di “licenziare”.
L’equità, da essere un senso di uguaglianza, diventa un mero rapporto matematico tra bisogni e meriti. Legando il compenso al merito si giustifica anche la partecipazione diretta dei lavoratori “alla vita ed ai destini dell’impresa”. La bilateralità e la partecipazione degli “occupabili” alle sorti aziendali definirebbe lo spazio dove realizzare quella “pacificazione” dei rapporti di produzione auspicata dall’Economia sociale di Mercato. L’idea sarebbe quella di avviare, in un clima “solido” di fiducia e partecipazione, una nuova alleanza tra il Capitale e Lavoro su una base territoriale, circoscritta e più facilmente governabile.
Questa nuova sistemazione del Welfare è definita “Universalismo selettivo” che dovrebbe innanzitutto tener conto delle possibilità di spesa (riferite in modo particolare al sistema pensionistico ed al nuovo sistema assicurativo, più flessibile ed individuale); poi avrebbe il compito di sancire la parità dei cittadini nell’accesso alle risorse; di valorizzare le responsabilità delle Persone stabilendo degli ordini di priorità per l’erogazione dei servizi, grazie alla costituzione di un coordinamento “territoriale” tra Stato, Regioni ed Enti locali (quello che viene definito anche come “federalismo sostenibile responsabile”).
Il “Libro bianco” è importante perché permette di pensare le tematiche della “personalizzazione” (che è decisamente altro dalla “individualizzazione” moderna), del Territorio e della Comunità come elementi caratterizzanti del nuovo discorso neoliberale. In modo particolare quest’organizzazione della governance territoriale pone come problematica principale la questione delle enclosures, ovvero dell’ondata di privatizzazioni che sarà conseguenza diretta di questo passaggio (e, in corrispondenza, dell’espulsione di molte soggettività sociali dall’attuale modello produttivo). Il “Libro bianco”, quindi, disegna la transizione dei modelli produttivi e di gestione d’Impresa verso un’Economia dell’informazione e della Conoscenza. Questo cambiamento strutturale individua la trasformazione dei modelli produttivi ed il riassetto profondo delle relazioni industriali.
La caratteristica di questa fase costituente sembra essere l’emersione di nuove forme e tipologie di Lavoro a forte contenuto auto-imprenditoriale, che investono principalmente la Persona in quanto “Capitale umano”. Proprio questo investimento sulla Persona stabilirebbe una serie di criteri attorno ai quali ridimensionare il modello sociale. La “personalizzazione” della medicina, la creazione di un portfolio personale dove inserire tutto il percorso “vitale”, la possibilità di risoluzione individuale del contratto di Lavoro e, addirittura, la possibilità di contrattazione individuale nell’ambito della contrattazione aziendale, sono elementi evidenti di analisi e di critica.
Bibliografia minima
- Smith A. (1995), Teoria dei Sentimenti Morali (1759), trad. di Di Pietro S., Milano, BUR.
- Foucault M. (2005), Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France – 1977-1978 (2004), a cura di Sennelart M., trad. di Napoli P., Milano, Feltrinelli.
- Foucault M. (2010), Bisogna difendere la società (1997), a cura di Mauro Bertani e Alessandro Fontana, Milano, Feltrinelli.
Sono alquanto preoccupato. Già leggere cose come “il destino di un popolo che ricerca la sua Felicità” mi allarma, se poi aggiungiamo il tocco messianico dell’affermazione “non è l’uomo in funzione dello Stato, ma quest’ultimo in funzione dell’uomo”, mi sorge il sospetto di una ennesima utopia e, si sa per esperienza, ogni utopia ha dato luogo ad enormi sofferenze.
questo articolo non l’ho scritto io (e spero che l’autore ti risponda, così da avviare un proficuo dibattito), ma seguendo la tua critica, è come dire che il cristianesimo dovrebbe preoccuparmi visto che, come ogni utopia, ha creato enormi sofferenze… inoltre, pensi davvero che il “pensiero unico”, che è proprio l’assenza di narrazioni e utopie, debba tranquillizarmi?
Il cristianesimo ha creato enormi sofferenze, basti pensare all’attesa dell’altro mondo e a ciò che comporta, per il modo di pensare nella vita quotidiana e comunque.. ho mai detto che tu debba tranquillizzarti?
Riccardo, le tue citazioni sono parti del Libro Bianco di Sacconi, naturalmente (credo si capisca leggendo l’articolo). E sono d’accordo con te. Più che di utopia, in questo caso, si tratta di ideologia.
Riccardo, il mio era un tentativo di problematizarre la tua sfiducia nelle utopie. Crisianesimo, Materialismo storico, Liberalismo, Democrazia, Illuminismo, Positivismo, Individualismo, Immanentismo ecc. Ognuna di queste narrazioni sistemiche, ad essere oggettivi e filosofici, parte da una visione metafisica delle cose, e si propone un radicale cambiamento. Ognuna di esse può essere un motivo di cambiamento, lo è stata, secondo i nostri parametri morali di uomini post-moderni, in bene o in male, con ampi spazi di grigi. Io non vedo dietro “utopia” e “narrazione” il male da abbattere
Devo aver perso un mio commento!
Comunque, sintetizzando:
io posso apprezzare il racconto delle utopie, ma il punto è che la Storia, (quella noiosa che sempre narra ciò che è avvenuto davvero e non ciò che vogliamo credere), mostra come quasi ogni volta che si è tentato di avverare un’Utopia, tutto è poi finito in un bagno di sangue.
Avrà a che fare con l’abitudine della specie ad uccidere,dopotutto siamo i discendenti di Caino,o piuttosto con l’ansia di perfezione e di totalizzazione che si nasconde in queste “narrazioni”, e che presto si rivela essere nient’altro che odio e intolleranza?
Dimenticavo: il “pensiero unico” non è l’assenza di narrazioni e utopie, bensì una utopia al lavoro.
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