“Si Deus est unde Malum?”
(Boezio, De consolatione philosophiae)
La domanda su Dio, che è poi la domanda sul Male, esiste da tempo immemorabile: basti pensare alla Bibbia stessa, nel libro di Giobbe o nel Qohèlet (Ecclesiaste), o semplicemente le parole di Gesù Cristo sulla croce: “Elì, Elì, lamà sabactanì?” (Mt 27,46; cfr. Mc 15,34), ovvero “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Si pone nella storia inevitabilmente il problema delle domande su e a Dio, ma il quesito che più tormenta i pensatori è quello ben espresso da Epicuro : «La divinità o vuol togliere i mali e non può o può e non vuole o non vuole né può o vuole e può. Se vuole e non può, è impotente; e la divinità non può esserlo. Se può e non vuole è invidiosa, e la divinità non può esserlo. Se non vuole e non può, è invidiosa e impotente, quindi non è la divinità. Se vuole e può (che è la sola cosa che le è conforme), donde viene l’esistenza dei mali e perché non li toglie?» .
Nella storia in particolare un evento ha messo in risalto il problema del Male : Auschwitz. Auschwitz è stato il mostrarsi del Male assoluto, privo di motivazione, il Male finalizzato al Male e accolto nel silenzio da Dio; si crea perciò un problema teologico, filosofico, o più semplicemente “umano”: alla luce di un evento come Auschwitz, chi non voglia rinunciare sic et simpliciter a credere nell’esistenza di Dio, deve per forza rivederne il concetto.
“Mi è stato più facile pensare un mondo senza creatore, che un creatore pieno di tutte le contraddizioni del mondo.”
(Simone de Beauvoir, Memorie di una ragazza perbene)
Teodicea è un termine coniato da Leibnitz tramite la fusione etimologica dei termini theòs (DIO) e dike (GIUSTIZIA), riferendosi al problema della giustizia di Dio, o meglio della giustificazione di Dio di fronte al Male. In realtà la teodicea ha origini antichissime, basti pensare alla Bibbia stessa, in cui, nel libro di Giobbe, son pronunciate parole per giustificare Dio del male che gratuitamente è inflitto al devoto Giobbe. Leibnitz smuove il problema della libertà dell’uomo che comporta la questione circa la responsabilità. Il libero arbitrio presuppone tre requisiti fondamentali:
· Spontaneità, ovvero il non esser vincolati a qualcosa di esterno a noi.
· La conoscenza distinta dell’oggetto della deliberazione.
· Non esser soggetti a necessità assoluta, ovvero non esser nella condizione del non poter non.
Tuttavia è evidente che questi tre elementi non son preservati, in particolare per quanto riguarda il mondo degli infanti, ed è dunque ovvio coinvolgere Dio nel problema del Male, essendo necessaria la sua corresponsabilità e non potendoci nascondere dietro la risposta tipica del senso comune che risolve la questione chiamando in causa il libero arbitrio dell’uomo.
Ivan Karamazov (nel romanzo di Dostojevskij, I fratelli Karamazov), chiede al fratello novizio, Alioscia: “Immagina che i destini dell’umanità siano nelle tue mani, e che per rendere la gente definitivamente felice, per procurargli pace e riposo, sia indispensabile mettere alla tortura un solo essere, un bambino, e fondare sulle sue lacrime la felicità futura. Consentiresti a queste condizioni?”. La risposta è no. La tentazione di Ivan davanti al dolore innocente è quella di “restituire il biglietto d’invito” a Dio stesso, un Dio il cui attributo di onnipotenza (e di responsabilità per non impedire il dolore innocente) non è messo in discussione. Hans Jonas, in Il concetto di Dio dopo Auschwitz, mette invece in discussione il concetto dell’onnipotenza di Dio. Ne La notte di Elie Wiesel, dove l’autore, anch’egli deportato giovanissimo, ricorda l’impiccagione di un bambino, “l’angelo dagli occhi tristi” nel lager nazista: “Più di una mezz’ora restò così a lottare tra la vita e la morte agonizzando sotto i nostri occhi”. I deportati si chiedevano: “Dov’è il Buon Dio? Dov’è?”, “Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: – Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca – …”, sostenendo la tesi di un Dio che soffre in noi e con noi.
Perché tanto dolore a creature che non hanno commesso alcun peccato, a famiglie che nel metterle al mondo hanno compiuto un atto di speranza, di amore?
Si dice che sul letto di morte Romano Guardini si sia rivolto ad un amico: “Nel giorno del giudizio, certo, risponderò alle domande che Dio mi rivolgerà ma io stesso gli porrò domande: Perché la sofferenza degli innocenti?”.
Vito Mancuso risponderà così: “La creazione porta in sé la necessità che Dio soffra. Di più, che Dio venga sacrificato. Dio, che è amore, scegliendo di porre il mondo e di porlo libero, diventa agnello sacrificale. E’ un’assurdità che l’onnipotenza divina debba soffrire, proprio nell’atto che più di ogni altro rivela la sua onnipotenza. Ma questa assurdità è l’unico spazio concettuale per pensare l’assurdità dei bimbi nati malformati. La creazione porta in sé la necessità che Dio soffra. Di più, che Dio venga sacrificato. Dio, che è amore, scegliendo di porre il mondo e di porlo libero, diventa agnello sacrificale. E’ un’assurdità che l’onnipotenza divina debba soffrire, proprio nell’atto che più di ogni altro rivela la sua onnipotenza. Ma questa assurdità è l’unico spazio concettuale per pensare l’assurdità dei bimbi nati malformati.”
Una risposta conforme alla tesi di Hans Jonas, ovvero alla rinuncia dell’onnipotenza di Dio.
“ –Dov’è dunque Dio?- E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: – Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca -”,
(E.Wiesel, La notte)
Ne Il concetto di dio dopo Auschwitz Jonas parte nell’esposizione della sua tesi sostenendo la necessità di ripensare il concetto di Dio, ereditato da una tradizione bimillenaria, dopo una notte senza alba come Auschwitz. Alla luce dello scandalo della kenosi divina dobbiamo infatti necessariamente rinunciare a uno dei tre attributi classici di Dio: bontà infinita, onnipotenza e comprensibilità da parte dell’uomo.
Chi morì ad Auschwitz infatti non fu ammazzato per la fede che professava e neppure a causa di una qualche convinzione personale. Coloro che vi morirono furono per prima cosa privati di una qualsiasi dignità umana e la cosa più paradossale fu che il popolo a cui toccò tale sorte fu proprio il popolo dell’alleanza. Si deve tener presente che l’ebreo di fronte alla domanda “Quale Dio permise ciò?” si trova teologicamente di fronte a una situazione più complessa rispetto ad un cristiano, poiché per i cristiani la salvezza si prospetta nell’al-di-là, mentre l’ebreo vede nell’al-di-qua il luogo della creazione, della giustizia, della salvezza. La salvezza avviene nell’al-di-qua! Oltretutto Dio è il signore della storia e perciò Auschwitz rimette in questione il concetto di Dio tradizionalmente nostro.
Jonas rilegge dunque il mito dello Tzimtzum, secondo il quale Dio si contrae per far emergere fuori di se il vuoto, il nulla, nel quale e dal quale creò il mondo, in altre parole, poiché prima della creazione Dio “riempiva” ogni spazio con la propria presenza, in seguito, secondo questa concezione, Dio creò uno spazio in rapporto a Sé, atto che, (definito tzimtzum) sembra indicare una sua autolimitazione. Tzimtzum (o tzim tzum), infatti, è un’antica parola ebraica, che significa letteralmente “ritrazione” o “contrazione”, e fu utilizzata originariamente dai cabalisti (il primo fu Luria) in riferimento all’idea di una “autolimitazione” di Dio, che si “ritrae” nell’atto della creazione del mondo.
Tale mito costituisce quindi una versione radicale della categoria cosmologica cabbalistica, perché Dio si affida interamente al divenire del mondo e, per questo, non può più intervenire in esso. Esso rimanda perciò a un’autolimitazione di Dio che non riguarda soltanto il momento iniziale della creazione del mondo, ma l’intera sua storia! Il tema dell’autolimitazione di Dio nella creazione e della sua autolimitazione nel mondo ha come esito inevitabile la negazione dell’onnipotenza divina. Affinchè il mondo fosse per se stesso Dio deve aver rinunciato al proprio essere, deve essersi spogliato della propria divinità, deve aver alienato se a vantaggio del mondo. Ora, il mito presenta due aspetti fondamentali: da una parte un Dio sofferente, infatti il rapporto Dio-mondo, dal momento della creazione, e in particolare della creazione dell’uomo, comporta per Dio una sofferenza (ovviamente anche per la creatura, ma questa non è cosa nuova). La visione di un Dio che soffre è rivoluzionaria rispetto all’immagine di maestà divina che si possiede (anche se nella Bibbia son frequenti i passi che presentano un Dio che soffre). In secondo luogo il mito mostra un Dio che “diviene”, non più un Dio perfetto, non un Dio immutevole, ma un Dio che si cala nel tempo e non ha un’essenza perfetta e immutabile. Ed è qui che Jonas evidenzia come l’idea di un’essenza perfetta della divinità derivi dalla tradizione greca platonico-aristotelica che nulla ha a che vedere né con lo spitiro né con quanto troviamo nella Bibbia. Jonas presenta Dio come “toccato” da quel che accade nel mondo, e quando questo avviene Egli è “alterato”, la nascita e la morte toccano Dio, non gli sono estranee! Dio fa esperienza del mondo, giunge ad aver esperienza di se attraverso il mondo, Non è un Dio che è morto, scomparso totalmente, ma solamente un Dio impotente, annichilito, sofferente, più umano di quel che siamo soliti pensare, non è un Dio solipsistico, perché sceglie di rinunciare a farsi garante del proprio appagamento nel momento in cui crea, abbandonando l’idea d’esser tutto in tutto.
L’idea di un Dio onnipotente è infatti insensata in quanto una potenza è tale solo se relativa, ovvero se ha una resistenza, la potenza assoluta è pari infatti alla mancanza di potenza in quanto essa è tale solo se in relazione a qualcosa, oltre al fatto che solo di un Dio totalmente incomprensibile si può affermare che è assolutamente buono e cooriginariamente assolutamente onnipotente e che, nonostante ciò, sopporta il mondo così com’è. Se si preservano contemporaneamente onnipotenza e infinita bontà verrebbe dunque meno la comprensibilità rispetto all’uomo di Dio.
“Se c’è un dio, è un assassino malvagio.”
(Mark Twain)
Di fronte alla scelta se sacrificare la bontà o la potenza divina, in sede di teodicea, Blumenthal argomenta che il buon senso e la ragione non consentono di disconoscere o di limitare il potere di Dio. Egli propone dunque di attribuire a Dio “una bontà generale, ma non assoluta”. Sulla base di una certa tradizione ebraica, egli si dichiara pronto “ad attribuire a Dio, di tanto in tanto, delle azioni cattive” e a riconoscere che “ in alcuni imprevedibili istanti dell’ininterrotto rapporto tra uomo e Dio, Dio possa compiere il Male”. Egli aggiunge inoltre che la propensione divina al male non può essere interpretata come una reazione divina al peccato dell’uomo, ma come “una caratteristica connaturata a Dio”. Blumenthal mette perciò in discussione quello che chiama il pregiudizio dell’onnibenevolenza divina, che gli appare estraneo all’autentico messaggio della Bibbia ebraica, mentre risulta effettivamente implicato nel cristianesimo, mettendo in dubbio che Dio abbia fatto bene ad assistere alla crocifissione del Figlio e che Gesù abbia fatto bene a sottomettersi alla volontà del padre. L’immagine di Dio proposta dalla Bibbia sembra convenire con Blumenthal: Dio è geloso, collerico, vendicativo, sanguinario. Solo tornando al Dio originario sarà possibile dunque pensare Auschwitz, di fronte all’evidente sproporzione fra il peccato del popolo eletto e la punizione divina, l’unico termine adeguato è quello che indica il maltrattamento dei genitori nei confronti dei figli: abuso. L’abuso è un uso di forza sproporzionato rispetto alla mancanza commessa da un bambino innocente. Di fronte a questo Dio l’unico culto possibile è una “liturgia della rabbia e della protesta”. Secondo Blumenthal questo tipo di culto è altrettanto essenziale quanto la liturgia della lode e del ringraziamento. Il fedele maturo deve esser capace di rispondere con l’accettazione o il rifiuto di fronte a un Dio che alterna amore e maltrattamento. Di fronte alla Shoah, i fedeli devono chiedere conto a Dio ed esigere che egli stesso invochi il loro perdono. In Blumenthal perciò la teodicea tradizionale sopravvive per intero, tranne che per il suo scopo ultimo, che non è e non può esser la giustificazione di Dio, ormai pensato in chiave antropomorfica anche dal punto di vista morale.
Figure del Male nella Bibbia
Dopo l’episodio del vitello d’oro, Mosè, chiede a Dio di mostrargli la sua gloria, e Dio gli risponde: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo… Vedrai il mio dietro, ma il mio volto non si può vedere” (Es 33, 20.23). Il volto di Dio è tutto ciò di cui abbiamo sete e fame, è gioia, riposo, gusto, ritrovamenti innumerevoli. Ed è anche spiegazione. “Tutte le cose contraddittorie e storte che gli uomini avvertono sono chiamate la schiena di Dio. La sua faccia invece, dove tutto è armonia, nessun uomo la può vedere” (Rabbi di Kozk). “La schiena”, “il dietro”, “le spalle”, ma la parola ebraica si potrebbe anche leggere “ il mio dopo”, quello che resta dopo il passaggio di Dio: la sua presenza o assenza nella storia. La Bibbia, spesso, risponde al problema del Male tramite la dottrina della retribuzione, risposta che ho già argomentato esser infondata e che lo stesso Giobbe nella Bibbia smentisce, il quale continua ad interrogarsi su quale colpa possa aver lui commesso dal momento che la coscienza non lo accusa! E’ così che per l’uomo si genera il mito della Genesi 3, della caduta (peccato originale): a fronte dell’immagine del Dio buono e onnipotente l’uomo non ha potuto far altro, per comprendere, che incolpare se stesso dell’origine del Male, cercando una risposta nel mito simbolico del frutto proibito. Risposta che non risponde, proprio per la presenza, nella favola, di quel serpente parlante più tardi identificato col diavolo. In particolare nella Bibbia sussistono due libri che sembrano esser totalmente estranei a un testo sacro e che riguardano il problema del Male: Qohelet e Giobbe.
“Allora ho proclamato più felici i morti, ormai trapassati, dei viventi che sono ancora in vita; ma ancor più felice degli uni e degli altri chi ancora non è e non ha visto le azioni malvage che si commettono sotto il sole.” (Qohelet 4, 1-3)
Nel Qohelet Dio non viene mai interpellato, è un libro della Bibbia fuori dagli schemi che si interroga sul senso del creato e della vita in modo quasi nichilista. Gli studiosi ritengono che il libro fu composto nel IV o III secolo a.C. L’autore mette le sue parole in bocca al re Salomone, considerato il sapiente per eccellenza, seguendo l’uso, di attribuire a grandi personaggi dell’antichità opere ispirate ai loro insegnamenti. E’ un’indagine al senso della vita, senza un ordine preciso, una sorta di raccolta di pensieri di quest’ uomo, simbolo di ciascuno di noi, le sue riflessioni son comuni a qualunque uomo “lucido”. Il libro trova un’affinità con l’altrettanto discusso libro di Giobbe, nel quale vien posto in primo piano il problema della teodicea, nonostante a primo acchito i due libri possano sembrare anomali in un testo sacro essi sono invece il fondamentali nella Bibbia. La fede infatti non consiste in un atteggiamento remissivo, ma talvolta “ribelle”; interrogarsi su Dio e sull’esistenza, voler sapere di più è un esigenza connaturata all’uomo e giusta in un certo senso, poiché indice del non voler rinunciare sic et simpliciter a Dio di fronte alle contraddizioni del nostro vivere. Il Qohelet infatti denuncia la monotonia e l’ingiustizia di questo mondo, rimandando a un mondo a venire: si noti l’insistenza delle parole “sotto il sole” (“Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco tutto è vanità e un inseguire il vento” 1,14; “…non c’è alcun vantaggio sotto il sole” 2,11).
La prima denuncia che pone Qohelet è l’inutilità dell’operato dell’uomo: la vita è ciclica, le nostre azioni non mutano il corso degli eventi mentre “il sole sorge e il sole tramonta”, ma successivamente subentra Il Problema : “Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo” (1,8), è il problema del Male, il mondo soffre e non se ne conosce il perchè, tuttavia qua nessun Dio è chiamato in causa, non si domanda a Lui una giustificazione del Male, come avviene in Giobbe, ma è sottintesa. Il terzo tema fondamentale è quello dell’ingiustizia del mondo, la gioia e il dolore non sono retributivi, anzi è frequente che il giusto soffra e l’ingiusto goda, e comunque la sorte del giusto e dell’ingiusto è la medesima, “ Allora ho pensato: -Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Allora perché ho cercato d’esser saggio? Dov’è il vantaggio?- E ho concluso: -Anche quaesto è vanità-”(2,15).
Passa poi in rassegna le ingiustizie sociali, le fatiche inutili, le oppressioni impunite sotto il sole e il pianto degli oppressi inconsolato.
La frase più famosa di questo libro è anche la formulazione della tesi fondamentale espressa con il vocabolo caro a Qohelet: “hebel”, che qui è costruito in una forma superlativa “hebel habalim” di solito tradotta con “vanità delle vanità”, ma il cui senso sarebbe “un immenso vuoto”. Questo vocabolo ebraico indica il “soffio”, il “fumo” o la “nebbia” che svanisce; in senso figurato quindi indica l’“inconsistenza”, il “vuoto”, la “nullità”, (”Hebel sono anzitutto gli idoli e tutti i culti pagani; hebel è l’esistenza umana, considerata e definita come un soffio, come un’ombra che passa” Salmo 144,4). Qohelet usa questo termine trentotto volte, applicandolo a tutta la realtà: terra, sole vento e mare, per indicare la realtà nella sua totalità. Il capitolo più drammatico resta però, a mio giudizio, il terzo, in cui Qohelet riflette sul tempo: ci mostra 14 coppie di tempi e di polarità (poiché sono tempi che abbracciano tutta la realtà in essi contenuta). Le cifre son simboliche, i risultanti 28 elementi possono essere scomposti nel 7, che è segno di pienezza, e nel 4, che indica i punti cardinali e quindi tutto lo spazio: ciò ci riporta alla constatazione che tutta la storia e tutto il mondo sono come un disco che ripete la stessa musica. Siamo stati dotati da Dio della capacità di intuire sia il futuro, sia l’insieme del tempo, sia l’eterno (il vocabolo ebraico ‘olam usato in 3,11 può significare tutte queste cose), ma siamo coinvolti in una storia che sa solo ripetersi e non ha nessuna meta. Siamo di fronte a una visione della storia molto anomala, diversa da quella proposta dal resto della Bibbia. Dopo aver gettato uno sguardo sui cicli della storia votati a un’infinita ripetizione, Qohelet considera il tema della morte. Egli si basa sulla tradizionale dottrina secondo la quale Dio, creando l’uomo, gli infuse uno “spirito vitale”, che è alla base anche di ogni altra creatura vivente (Genesi 2,7). Ora, quando questo spirito, che tiene in vita la creatura umana, è ritirato nella morte da parte di Dio, l’uomo cade nella polvere, cioè negli inferi, che sono un luogo privo di luce, di vita, di significato. Questo accade anche agli animali. La conclusione è inesorabile: il destino di esseri umani e di bestie è identico; non c’è nessuna nostra superiorità.
Il Qohelet si chiude con immagini funebri e di rottura, in attesa che l’uomo precipiti nella polvere e il soffio vitale venga ritirato da Dio. Una considerazione amara su una vita votata alla morte, che lascia senza risposta l’interrogativo di Qohelet sul senso della vita, come è senza risposta il medesimo interrogativo di ciascuno di noi.
“Oh potessi saper dove trovarlo!”
(Giobbe, 23, 3)
Il libro di Giobbe ruota attorno a una serie di domande legate al problema del Male , perciò è diventato tanto caro alla riflessione religiosa ed esegetica quanto a quella filosofica. Giobbe è un uomo che subisce il male gratuitamente da parte di quel Dio che ha sempre amato e rispettato, è un uomo-simbolo di molti uomini che nonostante una condotta integerrima subiscono dolori tremendi. ll libro inizia con un racconto in prosa. Giobbe, servo di Dio, viveva ricco e felice. Dio permise al Satan di tentarlo per vedere se fosse rimasto fedele anche nella cattiva sorte. Colpito prima nei beni e poi nei figli, egli accetta che Dio si riprenda quel che gli aveva dato. Ammalatosi di una malattia ripugnante e dolorosa, rimane sottomesso e respinge la moglie che gli consiglia di maledire Dio. Allora tre suoi amici, Elifaz, Bildad e Zofar vengono a compiangerlo (capitoli 1 e 2). Giobbe e gli amici confrontano le loro concezioni riguardo alla giustizia divina. Tutti e tre, però, difendono la tesi tradizionale secondo la quale se Giobbe soffre significa che ha peccato. Ma alle loro considerazioni teoriche Giobbe contrappone la propria esperienza dolorosa e le ingiustizie di cui il mondo è pieno; nella sua condizione di turbamento morale, il grido di rivolta si alterna a espressioni di sottomissione. A questo punto interviene un nuovo personaggio, Elhu, che dà torto sia a Giobbe che agli amici, tentando di giustificare la condotta di Dio. Viene interrotto da Jhwh in persona che di mezzo al turbine, cioè nello scenario delle antiche teofanie, risponde a Giobbe. Il libro si conclude con un epilogo in prosa: Jhwh rimprovera i tre interlocutori del malcapitato e rende a quest’ultimo, moltiplicandoglieli enormemente, i beni che prima dell’accaduto possedeva. Gli dona nuovi figli e figlie e così il libro si conclude.
Inizialmente il libro ci presenta Giobbe in modo troppo generico, infatti , di solito la Bibbia è molto specifica nelle descrizioni. Questo ci pone davanti a un dubbio : qual è lo status di realtà di ciò che leggiamo? In più parla di una “terra di Uz”, di cui abbiamo solo due riferimenti nella Bibbia e anche quelli molto generici. Per ultimo, riguardo la presentazione di Giobbe nel testo ebraico originale si dice “Giobbe il suo nome” e non “il suo nome era Giobbe”, i rabbini commentano questa espressione in quanto nella Bibbia per i personaggi negativi è utilizzato “X il suo nome”, mentre per i personaggi positivi si utilizza l’altra formula (“il suo nome era X”).
Questo è il mistero dell’identità di Giobbe, che poi è il mistero dell’identità di ognuno di noi. L’importante non è chi sial’uomo in questione, ma cosa significa il testo. Ognuno di noi è “un Giobbe”.
Sempre riguardo alla confusionaria figura del protagonista c’è da dire che compare in più testi rabbinici e anche in altri punti della Bibbia, l’identità si fa così sempre più ambigua e incerta. E’ chiaro dunque, trovandoci qui nell’haggadà, ovvero nella narrazione, che si tratta di un testo simbolico, simbolo della condizione del giusto sofferente.
A una lettura superficiale sembrerebbe che Giobbe sia stato intelligente poiché ha giocato una partita a poker e l’ha vinta. Ha scommesso che la fiducia in Dio non sarebbe stata mal riposta e parrebbe aver vinto tale scommessa. Tuttavia c’è da ribadire che nonostante la conclusione del libro sembri serena, in realtà così non è, poiché non è la stessa moglie che Dio gli rende, non gli stessi figli, sebbene si tratti di un libro simbolico, oltre a ciò la risposta finale della divinità, non è affatto una risposta, ma un elenco delle meraviglie del mondo, quasi come se il mondo non fosse anche carico di mostruosità, e un rimarcare la piccolezza dell’uomo di fronte a Dio e quindi l’impossibilità di comprenderlo. Una risposta che, in realtà, non risponde ai lamenti di Giobbe. I quattro interlocutori, poi, rappresentano, tutta la migliore cultura arabo-ebraica dominante, la quale, di fronte al particolare caso in questione: le sofferenze del giusto, sostiene la tesi che Giobbe deve aver mancato in qualcosa o stia pagando il prezzo d’una colpa altrui. In ogni caso di fronte a Dio egli ha torto, come d’altra parte ogni uomo.
Le risposte degli amici al dramma della sofferenza avvertita come ingiusta sono le seguenti:
- la felicità degli empi è di breve durata;
- le disgrazie del giusto saggiano la sua virtù;
- la pena castiga colpe inavvertite o commesse per ignoranza, debolezza, omissione;
- Dio castiga per prevenire colpe più gravi e per guarire il peccato d’orgoglio (quest’ultima giustificazione della sofferenza è la più originale, essendo le altre già delineate nella letteratura precedente).
Il cristianesimo risponderà all’angoscia di Giobbe con le parole di S. Paolo: “le sofferenze del tempo presente non sono affatto da paragonare con la gloria che ha da essere manifestata a nostro riguardo” (Rm 8,18); “Perché la nostra momentanea, leggera afflizione ci produce un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria, mentre abbiamo lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; poiché le cose che si vedono son solo per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne” (2 Cor 4,17-18)”. A una domanda “terrena” il cristianesimo darà una risposta “ultraterrena”, una risposta che di “storico” non avrà nulla. Il cristianesimo infatti dà per scontato che lo il Male sia invincibile sulla terra e che il Bene sia possibile solo nei cieli. Ecco perché Giobbe attende ancora una vera risposta “umana”. Ma non dimentichiamo che gli ebrei non credevano in una retribuzione ultraterrena. Per loro il caso di un giusto sofferente risultava inspiegabile in una prospettiva di lungo termine. La sofferenza andava considerata soltanto come una prova da superare, delimitata nello spazio e nel tempo, dopodiché la pazienza, la lungimiranza, l’accortezza e tutte le altre virtù del giusto sarebbero state premiate, hic et nunc. Gli ebrei (o comunque le popolazioni semitiche) non avevano il senso cristiano dell’aldilà, proprio perché s’impegnavano con tutte le loro forze a migliorare le condizioni di vita della loro esistenza, dentro o fuori della “terra promessa”. La rinuncia volontaria ai beni terreni per vivere un’esistenza povera e più spirituale era per loro inconcepibile; anche perché si aveva bisogno di credere che la fede religiosa trovasse sulla terra una conferma ben visibile e tangibile. Qui sta il dramma di Giobbe e anche il dramma di coloro che furono coinvolti nella Shoah; quando Dio fa la scommessa con il Satan, è Dio stesso a “stuzzicarlo” domandandogli circa Giobbe e non c’è motivo, noi lo sappiamo, per cui Giobbe debba subire certe pene, checché ne dica Dio nel soliloquio finale! Oltre a ciò bisogna aggiungere che mentre per la tragedia del singolo è possibile chiamare in causa le tesi, sebbene infondate, dei quattro amici, per una tragedia collettiva diventa molto più problematico cercare un perché, infatti è impossibile dare un giudizio di colpevolezza a una moltitudine! Altra differenza con la Shoah è che Giobbe ne è uscito vivo dal suo dramma, gli ebrei no, il parallelismo non combacia perchè Auschwitz è oltre le categorie di pensiero del rapporto uomo-Dio precedenti.
Ivan Karamazov di fronte al Male
Tutte le aporie sul problema della sofferenza dell’innocente, Dostoevskij per bocca di Ivan Karamazov le ha espresse come se uno spirito di profezia gli avesse fatto vivere il nostro secolo, riporto perciò il monologo che precede la Leggenda del Grande Inquisitore:
“Ascoltami: io ho preso come esempio i soli bambini perché la cosa riuscisse piú evidente. Delle altre lacrime umane, di cui è imbevuta tutta la terra, dalla crosta fino al centro, non dirò nemmeno una parola, avendo di proposito ristretto il mio tema. Io sono un verme e confesso in tutta umiltà che non posso comprendere a qual fine tutto sia stato cosí congegnato. Gli uomini stessi, dunque, sono colpevoli: era stato dato loro il paradiso, essi hanno voluto la libertà e hanno rapito il fuoco al cielo, sapendo che sarebbero diventati infelici; non c’è quindi motivo di compiangerli. Oh, nel mio povero spirito terrestre euclideo, io so soltanto che il dolore esiste, che non ci sono colpevoli, che ogni cosa scaturisce direttamente e semplicemente da un’altra, che tutto scorre e si equilibra; ma, già, queste non sono che bubbole euclidee, io lo so bene, e non posso adattarmi a vivere in conformità di esse! Che importa che non ci siano colpevoli, che ogni cosa scaturisca direttamente e semplicemente da un’altra e che io lo sappia! A me occorre un compenso non nell’infinito, chissà dove e chissà quando, ma già qui sulla terra, e tale che io stesso lo possa vedere. Io ho creduto e voglio vedere anch’io, e, se allora fossi già morto, mi si risusciti, perché se tutto dovesse avvenire senza di me, sarebbe una cosa troppo ingiusta. Io non ho mica sofferto per concimare col mio essere, con le mie colpe e le mie sofferenze, la futura armonia in pro di qualcuno. Io voglio vedere coi miei occhi il daino ruzzare accanto al leone e l’ucciso alzarsi ad abbracciare il suo uccisore. Io voglio essere presente quando tutti apprenderanno di colpo perché tutto sia stato cosí. Su questo desiderio poggiano tutte le religioni della terra, e io credo. Ma però ecco i bambini: che ne farò? È questo il problema che io non posso risolvere. Per la centesima volta ripeto: le questioni sono molte, ma ho preso soltanto i bambini, perché qui è ineluttabilmente chiaro ciò che ho bisogno di dire. Ascolta: se tutti devono soffrire per acquistare con la sofferenza l’eterna armonia, che c’entrano qui i bambini? Dimmelo, ti prego! Non si capisce assolutamente a che scopo debbano anch’essi patire e perché debbano acquistarsi con le sofferenze quell’armonia. Perché hanno servito anch’essi da materiale e da concime per preparare a vantaggio altrui l’armonia futura? La solidarietà fra gli uomini nel peccato io la comprendo, comprendo la solidarietà anche nella espiazione: ma la solidarietà nel peccato non riguarda i bambini e, se la verità sta realmente nel fatto che anche loro sono solidali coi padri in tutti i delitti da questi commessi, una tale verità non è certo di questo mondo e mi riesce incomprensibile. Qualche bello spirito dirà magari che tanto il bambino crescerà e avrà il tempo di peccare, ma non è mica cresciuto quel fanciullo di otto anni contro il quale furono sguinzagliati il cani! Oh! Aljòsa, io non bestemmio! Comprendo bene come dovrà scuotersi l’universo quanto tutti in cielo e sotterra si fonderanno in un inno solo e tutto ciò che vive o ha vissuto griderà: “Tu hai ragione, Signore, giacché le Tue vie ci sono rivelate!”. Quando la madre abbraccerà il carnefice che fece straziare il figlio suo dai cani, e tutt’e tre proclameranno fra le lacrime: “Tu hai ragione, Signore!”, allora certo sarà l’apoteosi della conoscenza e tutto si spiegherà. Ma ecco, proprio qui è il busillis, è proprio questo che io non posso accettare. E mentre sono sulla terra mi affretto a prendere le mie disposizioni. Vedi, Aljòsa, se vivrò anch’io fino a quel momento o se risusciterò per vederlo, potrà realmente accadere che anch’io esclami con gli altri, vedendo la madre abbracciare il carnefice del suo bimbo: “Hai ragione, Signore!”, ma io questo non lo voglio esclamare. Finché c’è ancor tempo, corro ai ripari e perciò rifiuto assolutamente la suprema armonia. Essa non vale una lacrima anche sola di quella bambina martoriata che si batteva il petto col piccolo pugno e pregava il “buon Dio” nel suo fetido stambugio, versando le sue lacrime invendicate. Non la vale, perché quelle lacrime son rimaste da riscattare. E dovranno essere riscattate, altrimenti non ci potrà essere neppure l’armonia. Ma come, come le riscatterai? È forse possibile? Col vendicarle piú tardi? Ma a che mi serve vendicarle, a che mi serve l’inferno per i carnefici, a che può rimediare l’inferno, quando i bambini sono già stati martirizzati? E che armonia è questa, se c’è l’inferno? io voglio perdonare, voglio abbracciare, e non che si continui a soffrire. E se le sofferenze dei bambini hanno servito a completare quella somma di sofferenze che era necessaria per l’acquisto della verità, io affermo fin d’ora che tutta la verità non vale un simile prezzo. Non voglio, insomma, che la madre abbracci il carnefice che fece straziare il figlio suo dai cani! Si guardi bene dal perdonargli! Perdoni, se vuole, per proprio conto, perdoni al carnefice la sua smisurata sofferenza materna, ma non ha il diritto di perdonare la sofferenza del suo bimbo straziato; si guardi dal perdonare al carnefice, anche se gli perdonasse il fanciullo stesso! Ma se è cosí, se non si ha il diritto di perdonare, dov’è l’armonia? C’è nel mondo intero un essere che possa perdonare e che ne abbia il diritto? Io non voglio l’armonia, non la voglio per amore verso l’umanità. Preferisco che le sofferenze rimangano invendicate. Rimarrei piuttosto col mio dolore invendicato e col mio sdegno insaziato, anche se avessi torto! Troppo poi si è esagerato il valore di quell’armonia, l’ingresso costa troppo caro per la nostra tasca. E, perciò mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso. E, se sono un galantuomo, ho l’obbligo di restituirlo al piú presto possibile. E cosí faccio. Non è che non accetti Dio, Aljòsa, ma Gli restituisco nel modo piú rispettoso il mio biglietto.”
Parlando dei Karamazov, Dostoevskij scriveva: “Il problema principale, che sarà trattato in tutte le parti di questo libro, è lo stesso di cui ho sofferto consciamente o inconsciamente tutta la vita: l’esistenza di Dio”.
Ivàn Karamazov, un giorno, si confida con il fratello Aljòsa e nascono così le pagine più tormentate del romanzo che rispecchiano le idee di Dostoevskij sulla natura umana e sul destino degli uomini. Nel monologo sopra riportato Ivan riflette circa la sofferenza degli innocenti, concludendo che se la sofferenza del giusto, come lo può essere il bambino, il quale non può fare il Male poiché non ha i requisiti per scegliere liberamente di farlo, è necessaria per l’armonia del mondo egli si affretta a restituire il biglietto poiché “l’ingresso costa troppo”.
Bibliografia
- Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, una voce ebraica, il melangolo, Genova, 2004
- Paolo De Benedetti, Quale Dio? Una domanda dalla storia, Morcelliana, Brescia, 1997
- Stefano Borgi, I filosofi e il Male, storia della teodicea da Platone ad Auschwitz, Dipartimento di Studi Storico-Sociali e Filosofici, Università degli Studi di Siena, Milano, 2006
- Hannah Arendt, La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 1995
- Teologia politica 1, Teologie estreme?, a cura di R.Panattoni e G.Solla, Marietti 1820, Cannara, 2004
- Massimo Giuliani, Auschwitz nel pensiero ebraico, Frammenti delle “teologie dell’Olocausto”, Morcelliana, Brescia, 1998
- Mario Trombino, Il Problema del Male, Innocenza e libertà nel pensiero moderno, Armando Scuola, Roma, 2003
- Elie Wiesel, La notte, Giuntina, Firenze, 2007
- Enzo Collotti, La soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei, Newton Compton, Milano, 2005
- Marco Ravera, Il Male in Dostoevsky, Figure del male, Brescia, 1991-1992
- Paolo De Benedetti, Il male dopo Auschwitz, Figure del male, Brescia, 1991-1992
- Corso pomeridiano “Elementi di teodicea”, 2008/2009, a cura di Luigi Piovani e Francesco Capretti
- Giobbe una lettura ebraica, corso organizzato dal gruppo culturale SELICHOT, 2010
- http://www.jesuschrist.it/Lettura.asp?sez=3&arg=21&lib=31&numc=12, 02.04.2010.
- La Sacra Bibbia, Edizione ufficiale della CEI, 1984.
- Piero Stefani, L’antigiudaismo storia di un’idea, Editori Laterza, Bari 2004
M.P.
ottimo intervento su un argomento vasto e millenario. Alla tua trattazione manca solo un autore che voleva tornare all’ebraismo, Dietrich Bonhoeffer 🙂
Ragionando sul problema della sofferenza e il suo rapporto con il Bene (inteso qui come Dio): La questione è gigantesca. Sono arrivato a pensare che, in faccia alla sofferenza, non si può fare una riflessione del “perché” ma si “per cosa “, a quale scopo esiste. Il “perché” esige giustificazione e, tante volte, noi come umani non riusciamo a capire il disegni della fatalità. Lo imponderabile. Il “per cosa?”,”a quale scopo?”, eleva il nostro pensiero a qualcosa di superiore. Senza risposte immediate. La domanda ha il potere di calmare la nostra mente dato che porta a credere che la sofferenza ci può condurre a un Bene maggiore. Questo fa si che il peso di questa sofferenza sia più leggero.
Un altro perché : Perché Dio non ha distrutto il Male permettendo così solo la esistenza del Bene? Lui é Onnipotente. Jacob Boehme, Filosofo tedesco del 500, risponde a questa domanda dicendo che senza la contrarietà non possiamo avere coscienza di noi stesse, se no ci fosse resistenza , non ci sarebbe la ricerca del Bene, che rimarrebbe occulto per la vita naturale. Il Male, come volontà contraria , fa che il Bene, o la volontà, voglia ritornare a la sua esistenza e causa prima; Dio.
La sofferenza permette vedere , sentire, sensibilizzare cose che tante volte non è concesso percepire . Il mondo materializzato apre spazio per la proiezione di un altro mondo .
altra domanda : come sarebbe il mondo con il solo bene ??? c’è ne accorgeremmo di vivere nel bene ???
Silvio, questo è per me rimanere in una teologia che parla di dio sul male o nonostante il male. L’errore di tutte le teologie è questo, giustificare l’esistenza
geniomaligno: credo che un ragionamento teologico che non abbia Dio, o l’assenza di Dio, come protagonista clandestino, è privo d’interesse.
Se non una contraddizione in termine ….
Unde malum? La domanda è valida, anche senza un Dio: se rifiutiamo semplicemente di porci il problema dell’esistenza\inesistenza di Dio, il problema del male rimane, intatto.
per allargare e chiarire la mia posizione, consiglio anche questo intervento https://www.filosofiprecari.it/wordpress/?p=662
Sì, ridurre il conoscibile a schema, semplificare ogni cosa e farcela amica è nel comportamento della specie umana.
Altrimenti, perchè creare Dio?
Non abbiamo modo di affrontare la complessità del mondo attorno a noi, non solo perchè ignoranti, cosa che sarebbe facile da affrontare, ma soprattutto perchè non siamo in grado di sopportare la mancanza di un significato: è tutto qui il problema, la nostra mentre grida eternamente perchè, ma non per il fatto che non conosce la meccanica delle cose, piuttosto per la mancanza di una logica intriseca, di un primum movens che giustifichi tutto ciò che avviene poi.
Il dialogo di Ivan e’ bellissimo e misura poeticamente il riuto di esserci “restituendo il biglietto” ma nella realta’ delle limitate scelte umane, cioe’ nella nostra esperienza sappiamo che il male e’ irrifiutabile, va attraversato, accolto dentro di noi se nostro o vissuto nella presenza se di altri, anche se la sua natura indicibile ci sfugge divenedi atto di responsabilità; atto di piena testimonianza
Il monoteismo non è in grado di spiegare l’esistenza del male. Solo ammettendo l’esistenza di due principi assoluti (Male e Bene)si può dare una spiegazione al problema del male. Tale visione dualistica era stata proposta dallo Gnosticismo, dal Manicheismo, dal Catarismo e da altri movimenti religiosi tutti vittime di feroci persecuzioni.
Ciao a tutti, beli e bruti!