Osservazioni a margine della lettura di Toni Negri sull’autostrada, ovvero: tirannia del tempo e momento utopico, da Wu Ming.
Stiamo evidentemente attraversando una fase “mutante”, nel senso che il presente sta subendo delle mutazioni che lo renderanno sicuramente “altro”. Questa fase di trasformazione sembra non essere un banale momento di crisi, intesa come distruzione del presente per anticipare il futuro catastrofico. Sembra di essere immersi in un kairòs (καιρός) costituente. Un evento che si traduce sulla Terra innanzitutto tramite una nuova epoca di enclosures, di privatizzazioni dell’immaginario collettivo, dello spazio politico e dello spazio sociale.
Nella tradizione marxista , a cui qui possiamo solamente fare cenno, la crisi era comunemente intesa come un elemento proprio dello sviluppo del ciclo capitalistico, come il progetto politico che andava a riqualificare il rapporto tra Capitale e Lavoro aprendo nuove possibilità di profitto ed accumulazione. Provocava quasi una attualizzazione del futuro, una sua presentificazione, per evitare la catastrofe annunciata ed abbondantemente analizzata. La caratteristica peculiare della relazione tra Capitale e Lavoro, la sua metafora economica e politica, sarebbe proprio quella del ciclo, che andrebbe periodizzandosi per innovarsi nei momenti di crisi. La forma che assume lo sviluppo, il progresso tecnico-scientifico-economico, sarebbe, quindi, il conflitto tra l’esistenza del movimento operaio dentro il piano capitalistico e la contraddittoria necessità del Capitale di associarsi ed organizzarsi per reprimere o canalizzare questa presenza. La crisi, quindi, intesa come parte integrante del ciclo, è il momento dell’andare oltre, dell’etica del sacrificio. Ma il ciclo è sempre un ciclo storico, una successione ordinata di avvenimenti. È storia. Nella tradizione classica, scrive Antonio Negri, “il tempo è l’immagine mobile dell’immobilità dell’essere. In questa tradizione il tempo è dunque una modalità estrinseca: esso si presenta come illusione o come misura, mai come evento, mai come il questo qui”.
Nel tempo “bucato” e stratificato di Deleuze e Guattari, invece, non ci sarebbe posto per la crisi. È un concetto che non sta sul piano di immanenza del pensiero, che rifiuta la linearità inevitabile della storia. C’è l’Evento, esiste la pura eventualità. Esiste il Kairòs. “Kairòs è, nella concezione classica del tempo, l’istante, ovvero la qualità del tempo dell’istante, il momento di rottura e di apertura della temporalità”. Al tramonto, infatti, l’Evento potrebbe ribellarsi, dimenarsi, scalciare. Cominciare a far del male. Farebbe male allo status, a tutto quello che si è sempre pensato come senso comune. Si scoprirebbe il Kairos, il momento opportuno della decisione o dell’azione, che si sposta da una parte o dall’altra per determinare le vallate della storia. Sarebbe un cadere oltre l’ordine delle colonne d’Ercole. Kairos è la fine del Mondo. È la vera palingenesi senza missione. Senza messianismo.
Negri, in un opuscolo teoretico molto interessante dal titolo Kairòs, Alma Venus, Multitudo, sostituisce il concetto al nome, inteso come un segno linguistico assegnato ad una “cosa”. Nominare qualcosa, secondo le riflessioni di Negri, significherebbe darle esistenza presente, segnarla ed identificarla in uno spazio attuale. Questo nominare la cosa aprirebbe la possibilità dell’Evento, che fa stare, nello stesso tempo, tanto la cosa quanto l’atto del nominarla. Kairòs è creazione, è generazione, è pensiero partoriente nell’istante in cui nomina l’evento legandolo al suolo. È l’Evento creativo che si apre sull’orlo del tempo presente.
Ad una lettura più attenta, si intravedono forti tratti in comune tra il concetto proposto da Deleuze e Guattari ed il Kairòs di Anontio Negri: “Kairòs è singolarità. Ma le singolarità sono molteplici. Quindi, davanti ad una singolarità, vi è sempre un’altra singolarità ed il kairòs è, per così dire, moltiplicato in altri kairòs”.
In realtà la differenza sostanziale tra l’impostazione dei filosofi francesi e la riflessione teoretica di Negri sta, appunto, tra la geofilosofia da una parte ed il tentativo di costituire un materialismo della prassi (che avrebbe come elementi caratterizzanti la dimensione della temporalità come tessuto ontologico del materialismo, la resistenza come potenza affermativa dell’essere e la soggettivazione del divenire) dall’altra. D’altronde proprio la storia è stata la grande ossessione del XIX secolo, lo sviluppo, l’accumulazione (del Capitale e degli esseri umani). Progresso.
Ad ogni modo, lo spazio, oggi, sembra non essere più subordinato al tempo. Il territorio (sempre inteso come rapporto geofilosofico tra terra e pensiero) si erge contro l’imperialismo della temporalità metafisica. Qui ed ora del concetto per rompere innanzitutto l’ontologia classica del tempo, che ha caratterizzato il progresso e lo sviluppo del pensiero occidentale (in ambito politico, filosofico e scientifico). Fuori dall’Europa. Ma anche fuori dal materialismo, inteso come un forma statica, l’unica entro cui si riconoscerebbe l’orizzonte del mondo avvenire.
Tramonto, quindi. Tramonta anche il materialismo “classico”, tramontano i duelli tra le modalità tattiche e strategiche, tra le pratiche di lotta e di resistenza.
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