fonte: GLOBALPROJECT
Il libro di Nanni Balestrini che viene ora ripubblicato parla di invisibili attori della lotta di classe tra gli anni ’70 ed ’80, in particolare nell’Italia del Nord e poi dentro le galere del Regno. Invisibili sono questi soggetti perché inafferrabili, esseri in mutazione, metamorfosi in atto: ma oggi che dire di questi invisibili (ed anche di questo romanzo) se non che non si tratta più di una storia antica e dismessa quanto invece di una tendenza attualissima, allora intravista e poi percorsa nel suo divenire?
La ripubblicazione de Gli invisibili ha il vantaggio dunque, oggi, di parlare di soggetti proletari la cui natura di classe è stata finalmente rivelata: gli invisibili di ieri sono i proletari di oggi, i lavoratori immateriali, il precariato cognitivo, la nuova figura dell’operaio sociale nei movimenti della moltitudine. Ce l’hanno fatta, questi maledetti, ad attraversare una rivoluzione nella composizione del lavoro ed una feroce repressione politica, a passare, lottando, dalle fabbriche alla società e (sempre producendo) dalla società alla galera (sempre ribellandosi). Ed ora dove andranno? Quella elite del movimento operaio che tradì e trascinò nel carcere gli invisibili, oggi si guarda intorno paurosa, incapace di costruire politica, teme di non poterlo fare se non riprende contatto con quel movimento secolare di trasformazione: ma non potrà mai farlo!
Di fatto, oltre il tradimento del movimento operaio (che così pesante è stato soprattutto in Italia), gli invisibili sono andati avanti. Mentre negli anni ’80 organizzavano, nelle galere, delle rivolte e nelle metropoli, i primi centri sociali; mentre negli anni ’90 hanno organizzato il movimento della Pantera; alla fine dei ’90 si sono fatti zapatisti e tute bianche, movimento no global e tutto il resto che è avvenuto ed avverrà. E’ interessante notare che ognuno di questi movimenti ha sempre cercato di darsi nomi anfibi, irriconoscibili, che potevano essere bianchi ma anche scuri nell’ombra che il bianco produceva, che potevano essere felpati come il passo di un felino, che potevano d’altronde porsi come resistenza assoluta proprio in nome della singolare ambiguità dei comportamenti disobbedienti. Questi movimenti, dopo gli anni ’70 hanno tutti compreso che ricominciare da capo non significa tornare indietro ma piuttosto estendersi, penetrare nuovi spazi e nuovi tempi, coordinarsi e coordinare, cercare lo scontro nella misura del consenso e il consenso nella misura dello scontro. Il fatto è che, a confronto dei partiti e delle sopravvivenze dell’«ancien regime», gli invisibili si piantano ora nella realtà.
Gli invisibili di Balestrini, già nei primi anni ’80, cominciavano a configurare un soggetto moltitudinario, singolare, trasversale, che non voleva mai ridursi a massa ma che voleva in ogni caso essere un insieme… Ed anche quando le reminiscenze ideologiche lo riportavano dentro nomi e linguaggi che suonavano antico, anche in quel momento quel soggetto era capace di inventarsi nuovo. Ricordate la scena dell’incendio dei foglietti di carta e dei quaderni e di tutto quello che poteva bruciare, quando i rivoltosi di Trani, chiusi dopo il massacro nelle loro celle, illuminano gettando questo fuoco le notti di tutti i carceri dei proletari anni ’70? Questo è il linguaggio della moltitudine.
Ma se fosse solo per questo, per questa realtà che descrivendo morde, il libro di Balestrini potrebbe essere solo una documentazione storica o sociologica. Il fatto grande di questo libro è che l’invisibile diviene un soggetto letterario. «Larvatus prodeo», il proletario avanza mascherato dalla sua invisibilità. E dalla trasformazione che rappresenta in quegli anni ’70, mai abbastanza maledetti dai padroni e dai loro servi del movimento operaio: la trasformazione invisibile, eppure forte, dal lavoro materiale al lavoro immateriale, dalla rivolta contro il padrone a quella contro il patriarcato, dalla metamorfosi dei corpi che dentro questo movimento si determina, dall’immaginazione che questa nuova condizione storica (intendiamo sociale e politica) determina sulla lingua. Il libro di Balestrini è un nuovo grande esperimento (il primo era stato Vogliamo tutto) per mostrare il corpo degli sfruttati come attore del processo rivoluzionario. E noi aggiungiamo: del passaggio dal moderno al postmoderno, dall’età nella quale del socialismo si sognava, all’età nella quale il comunismo si comincia a vivere (e per quelli che sorridono dell’affermazione, «giù la testa, coglione»). E’ fuori dubbio che questo è un romanzo didattico: ma chi impara da chi? Il romanzo dal reale o – questo sembra il segno della letteratura rivoluzionaria – la realtà dal romanzo? Mi diverte giocarmi la seconda ipotesi e chiedere all’anatomo-fisiologo della lingua in questione (Balestrini) di essere d’accordo con me: nella sua ambiguità, nelle difficoltà che registra, comunque questo libro ha anticipato la realtà, ha trasformato il reale. L’ambiguità è, in questo caso, nell’attore reale e nell’autore della narrazione, una chiave legata ad un dispositivo di potenza, politica e costituente, povera nella sua genesi e ricchissima invece nella serie di effetti che produce.
Un atto di amore? Questo libro ha la duplice figura di un tessuto biopolitico della postmodernità: ecco un altro dei grandi concetti del pensiero rivoluzionario contemporaneo che Balestrini intuisce ed inventa, dopo quello di moltitudine. Il ragionamento potrebbe diventare ancora più lungo e soprattutto potrebbe insistere su quella che è la funzione, la vocazione, la gioia dello scrittore! Quanto spesso i lumpenproletari rimproverano lo scrittore o l’intellettuale di descriverne i fenomeni senza soffrirne… E’ una bella soddisfazione poter riconoscere questa volta che Balestrini è stato invisibile anche lui, che ha sofferto quella trasformazione che descrive lungo anni e anni di povertà e di amore.