“Ogni tanto tra mezzo al ronzio continuo di quella confusa moltitudine, si sentiva un borbottar di tuoni, profondo, come tronco, irresoluto; [..] que’ tempi, forieri della burrasca, in cui la natura, come immota al di fuori, e agitata da un travaglio interno, par che opprima ogni vivente, e aggiunga non so quale gravezza ad ogni operazione, all’ozio, all’esistenza stessa. Ma in quel luogo destinato per sé al patire ed al morire, si vedeva l’uomo già alle prese col male soccombere alla nuova oppressione; si vedevan centinaia e centinaia peggiorar precipitosamente; e insieme, l’ultima lotta era più affannosa, e nell’aumento de’ dolori, i gemiti più soffocati: né forse su quel luogo di miserie era ancora passata un’ora crudele al par di questa”. (I promessi sposi – 1840, cap XXXV, descrizione del lazzaretto)
Alessandro Manzoni è il letterato romantico italiano che più di tutti avverte la tremenda dicotomia tra fede cristiana e ragione, ma non solo; lo studio attento delle sue opere tradisce più volte la rassicurante lettura cattolica che per molto tempo ha dominato la sua interpretazione critica. Il messaggio più nuovo e moderno di Manzoni, il suo insegnamento problematico, angosciante e tutt’altro che autoritario e dogmatico, sta nel porre il lettore di fronte all’ignoto ed al segreto della vita senza rinunciare alle armi della ragionevolezza, della filosofia, del pensiero e del buon senso, ma tuttavia indicandone la debolezza, la fallacia. La fallacia di ogni tentativo di indicare un senso precostituito della vita, un “sugo della storia”, e soprattutto, un senso razionale al male. Sotto i colpi del Manzoni maturo, non cade solo la rassicurante ragione illuminista delle sue prime opere, o il teleologico idealismo hegeliano, ma anche la rassicurante fede cattolica e la sua teodicea: crolla cioè ogni legittimità di interpretare i legami tra mondo divino e storia umana. Manzoni cioè opera una vera e propria decostruzione, anche ironica, dell’idea cattolica di provvidenza.
Tappa importante della sua formazione è la frequentazione di ambienti vicini al giansenismo, vicini cioè a quella teologia di impostazione protestante che fu di quel filosofo definito da Voltarie “misantropo sublime” chiamato Blaise Pascal. Ruolo rilevante ebbero Eustacchio Degola e Luigi Tosi, che lo porteranno alla conversione al cattolicesimo.
I quattro inni sacri della “RISURREZIONE”, “IL NOME DI MARIA”, “IL NATALE”, e “LA PASSIONE” (1812-1815) sono probabilmente le opere più cattoliche dell’autore. Più che al mistero, la religione di Manzoni qui appare come una storia insieme umana e divina, in cui l’elemento corporale e la determinatezza storica non sono mai dimenticati. La letteratura dunque non è la cosa più importante al mondo, come pensavano i Romantici. E’ questa una posizione radicalmente antiestetizzante (vedi anche la prefazione al Conte di Carmagnola).
L’entusiasmo rassicurante dei primi tempi della conversione viene però smorzato nella fase matura del suo pensiero (1815-1827), anche a causa dei continui lutti, fase nella quale avviene l’elaborazione dei suoi capolavori: l’ultimo inno sacro, “LA PENTECOSTE”, le due tragedie ed i “I PROMESSI SPOSI”. Le sue teorie si fanno sempre più chiare: dio è rappresentato come mero riparo e consolazione ma anche come terrore biblico e imperscrutabile ragione di vita e morte. D’altra parte, il dio di Manzoni presenta sempre una dimensione inquietante e minacciosa. Persino Maria Vergine, ne “IL NOME DI MARIA” viene presentata “terribil come oste schierata in campo”. Da questo punto di vista risulta particolarmente intenso l’unico frammento di “OGNISSANTI”, divulgato in vita dall’autore e dedicato al mistero angoscioso della morte e della vita, rappresentato simbolicamente nella bellezza e nella fragilità di un “tacito fior / che spande di deserti del cielo / gli olezzi del calice, e muor”. Significativo anche il “NATALE DE 1833”, un compendio della teologia di Manzoni. Composto alla morte della moglie Enrichetta Blondel, qui lo scrittore dichiara senza esitazioni l’irrazionalità di Dio nei suoi progetti e nelle sue vie misteriose, che non pensano all’uomo ed al suo benessere o li sono indifferenti; presenta cioè l’irrazionalità della storia. Sembra così negare la sua poetica “ufficiale”, quella che lo obbligava a raccontare “l’utile per iscopo, il vero come oggetto e l’interessante come mezzo” (Lettera a d’Azeglio “Sul Romanticismo”). L’unico insegnamento etico della storia (il vero), sembra essere l’irrazionalità di essa, che sembra negare la provvidenza come guida storica dell’uomo, ma soltanto assicurare la salvezza eterna:
“Il pensiero si trova con raccapriccio condotto ad esitare tre due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza , o accusarla” (Storia della colonna infame).
L’insegnamento storico-esperienziale è posto sulla bocca di Adelchi morente:
Godi che re non sei, godi che chiusa / all’opra t’è ogni via: loco a gentile, / ad innocente opra non v’è: non resta che far torto, o patirlo. Una feroce / forza il mondo possiede e fa nomarsi / diritto: la man degli avi insanguinata / seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno coltivata col sangue; e ormai la terra / altra messe non dà.” (Atto V, scena 5°). In ultima analisi, la forza degli istinti umani diventa per Manzoni solo una pedina nel gran disegno provvidenziale voluto da Dio (provvida sventura). Questo privilegio di grazia, per Manzoni, sembra destinato soltanto ad alcuni personaggi, ed in maniera del tutto imperscrutabile ad individui di rilievo storico ed umano, quali Napoleone (“che volle in lui del creator suo spirito / più vasta ombra stampar.”), la stessa Ermengarda, Carlo Magno aiutato da Martino contro Desiderio, ed alcuni personaggi dei Promessi Sposi quali Borromeo, l’Innominato, Renzo e Lucia, Cristoforo, don Rodrigo. Rispetto a questi, altri, nella stessa opera, sembrano esser stati destinati, al male o all’ignavia da ragioni indipendenti al loro arbitrio. Di Don Abbondio, infatti, Manzoni afferma che “non era nato con un cuor di leone”, così come sembra giustificare le colpe della Monaca di Monza con la sua monacazione coatta (“la sventurata rispose”).
Manzoni dunque, razionalmente e secondo la dottrina cattolica, cerca responsabilità personali al male, e cerca di dimostrare il libero arbitrio umano; sul piano dottrinario ufficiale, resta cioè fedele all’ortodossia cattolica. Ma i suoi tormenti appaiono evidenti, come evidente sembra il fatto che spesso le sue opere possano esser lette su due livelli di lettura diversi: uno cattolico e rassicurante, l’altro, sia giansenista che “moderno”, in preda allo smarrimento ed alla constatazione del mistero di dio, del male e della storia. L’influenza giansenista persiste nella sua formazione religiosa, e si manifesta con dubbi razionalmente irrisolvibili a cui non serve altro che la fede per “tirare a campare”. Ma la sua ricerca, che non sembra avere risposta esperienziale, lo conduce in uno sconforto evidentissimo nella prefazione al saggio “Storia della Colonna infame”: “Se, in un complesso di fatti atroci dell’uomo contro l’uomo, crediam di vedere un effetto de’ tempi e delle circostanze, proviamo, insieme con l’orrore e con la compassion medesima, uno scoraggiamento, una specie di disperazione. Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti al suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi.”
Dopo i dubbi però, nella stessa prefazione ritorna il Manzoni ufficiale e legato alla propria poetica morale:
“…c’è pericolo di formarsi una nozione del fatto, non solo dimezzata, ma falsa, prendendo ragione dall’ignoranza de’ tempi e la barbarie della giurisprudenza, e riguardando quasi come un avvenimento fatale e necessario; che sarebbe un errore dannoso da dove si può avere un utile insegnamento”.
In diverse parti dei “Promessi sposi” invece, il male sembra avere origine direttamente da Dio, un Dio che si fa sempre più giansenista e misterioso. Da notare che il seguente episodio della descrizione della vigna di Renzo fu aggiunto da Manzoni solo con l’edizione ventisettana (la quale era già stata privata di descrizioni tipicamente romantiche):
“Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna – nel luogo di quel poverino-, come dicevano. Viti, gelsi; frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de’ filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffocato, in mezzo a una nuova, varia fitta vegetazione, nata e cresciuta senza l’aiuto della man dell’uomo. Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene selvatiche, d’amaranti verdi, di radichelle…” Perché l’inserimento di questo passo? Quale il suo significato? La critica ufficiale lo definisce una evidente allegoria: il narratore parla della vigna per parlarci dell’uomo, ma a differenza di altre volte, il narratore non interviene con il suo commento ad orientare il lettore, ma lo lascia inquieto e spaesato. Forse tace perché il risultato non sarebbe “utile” (non sarebbe morale), o conforme a quanto detto, molti anni prima, ne “Osservazioni sulla morale cattolica”. Ma così come l’erbaccia, Manzoni non risponde al perché della carestia, la quale risulta essere la principale causa dei tumulti. Manzoni infatti, con una lunga digressione nel romanzo, colpevolizza il clima, tralasciando tutte le opinioni volgari, ignoranti e comuni spiegate dagli invitati al banchetto di don Rodrigo. Essi cercano motivi rassicuranti al male, quello che non può permettersi una mente acuta come Manzoni. Per l’appunto: il clima non può dipendere dall’uomo. Inoltre, Manzoni non spiega il perché della peste. Si tratta di una punizione divina? Se è così, perché colpisce non solo don Rodrigo, ma anche fra Cristoforo? Domande che Manzoni si pone e che restano irrisolte. La Provvidenza agisce sì nella storia, ma non ne indirizza il senso in modo chiaro e univoco, non la converte in “progresso” civile, come ritenevano Hegel e gli storicisti. Al massimo, assicura la salvezza ultraterrena. La morale angusta di don Abbondio, che interpreta la peste come “Provvidenza” poiché ha agito da “scopa”, è solo una morale utilitaria, sempliciotta, che Manzoni critica aspramente. Né è meno angusta di quella di Renzo, che più volte, nel corso del romanzo, e anche alla fine, interpreta la Provvidenza come la realizzazione dei propri desideri. La teologia ed il pensiero di Manzoni è diverso da entrambe. Indubbiamente ogni cosa accade perché voluta da Dio per i suoi fini, che rimangono incomprensibili alla mente umana. Il Dio di Pascal si rivela anche nella conversione dell’Innominato: a salvarlo, prima delle opere, la grazia di Dio, il fatto che Egli si riveli nell’animo, nel tumulto dei sentimenti e sul pieno di una crisi esistenziale. Anche la frase di Lucia, ripresa dal padre spirituale fra Cristoforo: “…e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.”, è smentita dall’autore nel finale anti idillico del romanzo, il famoso “sugo della storia”. A Renzo che orgogliosamente e ingenuamente crede di aver trovato il senso della storia da lui vissuta negli errori che ha commesso e negli insegnamenti che ne ha tratto, Lucia ribatte di non avere commesso errori e di non essere mai andata a cercarsi guai, e che tuttavia essi l’ hanno colpita ugualmente.
Ritorna insomma l’interrogativo sul male. La risposta, il “sugo di tutta la storia”, è la seguente: “i guai vengono bensì spesso, poiché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta ed innocente non basta a tenerli lontani”; comunque sia, “quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore”. Questa conclusione è accettata dal Manzoni “benché provata da povera gente”. Si tratta di un finale drammatico, aristocratico e paternalista, niente affatto idillico, dove emerge la doppia lettura dei promessi sposi. Qui appare evidente come Manzoni racconti qualcosa covata fin dall’inizio della sua opera, una “soluzione” che non è certo pedagogicamente “utile” da riferire (cfr. Lettera a d’Azeglio “Sul Romanticismo”). Sembra anzi rilevare la sfiducia nella possibilità dell’uomo di migliorare la propria condizione di vita o di orientarla, affidandosi alla fede nella vita futura. Nel pensiero manzoniano quindi si avverte una profonda dicotomia fra mondo umano, in cui il male della natura si aggiunge a quello della storia, e il divino. Nonostante ogni più generoso sforzo, mondo umano e divino non si compenetrano, perché il secondo agisce sul primo in modo del tutto incomprensibile ed irrazionale: non fermenta visibilmente nella storia, non ne guida il percorso, né giustifica la presenza del male.
Che il cattolicesimo in sede culturale e letteraria debba essere sfrondato anche da un pregiudizio laicista, peraltro legittimato purtroppo da una bieca tradizione scolastico-provinciale che tuttora agisce, è una necessità manifestata da una riflessione critica ulteriore, a partire proprio dal “laico in tutti i sensi” che fu Alessandro Manzoni. Questi intanto era figlio di un’adultera e impigliato, da giovanissimo, in una vita di scelleratezze già in qualche modo scapigliate nel segno di un libertinismo derivante dall’illuminismo materno, per tacere dello scandalo suscitato dal primo matrimonio dell’autore degli Inni sacri con una calvinista e dal secondo con Teresa Stampa, entrambe donne scelte, come a prolungare l’Edipo, in accordo con Giulia Beccaria. “Fu inoltre considerato padre inetto e incapace di indirizzare a una professione i figli, – ha scritto Salvatore Silvano Nigro – che si indebitarono e lo indebitarono. Cattolico per nulla filisteo, e anzi ‘laico in tutti i sensi ’ e sostenitore – nella seconda parte delle Osservazioni sulla morale cattolica – della compatibilità della religione cattolica con lo spirito del secolo da dirigere e da correggere, fu contrario al temporalismo del corpo giuridico della Chiesa: difatti, tra la scandalizzata protesta dei cattolici intransigenti, non esitò in qualità di senatore del regno d’Italia a votare in favore del trasferimento della capitale da Torino a Firenze, come tappa intermedia verso la predestinata Roma, né ad accettare nel 1872 – nello spirito della legge delle Guarentigie fondata sul principio della separazione tra Stato e Chiesa – la cittadinanza onoraria offertagli dal comune di Roma”. (Salvatore S. Nigro, Manzoni, in VII. Il primo Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1978, 1985, pp. 7-8)
Si sandrino, ma nello stesso secolo fior di intelligenze, sopratutto a napoli, rifiutavano completamente il concetto, per loro assurdo specialmente partendo dal concetto umano (dell’uomo e basta) di ragione, di un dio o di una provvidenza o ancora del destino, mostrandosi molto più “moderni” dei nostri contemporanei, equamente divisi tra atei e non. I napoletani presero come paragone Leopardi, ti segnalo un “dialogo” raccolto nei Dialoghi di Luigi Settembrini, dove l’autore immagina l’incontro dei due ai funerali del Manzoni col recanatese che gli fa notare come la cerimonia fosse tutto uno sfilare di araldi, preti e partiti, chiedendo se si fosse chiesto perché e rispondendo lui stesso: perché non hai scontentato nessuno, a differenza mia e di chi crede nella ragione e non nell’onnipotente. Ciao!
Noto con piacere la qualità dei due interventi. Sono dell’opinione che Manzoni sia stato un intellettuale più che un cattolico, ma lascio a voi dotti, letterati ed italianisti la discussione. Vorrei solo aggiungere che ho letto tre volte I promessi sposi, e ogni volta che l’ho riletto ne ho colto il doppio livello di lettura e una vena polemica contro il cattolicesimo popolare… il paternalismo manzoniano?
Pascal non sono nessuna delle tre, mentre Sandro De Fazi non solo è dotto ma è pure, tra i tanti presunti, uno dei pochi che possa definirsi docente, cioè in grado di insegnare. Tornando al Manzoni credo non sia un caso che i protagonisti, i due sposini, incarnino debolezza e ignoranza, non so se sia paternalismo o meno, ma c’è un netto contrasto con le figure forti, bonarie e non che incidono sulle loro vicende che appartengono al clero.
x De Fazi: a me pare che il Manzoni di Nigro sia un tantino… democristiano! Insomma, questo povero Manzoni non lo fanno riposare in pace, che siano cattolici o atei (concordo con ecchiè nel pensare che è una dicotomia sterile e sempliciotta, direi “popolare”, ma che appartiene ad alcuni intellettuali che chiamerie analfabeti). Per quanto mi riguarda, a me pare che Manzoni, in ogni sua opera, sia ossessionato dal divino. Che poi sia a tinte cattoliche o protestanti, poco importa. Scusate le banalità ma mi andava di scriverle 🙂
saluto tutti coloro che hanno commentato questo post, che nasce dalla sintesi di un mio piccolo studio universitario sul Manzoni di qualche anno fa, per il quale utilizzai anche quello che è uno dei massimi studiosi italiani di Manzoni, per l’appunto Silvano Nigro. Secondo me ogni idea, come ogni interpetazione, ha una “storia” ma quasi mai mi sono imbattutto in un autore così pieno di “storia” e appropriazioni illeggittime come Manzoni. Recentemente è anche uscita un’opera (quanto a mole, enciclopedica) che cerca di dimostrare l’ateismo di Manzoni. Insomma, qui non siamo negli USA dove il dibattitto è realmente molto povero su questioni che dividono atei da credenti, ma presto credo che ci arriveremo… purtroppo
@Laura: Democristiano? In ogni caso, è una dicotomia irrilevante come molte altre.
@ecchiè: Troppo buono, o comunque sei gentile, grazie!
@Geniomaligno: Ricambio il saluto e i miei complimenti per l’articolo. L’ateismo di Manzoni è un’ipotesi affascinante quanto quella della religiosità di Leopardi, entrambe poco attendibili: ma ben venga il dibattito (sempre si fa per dire!)…
Ciao @Geniomaligno, sarebbe possibile accedere al “piccolo studio universitario” che citi? Grazie! 🙂