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La faccia oscura del progresso, (da La Repubblica online)
Società mondiale del rischio significa un’epoca nella quale i lati oscuri del progresso determinano sempre più i contrasti sociali. Mentre prima ciò che non stava sotto gli occhi di tutti veniva negato, ora l’autominaccia diventa il movente della politica. I pericoli nucleari, il mutamento climatico, la crisi finanziaria, l’11 settembre, seguono in pieno il copione della Società del rischio, che ho scritto 25 anni fa, prima della catastrofe di Chernobyl. A differenza dai precedenti rischi industriali, essi (1) non sono socialmente delimitabili né nello spazio né nel tempo, (2) non sono imputabili in base alle vigenti regole della causalità, della colpa, della responsabilità e (3) non possono essere compensati, né coperti da assicurazione. Dove le assicurazioni private negano la loro protezione — come nel caso dell’energia nucleare e della tecnologia genetica — viene sempre superato il confine tra i rischi calcolabili e i pericoli incalcolabili. Questi potenziali di pericolo vengono prodotti industrialmente, esternalizzati economicamente, individualizzati giuridicamente, legittimati tecnicamente e minimizzati politicamente. In altri termini, il sistema di regole del controllo “razionale” si rapporta ai potenziali di autodistruzione incombenti come un freno da bicicletta applicato a un aereo intercontinentale. Ma Fukushima non si distingue forse da Chernobyl per il fatto che i terribili eventi giapponesi partono da una catastrofe naturale? La distruzione non è stata provocata da una decisione umana, ma dal terremoto e dallo tsunami.
La categoria di “catastrofe naturale” segnala che essa non è stata causata dagli uomini e quindi la sua responsabilità non può essere attribuita agli uomini. Ma questo è il punto di vista di un secolo passato. Questo concetto è sbagliato già per il fatto che la natura non conosce catastrofi ma, semmai, drammatici processi di trasformazione. Questi cambiamenti, come uno tsunami o un terremoto, diventano catastrofi solo nell’orizzonte di riferimento della civiltà umana. La decisione di costruire centrali nucleari in zone a rischio sismico non è affatto un evento naturale, ma una scelta politica, che deve anche essere giustificata a livello politico di fronte alle pretese di sicurezza dei cittadini e deve essere attuata contro le opposizioni. La risposta ai rischi moderni è l’idea dell’assicurazione come “tecnologia morale” (François Ewald). Non è più accettabile che ci si affidi alla divina provvidenza e si subiscano passivamente i colpi del destino. Il nostro rapporto con la natura, con il mondo e con Dio cambia in modo tale che diventiamo responsabili della nostra sventura, ma in linea di principio disponiamo dei mezzi per compensare le conseguenze da noi stessi innescate. Si tratta comunque del mito della “vita assicurata”, che a partire dal 18° secolo ha trionfato in ogni ambito.
In effetti siamo riusciti a ottenere il consenso sui precedenti rischi dell’era industriale legandoli a una sorta di “prevenzione a posteriori” (vigili del fuoco, assicurazioni, assistenza psicologica e medica, ecc.). Lo shock che ha colpito la gente di fronte alle spaventose immagini provenienti dal Giappone consiste anche nel ridestarsi della consapevolezza che non c’è istituzione, né reale, né immaginabile, preparata al super-Gau, il “massimo incidente ipotizzabile in una centrale nucleare”, e capace di garantire l’ordine sociale e le condizioni culturali e politiche anche nel caso di questo disastro dei disastri. Invece, ci sono molti attori specializzati nell’unica opzione che appare possibile: la negazione dei pericoli. Infatti, al posto della sicurezza offerta dalla prevenzione a posteriori subentra il tabù della impossibilità di errore. Ogni Paese — in particolare, naturalmente, la Francia, e l’esperto atomico Sarkozy lo sa bene — ha le centrali nucleari più sicure del mondo! Custodi del tabù diventano la scienza e l’economia dell’energia nucleare, colte in flagrante proprio dagli eventi catastrofici che hanno attirato sui loro errori i riflettori dell’opinione pubblica mondiale. Nel 1986 Franz-Joseph Strauß dichiarò che solo i reattori nucleari “comunisti” possono esplodere. Egli tentava così di circoscrivere eventi come Chernobyl, in base all’assunto che l’Occidente capitalistico superevoluto dispone di centrali nucleari sicure. Ora però siamo alle prese con l’avaria in Giappone, che viene considerato il Paese meglio attrezzato del mondo, quello dotato della tecnologia più sofisticata per garantire la sicurezza. La finzione per la quale in Occidente si può dormire tranquilli è svanita.
Che in Giappone le rimanenti speranze poggino proprio sull’intervento delle “forze di autodifesa” chiamate a sostituire con elicotteri antincendio gli impianti di raffreddamento in avaria, è qualcosa di più di un’ironia. Hiroshima fu terribile, l’orrore puro e semplice. Ma in quel caso fu il nemico a colpire. Cosa accade se un fatto così spaventoso avviene all’interno del sistema produttivo della società — non in un ambito militare? In questo caso, coloro che minacciano la nazione sono proprio i garanti del diritto, dell’ordine e della razionalità, della democrazia stessa. Quale politica industriale sarebbe più possibile se fosse negata anche la residua speranza del “vento” e Tokyo fosse contaminata? Quale crisi della tecnologia, della democrazia, della ragione, della società?
Molti deplorano che le impressionanti immagini provenienti dal Giappone incutano paure sbagliate e diano impulso ad una “pseudo- scienza” della compassione. In questo modo, però, essi disconoscono e sottovalutano ingenuamente la dinamica politica insita nel potenziale di autodistruzione del trionfante capitalismo industriale. Infatti, molti pericoli — un esempio da manua-le: le radiazioni atomiche — sono invisibili, sfuggono alla percezione ordinaria. Ciò significa che la distruzione e la protesta son mediate simbolicamente. Solo constatando l’impercepibilità di molti pericoli grazie alle immagini televisive il cittadino culturalmente accecato può tornare a “vedere”. La questione di un soggetto rivoluzionario capace di rovesciare i rapporti di definizione della politica del rischio cade nel vuoto. Non sono — o non sono soltanto — i movimenti antinucleari, l’opinione pubblica critica, ecc. a poter dar luogo a un’inversione nella politica atomica. In ultima analisi, il contropotere rispetto all’energia nucleare non sono i manifestanti che bloccano il trasporto del materiale radioattivo. L’avversario più irriducibile dell’energia nucleare è… l’energia nucleare stessa! Nelle immagini delle catastrofi categoricamente escluse dai manager si dissolve il mito della sicurezza. Quando ci si rende conto e si ha la prova che i custodi della razionalità e dell’ordine legalizzano e normalizzano i pericoli per la vita, si scatena il pandemonio nel milieu della sicurezza burocraticamente promessa. Perciò, non è sbagliato affermare che all’interrogativo sul soggetto politico della società di classe corrisponde l’interrogativo su questa “riflessività politica” nella società del rischio. Tuttavia, sarebbe un errore trarre da ciò la conclusione che si sia aperta una nuova fase di illuminismo, beneficamente offertaci dalla storia. Al contrario, a qualcuno la prospettiva qui tracciata potrebbe suggerire il paragone con il tentativo di praticare un foro nello scafo di una nave per far uscire l’acqua del mare penetrata al suo interno.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)