(di Elisa Scirocchi)
È così, per tutti.
Se ci pensiamo bene la mitologia è un po’ come il racconto che nostro nonno ha del giorno della nascita del suo primo nipote. Fantasmagoriche storie di amori, punizioni e tradimenti, raccontano il nostro passato, descrivono la natura, i vizi degli umani, anticipano il nostro presente. Eccallà. Reduci della vita ci troviamo a riflettere sul tempo, o meglio ancora sulla memoria. Cosa vuol dire ricordare? Cosa rimane nella nostra memoria, al netto di ciò che ci sforziamo di cancellare con un’enorme gomma metà rossa e metà blu? Che rapporto abbiamo con i nostri ricordi? Lontani da teorie psicologiche e tesi medico-scientifiche, rimane la speculazione filosofica. Poco male, no?
Mnemosiune (Μνημοσύνη – memoria) figlia di Urano (Οὐρανός – cielo) e Gea (Γῆ – terra) si staglia nelle nostre vite come collante tra le due dimensioni. E mentre cerchiamo di stare “con i piedi per terra” ci ritroviamo rapiti dai ricordi e con “la testa fra le nuvole”. Nacque dalla terra bagnata delle nostre giornate (a volte piovose emotivamente) e dagli arcobaleni colorati dei nostri pensieri più evanescenti. Vissuta prima degli Dei dell’Olimpo al fianco dei Titani, fu sorella di Cronos (Κρόνος – tempo). Caduta in una tresca con Zeus generò le Muse, e tutta la poesia in senso lato che ne deriva.
Non vi sembra illuminante?
Figlia del cielo e della terra, figli noi di giorni che passano senza avere il tempo di alzare gli occhi al cielo, o mesi che scorrono senza riuscire a vedere su quale sasso poggiamo i nostri piedi tanto siamo persi nell’irrealtà di ciò che ricordiamo, di ciò che eravamo.
Se di filosofi si parla ecco che Platone ci aspetta al varco. Ve la ricordate la vecchia storia della teoria della conoscenza platonica? Conoscere è ricordare. Nulla può essere conosciuto oggi se non prima già conosciuto da noi stessi in un tempo molto passato. Nel dialogo Fedro Platone racconta di una Pianura della Verità nella quale le anime (immortali) vedono e prendono conoscenza di tutto il visibile. Una volta cadute le anime nei corpi queste non faranno che ricordare, conoscere, ciò che hanno già visto.
- Si! tu con la mano alzata, dimmi pure?
- Ma allora perché non conosciamo tutti allo stesso modo e i nostri ricordi non sono tutti uguali?
Pare che Platone abbia insistito molto sul fatto che ci sia una diversificazione tra le anime per attitudine naturale, per disinteresse verso una cosa, o per curiosità verso un’altra. Si vocifera, infatti, che queste anime abbiano visto in modo differente il suddetto visibile di cui sopra. Quindi, se conoscere è ricordare, e se io ricordo che il rosso è il colore delle fragole vuol dire che una volta calati in un corpo io saprò definire (conoscerò) il concetto di fragola, di colore, e di rosso, meglio di quel tale che sdraiato sulla Pianura della Verità era distratto perchè intento ad acciuffar farfalle. Siamo giunti all’idea che ricordiamo solo ciò che ci interessa di vedere per attitudine necessaria. Il ricordo è altresì una forma di conoscenza, o di ri-conoscenza. Non nel senso sdolcinato di gratitudine, ma nel senso di riconoscere noi stessi in ciò che ricordiamo e che per inclinazione naturale non potevamo non ricordare. Come se ritrovassimo parti di noi stessi in cose/persone/emozioni che incontriamo, che quindi ricorderemo poi e conosceremo ancora dopo.
I ricordi sono il nostro sentirci a casa, perché mentre viviamo una cosa siamo naturalmente portati ad abbandonarci a ciò che viviamo, in cui ci ri-conosciamo, e che ricorderemo per tutto l’eterno finito che ci spetta. Vi convince?
- Mi scusi, e se avvicinassimo i ricordi, o la memoria, ad una dimensione virtuale immersiva?
- Più che plausibile. Hai mai letto Bergson?
Si dice che Bergson nel testo Materia e Memoria abbia avuto il merito di associare la memoria nientemeno che alla coscienza. La materia è l’attualità presentificata del vissuto, la memoria è la virtualità dei nostri ricordi che incedono in modo scriteriato nei nostri giorni. Sia chiaro però un dato, pare che per coscienza egli ritenesse l’interezza della nostra psiche, ciò che si propaga ben oltre i soli contenuti coscienti.
Lo so, qui la storia si complica.
Ce la facciamo a metabolizzare l’idea che se la memoria è la coscienza, vuol dire che ricordiamo solo una piccola parte dei ricordi, al pari di come possediamo coscientemente solo una piccola parte della nostra coscienza?
La storiella di Freud in soldoni.
Solo che, giocando sull’annosa rivalità franco-teutonica, Freud proponeva l’immagine dell’iceberg, mentre Bergson del cono rovesciato sul piano dell’attualità. Se cercate di visualizzare le figure sono l’una lo specchio dell’altra, a testa in giù però.
Il cono della virtualità poggia sul piano dell’attualità e fa sì che ciascuno di noi si posizioni di volta in volta a cavalcioni sul vertice di questo cono (che è tangente al piano). Così, in un attimo, risaliamo nella coscienza attraverso il ricordo dell’odore di primavera durante una passeggiata senza meta di domenica a Roma. Come punte affilate di cristallo che riflettono la luce, siamo immersi in un presente che ha ragione di esistere solo per ciò che è stato prima e che non fa richiamare continuamente alla coscienza spazi inconsci di memoria. La memoria per Bergson è globalmente ciò che siamo, in fondo senza essere in grado di conoscerci (o ricordarci).
Ci riserviamo ad un altro momento di riflessione la complessità del ricordo come memoria collettiva, come storia dell’umano, senza scomodare in questa sede le considerazioni inattuali di Nietzsche sul rapporto tra agire e oblio. Detto ciò, non ci rimane che tirare le somme. Proviamo ad accettare le discontinuità e le fratture del nostro essere, imparando a costruire punti di connessione tra il lasciar andare e il prendere. In fondo sappiamo nuotare tra i ricordi senza sapere da dove vengono e dove ci porteranno, abbiamo imparato a dialogare con loro perché tutto sommato è un pò come parlare con noi stessi.
Lontani da forme orribili di accettazione passiva, decidiamo di affermarci come protagonisti di pellicole dalla regia tumultuosa. Viviamo, ricordiamo, viviamo ancora una volta.
Senza tradire se stessi, e con un sorriso ostinato.