Il viandante di nome Ulisse e il tizio che guardava una finestra chiusa

(di Elisa Scirocchi)

Konstantinos Kavafis nasce ad Alessandria D’Egitto quando l’Italia aveva da poco dato alla luce il suo Regno dall’acerbo tricolore. Poi i viaggi, l’Inghilterra, la Turchia, la Grecia, e di nuovo Alessandria d’Egitto per tornare ad essere lieve più della terra. Nella lingua greca, tanto cara al nostro poeta, il verbo “fare” si traduce con la parola “ποιέω”. Viene da sé che la poesia altro non sia che il Fare per eccellenza.

Espressione profonda dell’umano sin dalla notte dei tempi la poesia a colpi di armonie ha raccontato a noi stessi, poeti o fruitori, chi siamo. E se Croce vedeva giusto tra le sue pagine[1] non c’è nulla che ci allontani per qualità d’animo da un Poeta se non una maggiore capacità, presente nel suddetto Poeta, di trasferire l’intuizione artistica in espressione mediante un’immaginifica estrinsecazione esterna. Insomma, fuori dalla boria del linguaggio accademico, siamo tutti poeti di noi stessi, filosofi dell’umanità.

“ Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.”

Suonano così i primi versi della poesia “Itaca” del nostro Konstantinos. Nulla da aggiungere sul racconto epico di omerica memoria che rimando ai vostri studi da scuola media. Una di quelle cose che tutti sanno, anche lui che all’ultimo banco durante la lezione pensava ancora ai baci al profumo di Big Babol panna e fragola dati a Lei durante la gita in Puglia.

Itaca è così, la sintesi di una dialettica storica infinita nel suo aspetto più generale, la meta di un viaggio temporale nel suo essere particolare. Non appena toccata con mano la sua terra, allora sapremo ciò che questa significa per noi. Solo dopo aver manifestato attraverso la nostra carne mortale il travaglio dello spirito che regola il mondo, avremo dato un senso al compiuto.

Lo so che lo state pensando anche voi, lo so. Le parole “dialettica storica” e “spirito” non lasciano scampo. “Lo Hegel”, come lo chiamava in confidenza lo stesso Benedetto di prima, appare di nuovo imperante nelle nostre esistenze.

Ecco, il baciatore seriale è di nuovo distratto.

Questo spirito di cui parlavamo coglie a differenza nostra il senso profondo della libertà di auto-creazione e auto-affermazione di sé. L’individuo, invece, gettato nella realtà si getta a sua volta ancora inconsapevole nella vita come un viandante colmo di speranze, ma che non sa ancora dove andare. Mediante la meraviglia coatta della relazione con l’Altro e con se stesso, lungo il viaggio verso Itaca, egli raggiunge un Sé a cui non era abituato. Vi immaginate cosa vuol dire scoprire dopo anni che qualcuno abitava con noi nella nostra stessa casa senza che noi lo sapessimo? Se lo avessimo saputo avremmo dato di certo a lui la colpa di aver divorato le scatole di biscotti al cioccolato che puntualmente trovavamo vuote.

Proprio come quando allunghiamo la nostra mano avida verso un frutto maturo che sembra offrirsi a noi venendoci incontro per essere divorato, così la realtà in modo del tutto naturale avrà di colpo raggiunto il suo significato[2]. Nulla di definitivo, sia chiaro, ma pur sempre un significato.

Certo è che nel sistema hegeliano il concetto di individuo come singolarità non trovava posto neppure tra le note a margine, ma siamo ad ogni modo liberi di reinterpretare ciò che leggiamo in base alla nostra visione del mondo, proprio come facciamo con le parole di una poesia.

“Ma finestre non si trovano, o non so trovarle.
Meglio non trovarle, forse .”

L’uomo che Kavafis racconta nella poesia “Finestre” è un tipo un po’ pigro, vittima di una atavica paura di essere. Se le gesta di Ulisse erano mitiche e per giunta in senso letterale degne di essere raccontate, quelle dell’uomo-alla finestra (che chiameremo così per comodità) sono prive di interlocutori.

Dalla storia dello spirito dei popoli, alla casa semi vuota di colui che sogna di aprire la finestra, ma che in fondo spera di non riuscirci. Il valore caro e seducente dell’immaginazione spezza l’attualità del reale in una bolla di pensieri lievi.

Mah?! Il baciatore seriale ci tende un orecchio.

La compostezza senza grazia della rappresentazione ci accompagna ad una sorta di insoddisfazione perenne. Il problema vero starà nel saper calibrare come una ricetta alchemica l’agire e il pensare. Il fare (e qui ritorniamo al verbo greco di prima) e il fruire di ciò che è fatto da Altro. Allo stesso modo, l’uomo-alla finestra si descrive ingordo della luce che scorge al di là, ma terrorizzato dal timore di poterne essere accecato al di quà.

Io nel pensier mi fingo[3], diceva una poeta che ricorda molto il nostro uomo-alla finestra. La speranza di essere qualcosa e la paura di non riuscire ad esserlo conducono alcuni a non essere affatto. Oppure che meditare su cosa essere sia già un modo d’essere?

Il baciatore seriale ha chiesto di andare in bagno.

L’abbiamo perso.

— —-

[1] Estetica, Benedetto Croce, Fabbri editori, 2004

[2] Fenomenologia dello Spirito, G. W. F. Hegel, Einaudi, 2010

[3] L’infinito, G. Leopardi, Mondadori, 1996

 

 

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