“Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami ‘spirito’, un piccolo strumento e un giocattolo della tua “grande ragione” (Friedrich Nietzsche, Dei dispregiatori del corpo, in Così parlò Zarathustra)
“Ma soprattutto, sono sempre stato grato a Pascal, almeno come lo leggo io, della sua sollecitudine, lontana da ogni ingenuità populista, per “la gente comune” e le “sane opinioni del popolo” […] invece di indignarsi o di prendere gioco, a guisa dei “mezzo addottrinati”, sempre pronti a “fare i filosofi” e a tentare di stupire con i loro stupori fuori misura circa la vanità delle opinioni di senso comune” (Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane)
Il referendum costituzionale italiano, non molto dissimile da quello pseudo referendum che ha animato la campagna dualista delle elezioni americane, con la logica binaria dei sì e dei no, e con l’accavallarsi di “pseudo ragioni” da tutte le parti coinvolte, è un prezioso laboratorio di psicologia sociale che ci riporta ad un dato di fatto che affiora prepotentemente proprio in questi casi, ma che è onnipresente nelle nostre vite di ogni giorno. Questa verità riguarda il proprio posizionamento e il concetto stesso di “decisione”. In questa giostra, sono coinvolte persone più o meno istruite, ma il risultato è sostanzialmente invariabile. Una delle principali differenze tra intellettuali e “popolo” è che i primi motivano i propri pregiudizi in maniera sontuosa; il secondo non li motiva affatto o lo fa in maniera grossolana. In tutti e due i casi, altro non si fa che dare a se stessi e agli altri delle ragioni di precedenti scelte o pseudo-tali fatte sulla base d’impressioni o di altre componenti psicologiche e sociali. Queste giustificazioni posteriori cambiano a seconda del proprio capitale educativo, e perciò posson essere più o meno complesse, più o meno raffinate. Fatto sta che prima scegliamo, o ci avviciniamo nettamente alla scelta, poi la giustifichiamo, razionalizzando.
Un referendum come questo, che sottopone ai cittadini questioni molto complesse su cui gli stessi costituzionalisti hanno espresso (che lo vogliano ammettere o no) un giudizio politico (e non può essere altrimenti, visto che si tratta prevalentemente di valori, e i valori sono politica) è, per l’appunto , un vero laboratorio psicosociale. E’ il trionfo dell’arbitrio, sempre che una razionalità forte in politica possa esistere, sempre che una razionalità allo scopo diversa da quella weberiana possa sussistere. Un voto politico quasi sempre travestito da voto di merito. Solo in pochissimi casi possiamo parlare di voto consapevole, sempre considerando la componente politica di tale scelta, non indifferente. Ma anche quel che si definisce “arbitrio” ha le proprie regole e le proprie casistiche. Un alieno venuto sulla terra in veste di antropologo e psicologo osserverebbe che vi sono persone che si posizionano in base all’aspetto del politico che parla, altri in base alla sua simpatia, altri in base all’antipatia dei nemici del politico. Altri, gli “indecisi”, in base alla sua forza retorica nel coinvolgerli o al testimonial coinvolto.
Quasi tutti però si posizioneranno in base alla propria normale “postura” psicologica: un elettore che si definisce “moderato” è come se si facesse comandare da un archetipo: questo archetipo psicologico s’impone in tutte le sue scelte e, tendenzialmente, in base a questo essere dispotico che gli popola la psiche, egli cercherà sempre di allontanarsi dalle posizioni che considera “estreme”, a prescindere da qualsiasi analisi tecnica di merito. Qualsiasi analisi (che lui denominerà mentendo a se stesso “di merito”) gli dirà esattamente quello che questo “essere” che lo comanda vuole fargli leggere: <<questo va bene, è mediano, quest’altro no, perché mi sembra estremo>>. Per chi studia logica, ma volendo anche per il senso comune, tale atteggiamento è naturalmente erroneo (si veda per esempio qui sul Blog Fallacielogiche). Simil ma opposto discorso può esser anche fatto per chi vota usualmente agli estremi, considerando una posizione reputata “mediana” come sbagliata a prescindere.
Ma si potrebbe andare avanti: anarchici, insoddisfatti, delusi, riformisti, leader, gregari, ecc. Ognuna di queste personalità politiche-pscichiche molto spesso sono onnipresenti, e quasi onnipotenti. Troviamo intellettuali e “popolo” accomunati sulle stesse grandi finzioni: filtriamo la realtà attraverso questi “personaggi” interiori, quasi a dar ragione ad un chiodo fisso di James Hillmann, che dopo aver analizzato le figure psichiche del puer e del senex (il famoso scontro generazionale tanto cavalcato dai populisti attuali), in uno dei suoi ultimi lavori dedicati al potere, scrive: “L’ipotesi che il nostro temperamento sia tracciato sulle lineee di una griglia mitica è una idea che merita maggiore spazio e che, quindi, costituirà il punto centrale di questo libro“. La vita è un grande gioco di ruolo, dove se si è scelto un personaggio (l’orco, il cavaliere, il monaco errante ecc) si rimarrà per lo più coerenti ad esso; per poi scoprire che non siam noi a scegliere un personaggio, ma piuttosto lui a scegliere noi. Sono le nostre idee, le nostre impressioni a sceglierci, dominandoci tutta la vita. In estrema sintesi, e non senza un azzardo epistemologico e di metodo, si potrebbe dire che per meglio comprendere le decisioni umane, un vecchio enneagramma come il seguente (magari rivisitato in chiave politica) sia più efficace di tutto il resto.
Allontanandoci dall’affascinante discorso della psicologia archetipa e “politeista” (le personalità o anime che ci abiterebbero), o da troppo facili tipizzazioni di caratteri, rimane l’analisi sociologica e storica. Determinate componenti psicosociali condizionanti possono essere il “campo” (Bourdieu), gli interessi economici, ma ancor più semplicemente, l’onnipotente riconoscimento di fronte agli altri o al proprio gruppo d’appartenza, o al contrario, la nascosta voglia di rompere con esso. L’antipatia per un gruppo. O la simpatia. Tutto ciò è però un discorso molto più importante e grande del discorso politico. Se assimilato e studiato a fondo, intaccherebbe la nostra convenzionale visione di cosa intendiamo per “ragione”, “decisione”, “giudizio”, e “scienza”. Il neurologo e filosofo Antonio Damasio ci ha spiegato per bene con i suoi preziosi lavori che senza queste “impressioni”, senza l’emotività, senza le nostre “griglie comportamentali” non saremmo in grado di vivere e decidere. Faremmo la fine dell’asino di Buridano, morendo di fame di fronte a due covoni di paglia simili. Saremmo un po’ tutti simili a Phineas Cage, uno dei casi di celebrolesi più studiati della storia della medicina, il cui cervello “mozionale” era lesionato in una maniera tale da rendergli impossibile vivere autonomamente. Sulla linea di questi studi, sul ruolo delle emozioni-impressioni nel processo decisionale, il filosofo e cognitivista George Lakoff, reduce dallo studio di quell’altro laboratorio delle elezioni amaricane che hanno visto il trionfo di Trump, afferma lapidario:
“I am a cognitive scientist. I study the human mind. Our minds are neural minds. The mind is physical, constituted by the neural circuitry of our brains and bodies. Most thought is unconscious, since we don’t have conscious access to our neural circuitry. Conscious thought is a small part of thought — estimates by neuroscientists vary between a general “most” to as much as 98%, with consciousness as the tip of the mental iceberg. We do know that people tend to make decisions unconsciously before becoming consciously aware of them. How the neural unconscious functions in decision-making is vitally important for politics”
A proposito di Darwin e della genesi delle sue idee, ecco quel che scrive quel grande evoluzionista e storico della scienza che è stato Stephen Jay Gould (grande perché sempre sincero con se stesso e con gli altri):
“i concetti strisciarono su di lui con quel modo convenzionale della maggior parte delle influenze sulle nostre vite. Quanti di noi possono definire un ammonimento preciso dei genitori, o una provocazione particolare dei nostri pari, come centrale nella costruzione delle nostre più profonde convinzioni?”
Questi fattori (ma anche considerevoli tradizioni, magari ereditate da abitudini, esperienze personali particolari, ideologie, testimonial, famiglia, scuola, partiti, ecc) diventan teorie argomentate non appena possiamo e riusciamo a motivarle “bene”, per l’appunto, con il nostro capitale educativo, o con il tempo trascorso a illuderci d’informarci sufficientemente su un problema. In entrambi i casi, popolo o intellettuali che siano, essi non “ragionano”, o meglio, quel complesso di facoltà che chiamiamo “ragione” funziona solo per confermare, giustificare la propria impressione-teoria. L’essere umano è una macchina che funziona prevalentemente con quello che in logica si chiama il “Confirmation Bias“. Cerchiamo tutto ciò che conferma la nostra impressione, escludendo quasi categoricamente tutto ciò che la confuta. Questo funziona perfettamente con tutte le nostre idee, e i social sfruttano questo nostro meccanismo: non ci interessa la “verità” (sempre che in molti casi sia determinabile univocamente una qualche verità weberiana), ma ci interessa il DOVE (posizionamento) crediamo essa sia. Sul web, ad esempio, ci avviciniamo a, clicchiamo, condividiamo quel che vogliamo sentirci dire, ed escludiamo categoricamente il resto. Scegliamo cioè la narrazione che più accorda ai nostri pre-giudizi, creando ed alimentando quelle che si chiamano le “echo chambers”, le stanze dove risuona solo la nostra voce e di chi avvertiamo uguale a noi.
Il pensiero, come ci ha insegnato quel genio di Charles Sanders Peirce, è finalizzato all’azione, e alla decisione. Serve prevalentemente a produrre credenze, che sono regole di azione, eliminando l’immobilità e l’insoddisfazone del dubbio. L’abduzione di Peirce, il metodo “più scientifico” di prendere una decisione, è anch’essa un mezzo salto nel buio. Si può ben dire che il nostro inconscio ha una propria volontà, i cui bisogni e desideri spesso vengon fraintesi, ma il più delle volte seguiti. E dopo averli seguiti, si motivano. Illudendoci che quel che diciamo sia razionale. Il “pensiero critico” è altrove, nella stragrande maggioranza dei casi è distante mille miglia dagli intellettuali esattamente come è distante dal “popolo”. Riprendendo questa lezione, uno dei più efficaci oratori del Novecento poteva ben dire: “Non di rado si tratta di vincere, negli uomini, prevenzioni non fondate sull’intelletto ma inconsce, appoggiate solo sul sentimento. L’abbattere questa barriera di istintiva avversione, di odio sentimentale, di dissenso preventivo è mille volte più difficile che rettificare un’opinione scientifica difettosa o errata. False idee e cattive condizioni possono essere eliminate dall’insegnamento: la resistenza del sentimento, no. Solo un appello a queste stesse misteriose forze può giovare qui; e questo appello può fare l’oratore“. Purtroppo questo oratore fu un certo Adolf Hitler.
L’abisso del “corpo” che soggiace sotto il nostro pensiero è una delle realtà più spaventose da affrontare, per essere consapevoli di quei meccanismi che determinano il nostro orizzonte di vita e cognitivo e per poter davvero essere quei soggetti che divengono qualcos’altro, usando un’espressione di Foucault. Dall’utopia all’eterotopia. Dal “nessun luogo” ad un luogo diverso, più concreto del primo. “Convertirsi” (metà-noia è la “conversione” in greco, intesa come mutazione radicale di pensiero) come ben sapevano i Greci è prima di tutto far partorire un nuovo “simbolo” a cui il discorso, il logos personale e collettivo, possa agganciarsi. Siamo animali simbolici, e viviamo nei simboli: la nostra grande risorsa e sfortuna.
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