Una breve esperienza di sangue e filosofia in un campo di calcio. Realmente accaduta. Perché quando si è filosofi lo si è anche alle prese col pallone 😀
Roma. Ottobre, sera. Umidità e freddo. Sono in strada, con i miei due coinquilini. Tre ombre su un marciapiede poco illuminato. Ci stiamo recando a passo svelto verso il luogo del massacro, il Golgota. Un campetto di calcetto a cinque, di proprietà di una parrocchia di Roma. E’ a soli 10 minuti da casa, ma sembrano venti, data l’acqua che si deposita silenziosamente sui nostri pantaloncini da calcio e sulle nostre gambe da cicogna pelose. “Raffaele, grazie per avermi chiamato, ma quindi è gratuito?” chiedo quasi tremando per il freddo. “Sì Alessà, è il campetto della parrocchia che frequento io, dove faccio parte del gruppo giovani”. Io: “Certo che tu, sto’ gruppo ciovani, proprio sei masochista”. Lui, giustamente: “E’ gratis e ti lamenti?”. Sorrido: “Se è gratis, vuoi dire che l’abbiamo già pagato con l’8 per mille”. Raffaele sembra non aver sentito. Poi rilancio: “Ma è sicuro che un ateo mangiapreti come me ed uno sporco rifondarolo come Francesco possono giocare?”. Nessuno risponde, Francesco si limita, marciando e con occhi bassi, ad alzare il pugno al cielo ed ad intonare la melodia dell’Internazionale.
Arriviamo alla parrocchia, Raffaele ci presenta il viceparroco che compare improvvisamente come Batman da una porta buia, che ci sorride e ci conferma una notizia che già sospettavo, in un tono angelico: ”Giocherò con voi, ci vediamo fra qualche minuto al campetto”. E’ un ragazzo alto e di bell’aspetto, un sacerdote, ma non si direbbe, visto che non ha il collare. “Ha 25 anni” ci sussurra Raffaele mentre siamo diretti al luogo del massacro. Io, mentalmente, aggiungo: “25 anni, e non è precario… è probabile che se è prete a 25 anni gli hanno fatto bruciare le tappe ed il cervello in qualche seminario minore, poverino”.
Poco dopo, siamo lì a fare qualche giro di campo per riscaldarci, i riflettori sono già accesi. Io e Francesco ci guardiamo in viso e sorridiamo, complici. Sappiamo entrambi esattamente il perché della nostra velata ilarità. Ci sentiamo un po’ a disagio: sono tutti più piccoli di noi, prete compreso. Credo che il più piccolo abbia 16 anni. Mi avvicino a Francesco per riversargli un attimo il contenuto della mia mente, a memoria: “La vita fugge e non s’arresta un’ora, e la morte vien dietro a gran giornate, e le cose presenti e le passate, mi danno guerra, e le future ancora…”. Lo faccio giusto per sentirmi dire: “Petrarca? Che palle, Alessà”. Il nostro siparietto comico-spalla viene interrotto dal prete, che ci invita al centro del campetto. Capisco immediatamente cosa sta per succedere, e ho poco tempo per decidere il da farsi. Ma in qualche secondo, il mio nodo mentale si è sciolto e so già quel che farò. Creiamo un cerchio umano di dieci individui attorno alla linea di centrocampo. Loro fanno il segno della croce (io rimango immobile), ci prendiamo per mano e comincia il “Padre nostro” comunitario. Io, pur tenendoli per mano e chiudendo il cerchio, rimango in silenzio, con gli occhi bassi. Mentre invocano gli dèi, penso: se fossi in una cerimonia induista o in una shintoista, farei esattamente lo stesso. Mi adeguerei per rispetto al loro credo ed alla loro religione, ma non mi adeguerei troppo per rispetto a me stesso. Considero pure il luogo: sono in territorio “cattolico” ed in una struttura “cattolica”. Scelgo così quella strana via di mezzo e attendo che la preghiera finisca. Poco dopo ci disponiamo in campo, e scopro che la Cei, personificata dal prete venticinquenne, gioca nella mia squadra, assieme a Raffaele, Francesco ed a un ragazzo siciliano venuto a Roma a studiare nonsisacheccosa. “Dio è con noi, vinceremo!…” dico a mezza voce alla squadra, ma sembra che non mi abbiano sentito – forse per fortuna. La preghiera a centro campo ha però creato in me dei pensieri turbinosi, che oscillano fra le leggi francesi sulla laicità dello stato, Dan Dennett e l’opportunità o inopportunità del comportamento del giovane prete. Ignoro le cose, perché un ricordo più forte occupa i miei neuroni e la mia attenzione.
In questo ricordo ci ho trovato, condensate, le intuizioni di David Hume, Blaise Pascal e Friedrich Nietzsche. L’intuizione secondo la quale sotto ogni pensiero c’è una passione. Un dannato riflettore puntato sulle oscurità mie e dell’intera dannata razza umana, altro che lo stadio. Un Nietzsche, ad esempio, non poteva fare altrimenti che chiedersi di continuo “e questo che cosa maschera?” finendo per ridurre, semplificare eccessivamente il mondo, ma diventando uno dei maggiori maestri del sospetto, dello scetticismo metodologico, di sempre. Ma allo stesso tempo, quel prete che gioca a calcio è uno che crede in un dio e nella provvidenza, nella presenza di dio nella storia. Prima di credere, si è disposti a credere, idem per il dubitare. Per Nietzsche, “tutta la vita è una disputa su gusto e sapore”.
Questo vale a maggior ragione se penso non solo ai condizionamenti corporali, emotivi, educativi, sentimentali, formativi. O ai traumi e alle dipendenze nascoste (insomma, l’ambito psicologico). Ma vale anche se penso ai condizionamenti economici e sociopolitici, quelli magari che affrontavano, in maniera diversa, Foucault e la scuola di Francoforte. E cosa significa tutto ciò? Significa abbattere il mito del pensiero chiaro e distinto. Il mito di una ragione infallibile che possa illuminare il mondo. Riesco appena a fare luce su me stesso… il pensiero attraverso cui il mio corpo si mostra, con cui si comunica, è straordinariamente debole, fragile, vissuto, delicato: questa è la fondamentale testimonianza nascosta nell’ombra più inaccessibile del mio corpo. Il pensiero “dipende”. Prova ne è che da quando vivo su me stesso, senza contare su nessuno, le incertezze della vita, sta cambiando anche la mia visione del mondo. Il pensiero scopre di essere precario, precario come la filosofia. Riconosce i legami con la vita, con l’ esperienza, con le biografie, con la debolezza, con l’angoscia, con i desideri autentici ed inautentici, e diventa più umile. Forse meno ambizioso, ma decisamente più umile. Il pensiero dipende da un corpo precario, che è sempre in viaggio ed è sempre alle prese con dei desideri inappagati o con alcuni appagati. Sempre. Di qualunque natura siano questi desideri, queste passioni e questi vissuti, il mio pensiero si nutre di essi. La filosofia, per sua essenza, è debole, precaria. Deve riconoscerlo, o non potrà diventare più forte. Devo, prima o poi, riconoscerlo.
Torno alla realtà. La partita è iniziata, i più bravi in campo sono Francesco ed il prete. Uno strano compromesso storico cattocomunista molto discutibile. Nonostante i loro sforzi, vinciamo solo tramite un golden goal del siciliano dopo un monumentale pareggio raggiunto in extremis. L’epica cavalleresca in confronto è peppa pig. Io, che non gioco da circa 8 mesi, mi rendo conto di aver fatto una delle mie peggiori figuracce della mia vita di calciatore dilettante. La squadra avversaria, composta da ragazzetti incredibilmente veloci e tecnicamente dotati, ci ha dato filo da torcere. Alla fine del match, stringo la mano al prete. Dopo pochi secondi, ci abbracciamo tutti quanti. Lui mi sorride, io gli dò una pacca sulla spalla. Non so esattamente perché, ma ora lo sento più vicino. Me lo vedo lì, gettato nel mondo, con una storia e una sorte più o meno segnata, un corpo più o meno definito, di cui al massimo può ampliare l’orizzonte. Esattamente come me. Qualcosa ci accomuna: io, scettico e metodico, e lui, uno che crede di stare lì perché “dio lo vuole”. Credere e dubitare, due facce di una stessa medaglia, due passioni diverse, ma opposte. Entrambi, come direbbe quel naziskin di Heidegger, “gettati nel mondo”. I miei pensieri, inaspettatamente, li vedo mutati, dopo una bella partita a pallone.
A. S