L’esautorazione della città come Stato, nel IV sec. a.C., ingenerò la conquista progressiva, da parte del cittadino, dell’indipendenza dell’organismo politico a beneficio del singolo. Qualcosa di analogo avverrà dopo la morte di Alessandro, quando le sofie e, in particolare, le filosofie ellenistiche, non riconoscendosi più nello spazio comunitario della πόλις, saranno costrette a rifugiarsi nella vita interiore per ricostituire l’armonia perduta con l’esterno a causa del frantumarsi del senso della partecipazione comune. Né può dirsi che lo stesso non accadrà a loro modo a Seneca e allo stesso Cicerone, meritevole quest’ultimo, nonostante gli accaniti pregiudizi del Mommsen, di aver introdotto per primo la filosofia a Roma negli ultimi anni difficili della sua vita per la perdita della figlia Tullia e del suo ruolo politico-istituzionale (ma ancora abbastanza autorevole perché Ottaviano in un primo momento gli si rivolgesse per trarne un avallo politico per se stesso): il suo sarà un complesso ritirarsi nell’otium (pur sempre le opere estreme di Cicerone conservano una paradossale funzione pratica, insita nella mentalità latina, una sorta di uso sociale del cervello ante litteram) ispirato alla Stoà, tra l’altro, e di marca decisamente antiepicurea, appunto per il potenziale di visione politica tuttora espresso.
Una trasformazione simile non fu senza traumi: “ci saranno stati sia nostalgici pronti a lamentare la decadenza dell’ordine antico, sia persone disposte ad identificarsi tout court con il nuovo, e saranno coesistite disperazione e speranza.”[1] Sia la Scuola cinica, con Antistene, sia, su un versante edonistico, fenomenistico, la Scuola cirenaica, con Aristippo, constatarono la felicità umana possibile nella raggiunta autarchia individuale. Addirittura, per i primi il progresso porta all’autodistruzione, e non c’è alcun fine divino in esso. Anzi, esso è qualcosa di immorale: per ritornare alla moralità originaria, l’uomo deve abbandonare le vie della civilizzazione.[2]
Per autarchia, invece, si intende l’αὐτάρκεια, che poi era in discordanza con la democratica πολιτεία, e cioè precisamente si intende l’αὐτάρκεια geografico-domestica, contadina, valida nella concezione economica ellenica, ossia il quasi completo isolamento, o la pressoché totale autosufficienza, predicata dai Cinici. L’individualismo dei Cirenaici vede l’autonomia negli stessi termini.
Si giunge a un risultato significativo: “così iniziarono ad avere un significato pratico i dubbi, espressi già nel quinto secolo, sul fatto che l’esercizio delle arti e della scienza avesse reso l’uomo effettivamente migliore o la vita più felice.”[3]
Qui è il punto di allontanamento di Antistene e Aristippo dal loro maestro Socrate: la civiltà non è disprezzata da Socrate, il quale all’opposto scorge in essa un disegno degli dèi. Egli inoltre non predicò l’isolamento. Non abbastanza socratici, insomma, Antistene e Aristippo esagerarono certamente nel rigetto eccessivo della vita pratica; senza dubbio essi furono contrari all’idea di progresso. Ma va precisato che quella loro separazione dalla civilizzazione era piuttosto avversione per uno sviluppo prevalentemente materiale e/o tecnico, che non proprio contraria al progresso etico. Va altresì recuperata in Antistene e in Aristippo l’“individualità” nei termini relativi (il concetto di individuo è estraneo al pensiero greco) come bene: edonismo, fenomenismo, eudemonismo morale, autosufficienza, “individualismo” (il non-aver-bisogno-di-nulla, τὸ μηδενὸς προσδεῖσθαι), fra Cinici e Cirenaici, sembrano separare l’uomo dalla civilizzazione, senza con ciò porre in pericolo il vero e proprio progresso etico-morale. Cinici e Cirenaici concepivano il progresso alla stregua di un miglioramento in senso prevalentemente materiale, se non addirittura “tecnologico”.