“Himmel abgeschafft!” (Abolito il cielo!)
“[…] Ho tradito la mia professione; e quando un uomo ha fatto ciò che ho fatto io, la sua presenza non può essere tollerata nei ranghi della scienza […] ”.
Bertolt Brecht non ha certo bisogno di presentazioni. Eppure, se mai qualcuno fosse rimasto indietro, non potremmo che dirgli che egli è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo e regista teatrale. L’originalità dell’approccio con cui ha affrontato temi di carattere prevalentemente sociale, ci porta a considerarlo in modo indiscusso come uno degli autori più innovativi della drammaturgia contemporanea. Protagonista di una critica feroce nei confronti della realtà moderna nei suoi aspetti storici, Bertolt ha analizzato l’umano nelle sue debolezze, e in tutte le sue zone d’ombra. Brecht iniziò a interessarsi alla figura di Galilei in occasione del tre-centenario del processo, subito dal genio pisano, ad opera della Santa Inquisizione, ergo nell’anno 1933. Da quell’anno ha inizio la scrittura travagliata, sofferta, e ragionata di quest’opera: “Vita di Galileo”. La storia di questo testo segue, e accompagna le vicende personali dell’autore, e il contesto storico in cui esso viene scritto. Dopo diverse modifiche, traduzioni, e riedizioni giungiamo alla più celebre versione, ovvero l’edizione berlinese del 1955/56 (Quella che ho letto io, e che vi consiglio vivamente di leggere se non lo avete ancora fatto).Questo dramma è il canto dell’anti-eroe per eccellenza. L’autore non si pone come scopo quello di raccontare la vita del grande Galilei, ma, come si percepisce facilmente anche dal titolo, si prefigge di raccontare la vita di un uomo, dell’uomo Galileo, scienziato non troppo impavido, che ha paura di rivelare ciò che vede dall’altra parte del suo cannocchiale. Brecht ci offre un Galileo umano, preso dalle mille preoccupazioni del quotidiano, intento a gestire lezioni, guadagni, osservazioni astronomiche e calcoli matematici.
Ma addentriamoci nel testo. L’uomo-Galileo brechtiano è intento a chiedere un aumento di stipendio per le sue lezioni, che ricompensi in modo adeguato il suo lavoro d’insegnante full time, e dice: “E a che serve la libertà d’indagine, senza il tempo libero per indagare?”. Lo scienziato-Galielo sente su di sé la responsabilità della riflessione, e della scoperta; egli deve poter avere il tempo di pensare, studiare, e osservare, ma deve anche poter mangiare e procurarsi gli strumenti necessari per le sue ricerche. Dunque, se è vero quello che Brecht fa dire al suo Galileo, che “[…] le città sono piccole, le teste altrettanto. Piene di superstizioni e pestilenze […]”, l’uomo deve mettersi necessariamente in cammino verso il progresso, e debellare l’infezione purulenta dell’ignoranza. Affinché l’uomo lasci i suoi porti sicuri, trovi il coraggio di solcare mari ancora sconosciuti, e di raggiungere nuovi lidi (cosa che ci augura anche Nietzsche nella Seconda Considerazione Inattuale) lo scienziato (che è uomo, ancor prima di essere scienziato) deve poter avere il tempo, la condizione socio-economica, e il supporto della società che lo circonda per farlo.
Ma Brecht non lascia dubbi al riguardo: La società che ci sovrasta vuole nutrire un uomo involuto e ignorante. Un uomo che non ha il coraggio di alzare gli occhi al cielo e guardare il fuoco dell’ardore solare a occhi nudi (come tanto tempo fa lo stesso Platone ci invitava a fare). Proprio l’amico Sagredo dice rivolgendosi a Galileo: “[…] E’ una notte di sventura, quella in cui l’uomo vede la verità. E’ un’ora di accecamento, quella in cui crede il genere umano capace di ragionare […]”. La società in cui viviamo annulla a fatica le nostre speranze, e ci convince della bugia più grande: l’uomo non è in grado di pensare, quindi è meglio per lui (ma soprattutto per lei) che tutto rimanga com’è.
Ma l’uomo-scienziato-Galileo brecthiano fa tesoro della lezione di Giordano Bruno e ammette che Dio è “In noi, o in nessun luogo.” Galilei si riferisce a proprio a quel Bruno che ebbe il coraggio (dote che a lui manca) di portare avanti le sue idee fino al caldo rovente del rogo in Campo dei Fiori. Ammettere che Dio è in noi vuol dire credere in un Dio che si fa uomo, e in un uomo che può elevare se stesso alla sapienza divina. Con l’aiuto del nostro sapere, cedendo al fascino seducente della ragione, alla “[…] dolce violenza che usa la ragione agli uomini […] potremmo quasi (e sottolineo quasi) sostituirci a Dio, e capire una volta per tutte come va il cielo (siamo proprio sicuri?)“.
A tal proposito leggiamo un altro passo dal testo. Per definire il carattere mutevole e abolire la fissità tolemaica del cielo, l’uomo-scienziato-Galileo rivolgendosi all’amico Sagredo, dice parole che risuonano come un annuncio solenne al mondo: “[…] Non staccare l’occhio dal telescopio. Quello che stai vedendo è che non esiste differenza tra il cielo e la terra. Oggi è il 10 gennaio 1610. L’umanità scrive nel suo diario: abolito il cielo […] ”. A parer mio in queste parole si cela un vero spirito rivoluzionario. La loro potenza sovversiva mi conduce in un volo pindarico, e mi porta a pensare di nuovo a Nietzsche e alla ferocia del suo “[…] Dio è morto […]”.
Abolire il cielo vuol dire tagliare via con un’accetta il passato, senza preoccuparsi del sangue che macchierà le nostre vesti, significa prendere coraggio e lottare per essere migliori in nome dell’umanità (coraggio che Galileo non ha avuto fino in fondo). Abolire il cielo vuol dire guardare dove nessuno fino ad ora aveva osato guardare, senza temere che una divinità ci trasformi in un cervo o in chissà cosa. Abolire il cielo sta a significare cancellare il pregiudizio e il dogmatismo che ci rendono fossili ancor prima di essere morti, è accettare il proprio essere uomini pensanti e senzienti con la consapevolezza di poter sbagliare.
E’ fuori ogni dubbio che Brecht ci offra una lezione universale, senza tempo, e senza luogo. La grandezza dell’umano risiede in lui, e in nulla di esterno. Perciò risvegliamo le nostre menti dal tepore caldo del pregiudizio e battiamoci per ciò che abbiamo di più grande, noi stessi. Alziamo gli occhi al cielo, viaggiamo per le strade del mondo, facciamo nostre le storie che leggiamo sui libri, impariamo dalle persone che incontriamo sul nostro sentiero, accettiamo di poter cadere e troviamo la forza di cambiare idea. Diamoci al mondo con umiltà, e nutriamoci del mondo con passione.
In un testo di Galilei, noto come “La favola dei suoni”, presente all’interno del “Saggiatore” troviamo espresso in modo poetico tutto ciò che abbiamo appena sottolineato. “[…] Quando ei credeva d’aver veduto il tutto, trovossi più che mai rinvolto nell’ignoranza […]”. Niente è più emozionante per il genere umano se non l’idea di poter cambiare, di poter cadere nelle sabbie mobili dell’ignoranza e di poter lottare infinitamente per uscire da quella melma scura.
E se è vero che per cambiare bisogna accettare che il nuovo lasci il posto al vecchio, Brecht conclude l’opere con una battuta del giovanetto Andrea Sarti, figlio della governante di Galileo, il quale ci ricorda che “[…] siamo appena al principio […]”.
Elisa Scirocchi
Bisogna ricordare che abolito il cielo si spalanca l’abisso. Nuova grandezza dell’uomo che passa per la sua nullità. Il problema dell’illusione.
A mio avviso la nullità è costitutiva per l’essere umano.
L’illusione sta nell’inconsapevolezza di ciò.
Sartrianamente parlando, l’uomo è l’essere per cui il nulla viene al mondo.
Siamo un coacervo di finite possibilità, finite per l’appunto, ma meravigliosamente possibili.
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