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Ho dovuto combattere contro il più grande condottiero; mi è riuscito di mettere d’accordo imperatori, re, uno zar, un sultano ed un papa. Ma nessuno sulla faccia della terra mi ha procurato maggiori difficoltà di un manigoldo di italiano, emaciato, pallido, straccione, ma facondo come l’uragano, rovente come un apostolo, furbo come un ladro, sfacciato come un commediante, infaticabile come un innamorato: il suo nome è Giuseppe Mazzini (Metternich)
«Garibaldi era assolutamente privo di saggezza politica: non era né un maestro della letteratura italiana, come Mazzini, né un profondo statista come Cavour; ma come audace capitano di truppe irregolari, capace di ispirare nei suoi rozzi seguaci gli elementi di una fede politica semplice e appassionata, aveva in sé una omerica grandezza» ha scritto lo storico liberale inglese H. A. L. Fisher nel terzo volume della sua History of Europe (1935). Meno riduttivo un altro storico di ispirazione liberale, Benedetto Croce, il quale esalta più volte nei suoi scritti, di Garibaldi e di Mazzini, per lo meno il ruolo di modelli d’azione per le nazioni oppresse: «e ancora ai nostri giorni quei nomi – scrive nel 1928, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915- risuonano nella lontana India e quegli uomini hanno colà discepoli» . Durante la campagna che portò alla cacciata dei Borboni dal «Regno delle due Sicilie», Garibaldi assunse la dittatura (1860). Certamente egli pensava alla dittatura romana: magistratura che comportava i pieni poteri nelle mani di un’unica persona, ma per un limitato numero di mesi, eventualmente rinnovabile. Aveva alle spalle una lunga esperienza politicomilitare, dal Sud America alla Repubblica romana del 1849, in cui ugualmente aveva rivestito ruoli direttivi: anche se Mazzini, assurto per parte sua alla testa di un «triumvirato», gli aveva piazzato sul capo, come superiore, il generale Roselli, al quale Garibaldi disobbedì tutte le volte che gli parve di farlo. Ad un certo punto Garibaldi aveva proposto a Mazzini di dar vita piuttosto ad una guerriglia tra le montagne che non ad una ostinata, e militarmente perdente, difesa di Roma. Se però ci si ostinava ad optare per questa seconda strategia, chiedeva per sé la dittatura. Insomma la dittatura ritorna nei suoi pensieri come appetibile e necessaria forma del potere. Mazzini cercò di tamponare questa impennata e vi riuscì, ma poco dopo la Repubblica andava a rotoli.
Quando ancora la Repubblica non era sorta, Garibaldi era già con i suoi uomini sul territorio dello Stato pontificio. Era a Ravenna quando in Campidoglio fu ucciso Pellegrino Rossi. Di quei giorni narra così nelle sue Memorie: «Appariva una spia in Ravenna in pien meriggio in mezzo alla folla; lo colpiva una fucilata; il feritore ritiravasi tranquillamente non fuggiva, poiché altra spia non si sarebbe trovata, ed il cadavere maledetto rimaneva d’esempio alle moltitudini». I Ravennati si meritano il suo plauso come «gente di poche parole ma di fatti». Anche l’uccisione di Pellegrino Rossi ottiene il suo pieno plauso: «La vecchia metropoli del mondo, degna in quel giorno della gloria antica, si liberava d’un satellite della tirannide, il più temibile; e bagnava del suo sangue i marmorei gradini del Campidoglio. Un giovine romano avea ritrovato il ferro di Marco Bruto!». Sia il triumvirato che la dittatura erano, nella costituzione dell’antica Roma, magistrature straordinarie e dotate di poteri incontrollati. La coeva suggestione di Marx che la imminente rivoluzione dovesse aprirsi con una fase di «dittatura» proletaria era dunque – in certo senso – conforme alle concezioni prevalenti all’epoca nel campo democratico, in merito al genere di potere da instaurare nella fase di transizione dal vecchio al nuovo regime.
Quando, nel 1864, Garibaldi organizzò e attuò un suo inopinato viaggio in Inghilterra, e si mise a parlare in pubblico dei grandi problemi internazionali del momento – dalla Grecia, alla Polonia, allo SchleswigHolstein, alla questione di Venezia -, Lord Palmerston fece grandi pressioni sugli organizzatori inglesi del viaggio affinché esso apparisse come strettamente privato. Disse: «Io insisto che, con la scusa della salute, egli rifiuti tutti i pranzi ufficiali, ai quali direbbe cose sciocche mentre gli altri ne deriverebbero di nocive». Disraeli rifiutò tutti gli inviti che comportassero il rischio di incontrare Garibaldi: non gradiva conoscere quel «pirata», disse con allusione non solo alla remota permanenza del generale a Montevideo, ma anche al modo in cui aveva conquistato il Regno di Napoli. Eppure l’arrivo a Londra fu un trionfo. Lo ricorda, con ammirati accenti, anche Croce nella Storia d’Italia. Mezzo milione di persone attese Garibaldi per tutta la mattina. La carrozza, stretta nell’abbraccio della folla, impiegò sei ore per percorrere sei miglia. Le associazioni operaie di mutuo soccorso, le associazioni «per la temperanza» e altre ancora, che si erano costituite in «Working Men’ s Garibaldi Demonstration Committee», ottennero un insperato successo: non ci furono per nulla incidenti. La regina Vittoria invece si disse «quasi vergognosa di governare un popolo capace di simili follie». Fece scalpore la visita che il generale rese a Mazzini, e preoccupò molto Palmerston. Forse anche per questo Garibaldi piantò tutto e all’improvviso tornò a Caprera. Marx, che viveva a Londra, giudicò le scene di entusiasmo popolare per l’ospite italiano «un miserabile spettacolo di imbecillità». Quell’uomo non gli piaceva. Tre anni prima, scrivendo a Engels (27 febbraio 1861 ), en passant aveva espresso, in tutt’altro contesto, un giudizio svalutativo su Garibaldi: Spartaco sì – scriveva – era stato un «grande generale (non un Garibaldi)». Lenin fu più generoso: nel Fallimento della Seconda Internazionale (Ginevra 1915) contrappone i grandi rappresentanti della borghesia – Robespierre e Garibaldi – ad altri borghesi, ma nefasti: Millerand e Salando. E commenta: «non si può essere marxisti senza nutrire il più profondo rispetto per i rivoluzionari borghesi che avevano in tutto il mondo il diritto storico di parlare a nome della patria borghese, la quale elevò alla vita civile, attraverso la lotta contro il feudalesimo, decine di milioni di uomini delle nuove nazioni». In Robespierre e in Garibaldi, Lenin, molto più attento alla realtà effettuale dell’aristocratico Marx, apprezza il «capo» rivoluzionario. Questa figura (il «capo») ha accompagnato il movimento rivoluzionario europeo ottonovecentesco in ogni sua fase. È un fattore ineludibile.
(Luciano Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza)
Metternich parlava di Mazzini e non di Garibaldi
Il problema principale di tutti i despoti non è tanto la forza fisica (militare) degli avversari ma la forza morale. La moralità, il sapere morale, la volontà morale sono i peggiori nemici dell’arbitrio, del potere fondato sull’ingiustizia, degli abusi di potere, della volontà di potenza atta a schiavizzare i popoli per soddifare i bruti bisogni dei potenti ( potenti di che? delle loro naturali limitatezze e idiozie). Mazzini era maestro di moralità, di uguaglianza degli individui tra loro, portatore di pensieri di alta civiltà. Mazzini pensava l’uomo come umano e non come bestia da soma. La società moderna e contemporanea non è una società umana ma un gregge di uomini. Manca la consapevolezza di sè come esseri morali. Mazzini, come Socrate nell’antichità greca, deve essere studiato e capito. Non si potrà mai avere una società civile senza moralità, requisito indispensabile dei veri politici, cioè degli uomini chiamati a governare la città (Stato).
Tutto il resto è e rimane retorica a favore della politica sporca e degtradata.