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Articolo dal Corriere della Sera
Quei liberismi tra Foucault e il Bagaglino
In questo modello di emancipazione, le donne ricordano i primi salariati che affrancatisi dalla servitù della gleba misero in vendita la propria forza lavoro
Caro direttore,
c’è una curiosa tendenza, tutta italiana, a oscillare tra le più raffinate posizioni critiche e dissidenti (specie nella sinistra) e la barbarie, tra Foucault e il Bagaglino per intenderci. Mi pare invece che sia giunto il momento di andare in piazza ed essere numerose perché questo non è il tempo dei distinguo, delle raffinate discussioni fra le diverse anime del femminismo italiano, questo è il tempo della piazza. Questo è il tempo delle donne in piazza: l’indignazione, infatti, si dice in molti modi, non solamente annunciando che in Italia esistono donne per bene che studiano e lavorano – e che quindi si distinguono, in maniera autoevidente, da coloro che preferiscono fare altro – ma anche denunciando il semplice fatto che lo scambio fra sesso, denaro e potere sia divenuto il principale ambito di reclutamento «politico» delle donne. Che cosa hanno da dire su questo le donne? Va tutto bene, dunque?
Eppure, a pensarci bene, sia Foucault che il Bagaglino sono indispensabili strumenti di analisi di un fenomeno tutto italiano, in atto da un ventennio o forse più, relativo ad una curiosa, e se vogliamo innovativa, gender politics davvero originale, nella quale il nostro Paese si dimostra essere all’avanguardia in Occidente: una politica del sesso che persegue, attraverso una apparente cornice liberatoria, un pervicace quanto pervasivo addomesticamento subdolo e costante del femminile. Il dispositivo, come direbbe Foucault, è complesso ed agisce su più livelli, e non è «repressivo», ovvero non riguarda più la vecchia formula patriarcale della sottomissione della donna al volere del padre, del fratello o del marito. Esso è, se vogliamo dargli un nome, post-patriarcale: le donne questa volta vi figurano in qualità di straordinari oggetti del desiderio che, finalmente liberati dai pudori del tradizionalismo, si concedono volenterose. Basti citare le note e familiari espressioni della cultura popolare di massa dell’albo nostrano: dall’indimenticabile filmografia di Alvaro Vitali a Striscia la notizia, passando per Colpo Grosso, Non è la Rai, e il Bagaglino, ciò che è costantemente messo in scena, scrutato, sezionato quasi, dalla macchina da presa è un corpo femminile prosperoso e perfetto, lo sguardo ammiccante e voglioso, la voce muta o tutt’al più balbettante banalità. A chi sia allenata ad osservare i fenomeni politici e culturali con occhi femministi, tutto questo processo dice molte cose: in prima battuta non è difficile notare come la produzione in serie di una femminilità prosperosa e disponibile, assecondi e gratifichi lo sguardo e il desiderio maschile, sia pensata esclusivamente per esso (mi sono sempre chiesta, quando i miei compagni di classe alle medie guardavano con avidità i film pseudo-erotici degli Anni 70, come diavolo facesse una bella donna come la Fenech a desiderare di andare a letto con i vari panzuti di turno…). In seconda battuta è lecito affermare che l’impatto di quello sguardo maschile sulle donne, soprattutto sulle donne più giovani, è stato enorme, canalizzato per lo più dalla democratizzazione dei programmi televisivi. La televisione ha in qualche modo normalizzato, naturalizzato lo sguardo maschile sui corpi femminili «a disposizione». E le ragazze hanno, chi più chi meno, interiorizzato quello sguardo, ne sono state disciplinate, direbbe ancora Foucault, forse convinte che per essere in gamba bisognava aderire volenterose all’imperativo del godimento. Tuttavia, proprio perché tale disciplinamento è avvenuto secondo modalità dell’entertainment, del divertimento e della trivialità, gli si è dato poco peso, convinte che la politica, quella seria, fosse altrove. Oggi capiamo, senza bisogno di scomodare Foucault o Lacan, che invece sta proprio lì il dilemma.
Se quindi da una parte i corpi femminili sono stati cooptati dentro il dispositivo post-patriarcale del godimento, dall’altra il modello astratto dell’emancipazione ha prodotto degli effetti perversi, e andando a coincidere, proprio come nel caso dell’emancipazione dalla servitù della gleba, con la libertà di vendere il proprio corpo. Marx così definì infatti i primi «salariati»: «Liberi venditori di forza lavoro». La perversione ora, per le donne, consiste appunto nella trasformazione della libertà in liberismo, della sudditanza nei confronti del padre o del marito (il vecchio patriarcato) in una sorta di concorrenza spietata fra giovani donne per ottenere i favori dei potenti di turno. I quali non sono più i maschi-padroni di un tempo, ma gli imprenditori del godimento, i broker del successo che passa per quella «fortuna su cui le donne stanno sedute sopra». C’è anche una neo-lingua che nomina questo preciso trend politico: le donne non sono prostitute, ma escort, prestatrici di immagine, curiose manager di loro stesse in una gara all’auto imprenditorialità del proprio corpo che pare non avere confini, né regole. Tuttavia molte di noi hanno la innegabile impressione che sempre di sottomissione si tratti, o per lo meno di sudditanza simbolica, di mancanza di autonomia, di autodeterminazione, di libertà. Tanto più difficile da stanare perché apparentemente perfetta, indolore e seducente.Smascherare i tranelli di questo neo-patriarcato seduttore è il compito del femminismo in questa precisa congiuntura storica. Se i dispositivi di controllo del femminile si sono trasformati e hanno affinato le loro armi, anche il femminismo deve irrompere in questo presente e provare a decodificare, senza moralismi, quello che sta accadendo. È il compito complesso ma affascinante che la crisi del presente ci impone. Si tratta di adoperare l’armamentario teorico che in questi anni si è sviluppato (forse, è vero, a danno del movimento, della piazza) per mostrare come i processi materiali di produzione dei corpi femminili possano essere contrastati da altrettante analisi materiali di come i corpi, a volte, disobbediscono all’imperativo del godimento imposto dal patriarcato seduttore. Come dice la filosofa americana Judith Butler, ogni processo di normalizzazione dei corpi non è mai completo, esaustivo, e spesso apre la via a modi «sleali» di conformarsi alle regole. Ma tutto questo rimane pura testimonianza personale, o martirio, se non si inserisce in un contesto collettivo, ampio e plurale di un nuovo movimento politico femminile e femminista. Che ci includa tutte, le une e le altre, le sante e le puttane, tutte insieme, per una volta, a cercare di sbrogliare e decodificare un intreccio tanto perverso.
Olivia Guaraldo