L’antropologo André Leroi-Gourhan, nel suo studio intitolato “Il gesto e la parola” (Vol. I, ed. originale 1964), affronta la complessa e delicata tematica dell’ominizzazione e dei suoi legami con la tecnica e con il linguaggio, argomento sviluppato e trattato per interessantissimi e stimolanti quindici capitoli. Il suo studio è diventato col passare del tempo un classico irrinunciabile dell’antropologia, da cui sono partiti nuovi studi e nuove tendenze scientifiche che tutt’ora sono dominanti e hanno svecchiato discipline quali la linguistica, la sociologia e l’antropologia fisica e culturale, la paleoantropologia. Indubbie le ripercussioni sull’attuale dibattito dell’antropologia filosofica. Per affrontare e introdurre il tema dell’opera, è opportuno citare una straordinaria intuizione di Gregorio di Nissa [1], ripresa per l’appunto dal nostro autore:
Così, grazie a questa organizzazione, la mente, come un musico, produce in noi il linguaggio e noi diventiamo capaci di parlare. Non avremmo certo mai goduto di questo privilegio, se le nostre labbra avessero dovuto assolvere, per i bisogni del corpo, il compito pesante e faticoso del nutrimento. Ma le mani si sono assunte questo compito e hanno lasciata libera la bocca perché provvedesse alla parola.
Parola chiave dei primi capitoli dell’opera di Gourhan è il termine “liberazione”. L’autore confuta dapprincipio la credenza nell’antenato mitico scimmiesco e riconduce il progenitore umano ad un “arcantropo” la cui prerogativa principale è la statura eretta. Tale caratteristica “libera” per l’appunto gli arti anteriori, nella fattispecie le mani, che diventano il principale strumento di ibridazione tecnica umana. Inoltre: l’autore critica la convinzione della paleoantropologia classica, anteriore agli anni cinquanta, secondo la quale la causa primaria dell’ominizzazione sia il volume cranico. Gourhan mostra invece che è la stazione eretta a modificare, mediante un complicato legame fisiologico e funzionale con la faccia (sbarramento frontale, mandibola e mascella) e con l’arto inferiore, il volume cranico. E’ dunque questo complesso a condizionare il volume cranico, e non il contrario. Le condizioni dell’uomo nella statura verticale provocano conseguenze di sviluppo neuropsichico che fanno dello sviluppo del cervello umano qualcosa di diverso dall’aumento del volume. Il rapporto tra viso e mano (visto dall’autore nella sua graduale trasformazione dalla forma di pinna) continua a rimanere stretto: utensile per la mano e linguaggio per la faccia sono i due poli di uno stesso dispositivo evolutivo. La tecnica, da un certo punto di vista, si è incarnata nella nostra ereditarietà genetica.
Dal capitolo V in poi, dopo aver svolto una minuziosa analisi anatomica e paleantropologica sugli ominidi e sull’Homo a conferma delle sue ipotesi di lavoro, affronta la tematica dell’organismo sociale. Se nei capitoli precedenti l’analisi era sull’individuo e sul phylum umano nel suo succedersi nel tempo (Australantropo, Arcantropo, Paleantrapo), e sullo sviluppo progressivo di tecnica e linguaggio fino all’Homo Sapiens, ora l’analisi si sofferma sui legami dell’uomo con la sua ancestrale socialità, socialità indagata come una principale strategia di sopravvivenza e propulsore dell’ominizzazione oltre che della tecnica. L’autore affronta la questione come l’affronterebbe l’antropologia sociale: il rapporto individuo-società varia in funzione dell’evoluzione delle strutture tecnico-economiche di un determinato momento preistorico o storico. L’ autore per dimostrare ciò analizza i legami dell’uomo con il territorio, con le risorse, con il gruppo coniugale e la tecnica, rimanendo sostanzialmente legato allo schema di un passaggio dell’uomo da una fase zoologica ad una culturale, etnologica[2].
A questo punto dell’opera ritorna prepotente il termine che era il leit-motiv dell’opera: la “liberazione”, in questo caso, la liberazione di “tempo” che si crea con la divisione del lavoro nella vita associata. Con la comparsa dell’innovazione tecnica dell’agricoltura, verso il 6000 a.C., vi è una netta accelerazione delle altre conquiste culturali e tecnologiche, rispettivamente con la ceramica, il metallo e la scrittura (3500). Per l’autore, sono due le cause che intervengono nelle “invenzioni” della ceramica e dei metalli, così come nella scrittura, con la conseguente urbanizzazione e stratificazione della società:
1) Il ritmo del lavoro
2) L’esistenza di provviste immagazzinate
L’autore afferma che le operazioni artigianali che si sviluppano presuppongono necessariamente la condizione di avere un elevato numero di ore libere, sia nel caso di individui produttori di generi alimentari, non occupati durante gli intervalli dei lavori agricoli, o di veri e propri specialisti del tutto privi di funzioni attinenti all’alimentazione. Il carattere stagionale, intermittente, dei lavori agricoli e la presenza di una massa alimentare che costituisce un margine nutritivo costante, creano dunque le condizione della nascita di “specialisti” della tecnica. Come la mano libera degli Australantropi non è rimasta vuota a lungo, così il tempo libero delle società agricole si è riempito in breve tempo. La stabilizzazione dello spazio, la fine del nomadismo e la possibilità di aumentare, in loco, le risorse aumentando il numero degli individui, creano una situazione particolare dell’ambiente interno che coincide con la liberazione del tempo. Da questa base parte la palla di neve del progresso accelerato delle tecniche in un sistema sociale costituito da unità territoriali dense, intercomunicanti grazie ad una rete di scambi pacifici o bellici[3].Comincia così la fase che l’autore non indugia nel definire come un mutamento antropologico, una vera e propria “sostituzione”:
Il prodigioso trionfo dell’uomo sulla materia si è compiuto a coso di una vera e propria sostituzione. Abbiamo visto, nel corso dell’evoluzione degli Antropiani, come all’equilibrio zoologico si sia sostituito un equilibrio nuovo, percepibile fin dagli inizi dell’homo sapiens, nel Paleolitico superiore. Il gruppo etnico, la “nazione” sostituisce la specie e l’uomo, che nel corpo rimane un normale mammifero, si sdoppia in un organismo collettivo con la possibilità praticamente illimitate di accumulare innovazioni. La sua economia rimane quella di un mammifero altamente predatore anche dopo il passaggio all’agricoltura e all’allevamento. A partire da questo punto, l’organismo collettivo diventa preponderante in modo sempre più categorico e l’ uomo diventa strumento di una ascesa tecno-economica cui presta le idee e le braccia. In tal modo, la società umana diventa la principale consumatrice di uomini, sotto tutte le forme, per mezzo della violenza o per mezzo del lavoro[4].
Il progresso culturale umano coincide inesorabilmente con la scomposizione dell’uomo in un animale collettivo. L’autore paragona la società umana culturale ad un organismo, un aggregato di cellule specializzate raggruppate in organi che fanno funzionare i diversi settori dell’economia vitale; in ultima analisi, la base tecno-economica è il volano della produzione culturale.La città è la meta di questo sviluppo che per l’autore è storicistico e determinato, poiché a cause comuni ed a problemi comuni si risponde in maniera pressoché similare:
In qualsiasi epoca, in America quanto nell’Europa non Mediterranea o nell’Africa nera, ogni volta che il gruppo, dopo aver raggiunto la fase agricola, entra in quella metallurgica, si forma lo stesso sistema funzionale. La città ne è il perno. E’ chiusa nella sua cinta difensiva, accentrata sulle riserve di cereali e sul tesoro. Le cellule che l’animano sono il re o il suo delegato, i dignitari militari ed i preti, serviti da un popolo di domestici e di schiavi. All’interno del sistema urbano gli artigiani costituiscono una serie di cellule di regola endogame: la loro sorte è legata a quella delle classi dirigenti, in genere la loro condizione non è né completamente quella degli schiavi, né completamente quella di uomini rivestiti di tutta la dignità attinente a questa condizione. La città e i suoi organi sono in rapporto con le campagne da cui attingono la materia prima alimentare e di cui garantiscono la coesione mediante una rete di intendenti, intermediari tra re e una classe di contadini in genere asserviti[5].
Tutto ciò è naturalmente gravido di conseguenze che tutt’ora viviamo nelle società contemporanee. Questo organismo urbanizzato infatti non può essere efficiente se non nella misura in cui accentua la segregazione sociale, forma che assume in questo organismo artificiale la specializzazione cellulare degli esseri animati del mondo naturale: possidenti, contadini, prigionieri, offrono una gamma tanto più efficiente quanto maggiore è la distanza tra le loro funzioni.
Alessandro Stella
1 Gregorio di Nissa, Trattato sulla creazione dell’uomo, 379 d. C.
2 Cfr. p. 185
4 Cit. p. 219
5 Cit. p. 210
Mi sembrano ipotesi più fondate,”potenti” e stimolanti.
Insomma, si è partiti da una “liberazione” per arrivare a una forma di costrizione intensa…come prospettiva è comunque inquietante.