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Alla civiltà dei divi appartiene, come complemento della celebrità, il meccanismo sociale che uguaglia tutto ciò che spicca in qualche modo, e quelli sono solo i modelli della confezione su scala mondiale e per le forbici della giustizia giuridica ed economica, che eliminano anche le ultimi frange. La tesi che al livellamento e alla standardizzazione degli uomini si oppone, d’altro lato, un rafforzamento dell’individualità nelle cosiddette personalità dominanti, in rapporto al loro potere, è sbagliata; fa parte, a sua volta, dell’ideologia. I padroni fascisti di oggi non sono tanto superuomini quanto funzioni del loro stesso apparato pubblicitario, punti d’incrocio delle stesse reazioni di milioni. Se nella pscicologia delle masse odierne il capo non rappresenta più tanto il padre quanto la proiezione collettiva e dilatata a dismisura dell’io impotente di ogni singolo, le persone dei capi corrispondono effettivamente a questo modello. Non per nulla hanno l’aria di parrucchieri, attori di provincia e giornalisti da strapazzo. Una parte della loro influenza morale deriva proprio dal fatto che essi, come di per sé impotenti, e simili a chiunque altro, incarnano – in sostituzione ed in rappresentanza di tutti – l’intera pienezza del potere, senza essere perciò nient’altro che gli spazi vuoti su cui il potere è venuto a posarsi. Essi non tanto sono immuni dallo sfacelo dell’individualità, quanto piuttosto l’individualità in sfacelo trionfa in loro ed è in qualche modo ricompensata dalla sua dissoluzione. I capi sono diventati completamente ciò che erano già stati sempre, un poco, in tutto il corso della storia borghese: attori che recitano la parte di capi. La distanza fra l’individualità borghese di Bismarck e quella di Hitler non è inferiore a quella fra la prosa dei Pensieri e ricordi e il gergo illeggibile di Mein Kampf. Nella lotta contro il fascismo non è il compito meno importante quello di ridurre le immagini gonfiate dei capi alla misura della loro nullità. Almeno nella somilianza fra il barbiere ebreo e il dittatore il film di Chaplin ha colto qualcosa di essenziale.
Adorno – Horkheimer, La dialettica dell’illuminismo, traduzione di Renato Solmi, Einaudi, pp. 254-255
Aggiungo io: purtroppo questa somilianza fra barbieri, attori e politici, ora, non interessa più a nessuno. E’ anzi la chiave del successo. Ecco dove il nuovo fascismo ha vinto, processo che ben Pasolini riconosceva.