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Questa non vuol essere una recensione. Un Giappone un po’ diverso da quello descritto da Barthes (ne l’Impero dei Segni) si è presentato durante la mia breve visita di due settimane. Non riesco a idealizzarlo come ha fatto lui, in chiave di non-occidente. Bisogna ammetterlo però, ogni luogo comune, anche alcuni di quelli riportati dal filosofo, ha una qualche verità di fondo che lo giustifica. Bathes, ad esempio, parla di ritualità, di nipponici che per darti (molto più che un semplice dirti) un “grazie” impiegano nel loro inchino tutto il loro corpo, non solo una parola. Del resto, l’ossessione del rito la si respira ovunque in Giappone. Dai capistazione, agli usceri, ai vigili “pedonali”, dalla scrittura col pennello fino al famoso e mitologico (in occidente) tiro con l’arco, da ogni lavoro o ruolo sociale che in quanto tale fa parte di una precisa gerarchia, ogni atto umano s’inserisce in un qualcosa di noto, in un solco già tracciato di regole precise e gesti precisi, precisi e puntuali come un treno della JR (Japan Rail).
Le nuove generazioni nipponiche femminili, quelle che “scelgono” di vivere e seguire la moda occidentale, quella moda che per le strade di Tokyo o Dotonbori ti obbliga a indossare short, con gambe nude senza calze né collant (anche nel gelido inverno) o che ti costringe a infilarti negli occhi delle pericolose lenti a contatto (che ti ingrandiscono l’occhio, così da renderlo come quello delle star di Hollywood) sembrano godere di più libertà sociale, ma divengono schiave di altre strane “tradizioni” e di altri ottusi rituali, veicolati dai media, neon, schermi piatti grandi quanto un palazzo e da tutto quello che il “pensiero unico” del mercato comporta. Gli uomini? Un’altra moda che è un rito, quello dei Business man, con l’immancabile ventiquattr’ore e l’onnipresente completo nero occidentale.
Per capire l’origine di questa ritualizzazione dell’essere, bisogna guardare alla cultura cinese, madre di quella giapponese. Per la Cina di Kongfuzi (il nostro Confucio), il rito (in cinese, Li), la ritualizzazione, è ciò che distingue il “barbaro” dal cinese, l’uomo dall’animale. Nei Dialoghi, Confucio scrive:
“se non v’è il rituale e regolarle, la gentilezza si fa molesta, la prudenza si fa vile, l’audacia si fa ribelle, la rettitudine si fa intollerante“. (VIII,2)
Anche il bere tè, in Giappone, è diventato un famoso rito, il celeberrimo Chanoyu (cerimonia del tè), una chicca antropologica che merita di essere approfondita in altra sede. Vi è così in Giappone un’attitudine a “conformarsi a”, respingendo la nostra “spontaneità” come eccessiva e fuori luogo. Alla base di ciò, vi è probabilmente una concezione della “persona” diversa dalla nostra. Quella occidentale, di stampo greco/ebraico, contrappone un IO auentico ai condizionamenti inautentici della società. L’esteriorità, l’etichettà, la forma, per l’occidentale (erede, fra gli altri, di Rousseau) è fittizia; l’interiorità, al contrario, è autentica. L’Io giapponese è invece vuoto come il centro di Tokyo, come il giardino zen (solo rocce e sabbia) di Ryoan-ji a Kyoto (che ho visitato completamente ricoperto di neve, perciò ancora più vuoto). Il buddismo, penetrato dalla Cina nel VI secolo, ha scavato un solco profondo rispetto alla concezione occidentale, rispetto alla nostra più autentica (e greca) invenzione, cioè l’individuo. La domanda di Barthes però rimane. Riferendosi agli “inchini”, una costante del Giappone, afferma:
Perchè mai la cortesia è considerata in Occidente con sospetto? Perchè la cortesia viene ritenuta un elemento di distanza (se non addirittura di fuga) oppure di ipocrisia? Perchè un rapporto “informale” (come si dice da noi, con ingordigia) è più auspicabile di un legame sottoposto a codici? (Barthes, L’impero dei Segni, Einaudi, p. 75)
Se vi è relatività dei punti di vista, non relativismo, ha ragione Barthes. Questa concezione dell’Io giapponese, la vacuità buddista, non ha però cancellato la controparte, quei tremila anni di “forma” (è così che noi occidentali chiamiamo le cose che reputiamo inautentiche, seguendo anche questa volta il pensiero greco) che condiziona l’uomo giapponese fin al punto che se non fai parte del tutto-sociale, se in qualche modo ne rimani fuori (se, per esempio, non hai un lavoro, o se non rispetti le prerogative del tuo status, della tua posizione sociale), non sei nessuno, e nessuno ti darà il minimo riconoscimento sociale. Il buddismo ha così solo minimamente intaccato la struttura piramidale giapponese, che anzi ha usato il capitalismo per irrobustirsi. Ad esempio, nell’intricata rete stradale di Tokyo, mentre chiedevo indicazioni sull’ubicazione di un tempio, ho notato la reazione del superiore quando ho chiesto al sottoposto l’informazione. Subito mi si è avvicinato, quasi offeso del fatto che io non avessi chiesto a lui l’indicazione, stizzito per aver scelto uno dal lavoro più umile, più in basso in gerarchia. Questo e altri eventi simili hanno confermato alcuni luoghi comuni sul Giappone ed i Giapponesi.
Quanto alla religione/religioni (uso questo termine per approssimazione), il Giappone è davvero unico. Shinto e Buddismo (anche quello esoterico) sono perfettamente integrati e amalgamati, in un’unità indistinguibile. I Torii, questi monumentali portali di accesso ad un luogo sacro e delimitato, un luogo dove abita un qualche spirito (kami), li si poteva trovare anche nelle città, non solo sulle colline, sui monti o in qualche landa inaccessibile. L’unica presenza del cristianesimo era sulle numerosissime pubblicità nelle grandi megalopoli, dove veniva reclamizzato il matrimonio in stile occidentale (a prezzi modici, è possibile sposarsi in una falsa chiesetta davanti ad un falso prete, tutto per imitare i signori della guerra di Hollywood). Paradossalmente, in questo strano paese sospeso fra mondanità e ascesi mistica, fra le stranezze del mondo fluttuante e quelle dei pellegrini-asceti vestiti di bianco, non ci sono dèi gelosi dal nome ebraico. Si può seguire lo Shinto, il Buddismo o nessuno dei due senza meritare l’inferno e al contempo, lavare qualche corrotta e mondana banconota, per assicurarsi ricchezza e prosperità per l’anno nuovo (vedi il rito del lavaggio del denaro nel tempio shinto di Zeniarai Benzaiten) .
Le contrapposizioni occidentali qui scompaiono anche nell’architettura. A Tokyo, per esempio, non fa scandalo vedere gru e grattacieli proprio accanto al palazzo imperiale, uno dei simboli del Giappone, nonché sede dell’imperatore. In questa foto, scattata il 10 gennaio, ho cercato di mostrare il paradosso, insolvibile per un occidentale:
(clicca sulla foto per ingrandire)