a cura di Elisa Radaelli
Michael Polanyi (1891-1976), chimico e filosofo ungherese vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ha elaborato un’originale riflessione filosofica in difesa della società libera. I suoi scritti, che spaziano dall’economia all’etica, dalla chimica alle scienze sociali e dalla fisica alla filosofia, costituiscono un’eredità importante a cui sarebbe doveroso dedicare le giuste attenzioni. Tuttavia, sebbene negli Stati Uniti sia sorta, all’inizio degli anni Settanta, un’associazione che raggruppa studiosi di tutto il mondo allo scopo di approfondirne il pensiero[1], egli rimane, ancora oggi, largamente ignorato. Il cognome Polanyi è noto, semmai, perché associato al nome del fratello Karl, uno dei maggiori storici dell’economia del secolo scorso. Dalle opere principali di M. Polanyi affiora con chiarezza l’esigenza, fortemente sentita dall’autore, di individuare le ragioni profonde di alcuni cambiamenti storico-politici, accanto al rifiuto per le spiegazioni più scontate. L’interesse con cui segue le vicende del suo tempo è di estrema importanza per comprendere il suo pensiero nella misura in cui, proprio nel tentativo di spiegare l’attualità, egli elabora originali schemi interpretativi che si riveleranno fondamentali nella formulazione dei capisaldi della sua filosofia politica. In particolare, l’avvento dei regimi totalitari, tedesco e sovietico, assieme alla rivoluzione ungherese del 1956, sono stati per Polanyi uno spunto decisivo. Infatti, la riflessione sviluppata in merito a questi avvenimenti lo condurrà ad esaminare i fondamenti che reggono una società libera e ad interpretarli in termini di credenze.
La rivoluzione ungherese assume in tal senso un ruolo emblematico. L’autore, nel saggio Il messaggio della rivoluzione ungherese, formula in modo chiaro il proprio giudizio, sostenendo che:
[I rivoluzionari ungheresi] espressero il loro orrore per una filosofia che insegnava che la verità, la giustizia e la moralità devono essere ossequienti al partito, e chiesero che questi valori fossero riconosciuti come liberi poteri della mente. I loro motivi morali erano confermati dalla pretesa che gli standard di verità, giustizia e moralità debbano essere riconosciuti come poteri indipendenti negli affari pubblici. Una passione per la libertà conferma così l’esistenza della libertà per cui essa combatte.
Polanyi prende in esame soprattutto i cambiamenti che si verificarono all’interno di un importante organo ufficiale del partito comunista, ovvero il circolo Petöfi (che prendeva il nome dal poeta ungherese Sàndor Petöfi[2]). Gli intellettuali che vi appartenevano organizzarono, nel giugno del 1956, una protesta contro l’assunto marxista per cui l’opinione pubblica non sarebbe altro che una sovrastruttura, dipendente dalla struttura economica:
L’assemblea rigettò questa dottrina. Essa affermò che la verità deve essere riconosciuta come un potere indipendente nella vita pubblica. La stampa deve essere resa libera di dire la verità. I processi criminali basati su false accuse dovevano essere condannati pubblicamente e i loro responsabili puniti; il governo della legge doveva essere restaurato.
I rivoluzionari ungheresi non fecero altro che rendere operative queste considerazioni teoriche. Il problema, argomenta Polanyi, nasce nel momento in cui si cerca di interpretare l’accaduto in termini sociologici: secondo un diffuso punto di vista, la rivoluzione sarebbe stata l’esito inevitabile e quasi meccanico dell’incapacità del programma staliniano di rispondere alle rapide trasformazioni della società. A suo avviso, invece, fu il desiderio di verità e giustizia[3] a spingere gli intellettuali comunisti a ribellarsi ad un clima divenuto ormai insopportabile. Secondo Polanyi, quindi, se il cambiamento di mentalità fu così radicale (dall’ossequio al Partito alla ribellione), le cause vanno attentamente analizzate e per coglierle non serve appellarsi alla storia o alla sociologia. L’ambito con cui occorre confrontarsi è, piuttosto, quello che concerne la riflessione morale e intellettuale.
Il nostro autore si sofferma soprattutto su un elemento: gli intellettuali ungheresi del circolo Petöfi si ribellarono ad una pratica abbastanza diffusa, quella dei falsi processi e delle esecuzioni; ebbene, l’aspetto da rilevare è che essi protestavano contro qualcosa che credevano ingiusto, esprimendo contrarietà per una condotta che credevano sbagliata. E tale giudizio di valore non poteva che essere condizionato da una chiara consapevolezza della distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male: sostiene infatti Polanyi che «se esistono veri valori umani, gli ungheresi […] possono essersi ribellati contro un male reale, e possono averlo fatto perché essi sapevano che era male. Ma questo non può essere deciso senza aver stabilito se i falsi processi siano o meno un male». Le osservazioni proposte si collocano all’interno di un preciso contesto culturale che occorre tener presente per individuare gli interlocutori, espliciti o impliciti, con cui il nostro autore si scontra e si confronta. In particolare, è importante considerare l’ampio credito di cui godeva, a cavallo tra Otto e Novecento, la corrente filosofica del Neopositivismo. Secondo Polanyi, questo indirizzo di pensiero ha in larga misura contribuito alla diffusione di alcune convinzioni che, benché profondamente radicate, dovrebbero essere messe in discussione.
Infatti, per chi aderisce all’impostazione positivistica, un approccio distaccato e obiettivo è l’unica garanzia di neutralità e quindi di esattezza: il Neopositivismo tende così a rigettare tutto quanto rientri nella sfera dei convincimenti personali come arbitrario, a-scientifico e quindi ingiustificato. Nelle pagine de La logica della libertà, così si esprime il nostro autore:
Il Neopositivismo intese non solo liberare la ragione dalla schiavitù dell’autorità, bensì anche sbarazzarsi di tutte le idee guida tradizionali, in quanto non dimostrabili scientificamente. Così, la verità in senso positivistico fu identificata con la verità della scienza e quest’ultima tese ad essere definita – da una critica positivistica della scienza – come mero ordinamento dell’esperienza.
E ancora:
Nella concezione positivista, l’uomo è un sistema che risponde in modo regolare ad una certa serie di stimoli. Il prigioniero torturato da suoi carcerieri affinché riveli i nomi dei complici e, allo stesso modo, i carcerieri che lo torturano a tale scopo, stanno entrambi semplicemente esprimendo le risposte adeguate alle loro situazioni.
Non è difficile cogliere il vero obiettivo polemico di Polanyi né tantomeno la connessione che egli stabilisce tra scientismo marxista e Neopositivismo. In entrambi i casi, infatti, «l’uomo di scienza dovrà dominare i suoi conflitti interiori, quelli del suo ambiente sociale e, una volta liberato dalle illusioni metafisiche, rifiutare di sottomettersi ad ogni obbligo che non possa dimostrarsi essere al servizio dei propri interessi». Una concreta testimonianza del pericolo insito nell’affermazione secondo cui la scienza è al servizio di soli interessi pratici è individuata nella vicenda del biologo Nikolaj Ivanovic Vavilov, di cui Polanyi riferisce in molte delle sue opere: Vavilov (1887-1943), biologo russo, venne perseguitato e condannato a morte[4] perché sostenitore della genetica, ritenuta dal regime staliniano una pseudoscienza borghese.
Le considerazioni del filosofo ungherese investono però anche quella dottrina del dubbio che, proprio nella difesa dell’oggettivismo, assume un ruolo fondamentale. L’autore fa esplicito riferimento a René Descartes che «fece strada con il suo programma di dubbio universale» e che «aveva dichiarato che il dubbio universale doveva purificare la sua mente da tutte le opinioni accettate fiduciariamente e doveva aprirla alla conoscenza fondata solidamente sulla ragione». Dunque, partendo da Descartes, ritenuto l’iniziatore del pensiero critico moderno, Polanyi polemizza a distanza con Bacone, Isaac Newton, John Stuart Mill, Immanuel Kant e persino con i linguisti a lui contemporanei. Attraverso questa polemica, giunge ad elaborare un originale concetto di oggettivismo, così definito nelle pagine de La conoscenza personale (1958):
L’oggettività non esige che noi stimiamo il significato dell’uomo nell’universo in base alle piccole dimensioni del suo corpo, in base alla sua breve storia passata o alla sua probabile carriera futura. Non occorre che noi ci consideriamo come un grano di sabbia in una distesa pari ad un milione di Sahara. Invece c’ispira dandoci la speranza di superare le grandissime debolezze della nostra esistenza corporea, fino a farci avere un’idea razionale dell’universo che possa parlare autonomamente e autoritativamente. Non è un consiglio di auto eliminazione, ma al contrario è un richiamo a quel Pigmalione che è nella mente dell’uomo.
Ma non solo. Egli nota come, molto spesso, il dubbio venga considerato una vera e propria garanzia di tolleranza. Soltanto se consapevoli dei propri limiti e del proprio fallibilismo, si dice, gli uomini impareranno a rispettarsi reciprocamente, senza che nessuno cerchi di far valere in modo assoluto il proprio punto di vista. Polanyi si riferisce esplicitamente a John Locke e alla sua argomentazione del dubbio applicata alla religione: dal momento che è impossibile dimostrare quale sia la vera religione, dovremmo ammetterle tutte. Secondo il nostro autore, le pericolose conseguenze di un simile assunto emergono in modo molto evidente se si applica questa dottrina all’ambito etico. Infatti, se si sostenesse l’impossibilità di dimostrare oggettivamente la validità di alcuni principi, ne seguirebbe che dovrebbero essere tutti indistintamente ammessi; ma, così facendo, si giungerebbe ad una situazione assurda; infatti, ne seguirebbe «che un sistema di falsità, illecito e crudele, dovrebbe essere messo sullo stesso piano, come alternativa, dei principi etici».
È per evitare esiti come questi nonché per proporre la propria personale posizione, che Polanyi elabora un concetto chiave del suo pensiero, quello di credenza. Nelle pagine dei suoi scritti non fornisce una vera e propria definizione, tuttavia si può cercare di ricostruirne il significato, esaminando i contesti in cui il termine compare e fondendoli poi in un quadro esplicativo che sia il più possibile unitario. Nelle pagine di Scienza, fede e società, il nostro autore fa notare che, sebbene l’imparzialità sia intesa dagli oggettivisti come tentativo di approssimazione continua alla verità, spesso essi dimenticano una premessa fondamentale, ovvero che questo sforzo necessita della credenza nell’esistenza della verità stessa. Nessuno, insomma, potrebbe mai aderire all’ideale della oggettività se non credesse che l’oggettività sia effettivamente conquistabile in quanto garantita dall’esistenza della verità. Il ragionamento proposto è ispirato al celebre passo del dialogo platonico Menone, in cui Menone stesso interroga il suo maestro:
Ma in quale modo, Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E quale delle cose che ignori farai oggetto di ricerca? E se per caso l’imbocchi come farai ad accorgerti che è proprio quella che cercavi, se non la conoscevi?.
Com’è noto, Socrate risponde a questa domanda in modo paradossale, argomentando che all’uomo non è possibile né cercare quello che sa né cercare quello che non sa, nel primo caso perché, se lo conosce, non ha alcun bisogno di cercarlo e nel secondo perché, se non lo conosce, nemmeno sa cosa ricercare. Com’è altrettanto noto, Platone risolve tale problema attraverso la teoria dell’anamnesi. Carlo Vinti sottolinea a questo proposito:
Polanyi sostituisce la platonica «rimemorazione di vite passate» con l’intuizione, in una parola con l’attività di precomprensione, con la «conoscenza inespressa (tacit knowledge)», la quale «dà conto», giustifica l’idea di una conoscenza che inizia dalla posizione di un problema, dal perseguimento della sua soluzione, dall’impegno del ricercatore verso quelle implicazioni ancora indeterminate della scoperta che l’anticipazione precomprensiva fa intravedere.
Polanyi mette dunque in evidenza la fragilità di coloro che assolutizzano l’ideale della neutralità in ogni ambito della vita umana: costoro non sono disposti a riconoscere che il fatto stesso di considerare neutrale un punto di vista richiede una presa di posizione legata a specifici criteri, a standard di coerenza che consentano di individuare ciò che è ‘neutrale’. La difficoltà nel rendersene conto si spiega tenendo presente che i punti di riferimento di cui ci serviamo per differenziare oggetti, esperienze di vita e giudizi sono tutt’uno con la nostra persona. A ben vedere, si legge nel saggio del 1962 L’elemento inesplicabile nella scienza, persino nel semplice percepire è in gioco una componente di scelta, nella misura in cui, ad esempio, un particolare modo di guardare alle cose ne esclude ad un tempo molti altri. Siamo, per così dire, intrisi di valori; da qui il problema di distinguerli come qualcos’altro rispetto a noi, alle nostre scelte e alle nostre azioni. Polanyi, nell’opera Meaning del1975, in modo molto efficace sostiene che non si usano occhiali per esaminare i propri occhiali e che non esistono mappe che leggano se stesse:
Si consideri l’uso delle mappe geografiche. Una mappa rappresenta una parte della superficie della terra, […]. Per usare una mappa per trovare la nostra strada, dobbiamo essere capaci di fare tre cose. In primo luogo, dobbiamo identificare la nostra reale posizione con un punto della mappa, poi trovare sulla mappa un itinerario riguardo alla nostra destinazione e infine dobbiamo identificare quest’itinerario con vari punti di riferimento, […]. Così la lettura della mappa dipende dalla conoscenza tacita e dall’abilità di chi usa la mappa […].
Quindi, ogni individuo si orienta nel mondo guidato da alcuni presupposti di cui non sa rendere conto; la loro evidenza è palese, sebbene sia vano tentare di argomentare in loro favore: semplicemente ci sono. Dovremmo dunque riconoscerne l’esistenza perché è proprio questo indimostrato-indimostrabile a formare e plasmare le nostre menti ed è ad esso, quindi, che vanno ricondotte le nostre scelte o azioni. Polanyi sottolinea l’importanza dell’acquisizione di simile consapevolezza, infatti:
L’oggettivismo ha totalmente falsificato la concezione della verità, esaltando ciò che noi possiamo sapere e dimostrare, ricoprendo però di espressioni ambigue tutto ciò che sappiamo ma non possiamo dimostrare, anche se questa seconda conoscenza è alla base di tutto ciò che possiamo dimostrare e deve in ultima analisi porvi il suo sigillo.
A questo riguardo, Vinti nota che la convinzione del filosofo ungherese è tale per cui ogni forma di conoscenza, ma anche la semplice formulazione di un giudizio o di un’opinione, implica una partecipazione attiva sia dell’individuo che conosce sia di ciò di cui egli è portatore, soprattutto in termini di orizzonti valoriali non del tutto consapevoli ed esplicitati. I valori, dunque, sono attivi nella misura in cui costituiscono, in ultima analisi, gli ̕artefici̕ di ogni decisione e azione umana.
Se «il positivismo ci ha fatto considerare le credenze umane come manifestazioni personali arbitrarie», riducendo la giustizia, la morale, la legge e il costume a delle convenzioni cariche di approvazione emotiva, l’operazione che Polanyi compie, soprattutto nell’opera La logica della libertà, consiste nel tentativo di riabilitare le credenze. In questo testo, l’autore si chiede preliminarmente come si caratterizzi una società libera e giusta. Interrogativo a cui, in assenza di criteri di riferimento, è chiaramente difficile rispondere. Soltanto in virtù dell’esplicito riconoscimento delle credenze condivise e sostenute da una certa comunità, è possibile ottenere una risposta esauriente. Infatti, «l’ideale di una società libera consiste, in primo luogo, nell’essere una società buona: un gruppo di uomini che rispettano la verità, che desiderano la giustizia e amano i loro simili». Il problema, a questo punto, diventa comprendere il rapporto che sussiste tra la sfera delle credenze e le sue ripercussioni all’interno di una società libera. Credere in qualcosa non è un’operazione banale, non per Polanyi almeno; non equivale ad accettare superficialmente certe convinzioni al fine di fornire una giustificazione apparente alle proprie scelte o azioni. Al contrario, credere equivale ad assumersi una precisa responsabilità, un impegno, posto che «è implicito in tutti gli impegni che, quando ci impegniamo in essi, il loro esito sia ancora incerto». Il che, del resto, spiega anche il motivo per cui non sia possibile argomentare razionalmente in favore di una credenza.
Per meglio illustrare la sua tesi, il nostro autore ricorre ad un esempio: quello del giudice chiamato a prendere una decisione. La legge ha un preciso contenuto prescrittivo che, benché non giunga a regolamentare tutti i singoli casi, limita e circoscrive la libertà del giudice. Se la sua decisione risulta vincolante nello stesso modo in cui lo è la legge, questo accade perché è come se egli portasse semplicemente allo scoperto una regola già data ma che nessuno fino a quel momento aveva mai rilevato[5]. La responsabilità nei confronti della giustizia richiede un preciso impegno, esige un’azione non arbitraria ma conforme a specifici criteri, al fine di escludere scelte ambigue o dettate dall’egoismo[6]. Infatti, Polanyi afferma con convinzione che «la libertà della persona soggettiva di fare come le piace viene sopraffatta dalla libertà della persona responsabile di agire così come si deve». Si potrebbe sostenere che l’autore si riferisca ad una sorta di sottomissione volontaria e consapevole a quegli ideali trascendenti (giustizia, verità, carità) che vengono insistentemente menzionati.
Analizzando nel dettaglio il meccanismo dell’impegno, Polanyi nota come, ogniqualvolta professiamo una credenza, ci assumiamo precise responsabilità, persino nei casi in cui ciò in cui confidiamo abbia scarse possibilità di riuscita. Nell’opera La conoscenza personale, l’autore afferma che laddove io creda sinceramente in una realtà, ad esempio la giustizia, mi impegno in quella direzione, ovvero mi sforzo di far luce su qualche cosa che esiste indipendentemente dalla conoscenza che io ne posso acquisire. Come se, nel limite delle mie possibilità, contribuissi a rivelare una piccola parte di una grande realtà. Ma ciò può avvenire se e solo se ho fiducia nell’esistenza di quegli ideali al servizio dei quali mi pongo, se credo in essi[7]. Si tratta, insomma, di una scommessa in base alla quale io posso «aderire con fermezza a ciò che ritengo essere vero, anche se so che può essere falso». Non vi sono immediate garanzie di successo: l’impresa è dunque rischiosa. Una volta colto questo aspetto, non è difficile seguire il ragionamento proposto da Polanyi: poiché l’esito delle nostre azioni o scelte non può essere determinato a priori, diventa fondamentale sostenere con responsabilità alcune convinzioni a scapito di altre, impegnandoci a scommettere su ciò in cui crediamo sinceramente. Ciò che Polanyi propone è un invito all’impegno per ciò e in nome di ciò in cui si crede, dal momento che, come il nostro autore afferma in un articolo del 1966, «le basi effettive di un valore, e il suo stesso significato, saranno nascosti sempre nell’impegno che originariamente rendeva testimonianza a quel valore». Soltanto tale consapevolezza consente all’individuo di legittimare le proprie convinzioni e di mostrare come queste siano al servizio di alti ideali davanti ai quali è chiamato ad assumersi precise responsabilità; così facendo, è possibile «mettere le cose nella giusta strada»: il che equivale, nella prospettiva polanyiana, a porre i doveri dell’uomo ben al di sopra dell’uomo stesso.
[1] Si tratta della Polanyi Society (http://www.missouriwestern.edu/orgs/polanyi/).
[2] Sàndor Petöfi (1823-1849), poeta e acceso patriota, denunciò le condizioni sociali dell’Ungheria. Scomparve durante la guerra di liberazione del suo Paese ma le circostanze della sua morte non furono mai completamente chiarite; si diffuse addirittura la notizia che fosse riuscito a fuggire.
[3] Gli intellettuali ribelli si riferivano, in modo particolare, all’esecuzione di László Rajk, uomo politico ungherese accusato di complotto contro lo Stato; egli fu prima condannato a morte e poi giustiziato, nel 1949. Gli esponenti del Circolo Petöfi rivendicavano il diritto a raccontare pubblicamente la verità sull’accaduto, chiedendo soprattutto che venisse denunciata la falsità delle prove su cui era stata formulata l’accusa.
[4] La pena venne in seguito commutata in vent’anni di detenzione. Vavilov, comunque, non sopravvisse al carcere e morì, probabilmente per malnutrizione.
[5] È opportuno ricordare che Polanyi scrive avendo in mente il mondo anglosassone e quindi il sistema giuridico del common law.
[6] La credenza è in questo senso normativa, perché richiede l’impegno dell’uomo a mettersi al servizio di qualcosa.
[7] «Dirò che “la neve è bianca” è vero se e solo se credo che la neve è bianca», o meglio ancora, «Se credo che la neve è bianca, dirò che “la neve è bianca” è vero».
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Dall’articolo emerge tutta la versalità teorica delle definizioni del pensatore, la radice
epistemologica ma anche la vocazione schiettamente antropologica, che non si nega ad una lettura neo-metafisica, ma che rifiuta di esaurirsi in quella. Ne vengono messe ben in luce le radici storiche e di vera reazione ai luoghi comuni del neopositivismo novecentesco, di cui le varianti marxiste ed ungheresi sono solo uno degli esempi vistosi. Lo studio sulla conoscenza tacita ha un’ambizione raramente raggiunta da tagli teorici più diffusi – quella di mostrare il funzionamento di un meccanismo vivo e presente sia nel pensiero deduttivo e razionale che nel mondo emotivo di chi vive nel contesto sociale. Una coincidenza da non sottovalutare, la ricezione ( seppure non immediata) in campo strutturale, area all’epoca ramificata e non genericamentwe legata alla semiologia di allora.
Silvia GOI