UNA RIVISITAZIONE DEL CONCETTO DI ANIMAL LABORANS IN HANNAH ARENDT. A cura di Alessio Perigli
Introduzione
I L’animal laborans nella storia
I.1 Strumentalità e animal laborans
I.2 La vittoria dell’animal laborans
II L’animal laborans nei regimi totalitari
II.1 L’animal laborans nel regime nazista
II.2 L’animal laborans nel regime stalinista
III L’animal laborans e l’homo sacer
III.1 L’ambivalenza del sacro
IV L’animal laborans e l’uomo artigiano
IV.1 L’uomo creatore di sé stesso
IV.2 L’esperienza come mestiere
Conclusioni
Bibliografia
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Hannah Arendt è sicuramente una pensatrice “sui generis”. Ella ha sempre rifiutato che qualcuno potesse etichettarla all’interno di griglie concettuali predefinite. Non amava definirsi una filosofa, anzi questa definizione la faceva arrabbiare. Hannah Arendt è stata principalmente una pensatrice politica con una matrice filosofica molto forte che ha caratterizzato il suo percorso formativo. Probabilmente questa avversione per la filosofia è nata quando il suo maestro Martin Heidegger aderì la nazismo. Come è stato possibile? La persona che più di tutte le aveva insegnato a scavare fino in fondo i misteri del pensiero, che le ha insegnato ad approfondire grandi sistemi concettuali, ha aderito ad un movimento politico che rappresenta l’uccisione del pensiero stesso, l’eclissi della ragione. Probabilmente questa esperienza la portò a considerare la filosofia una disciplina per coloro che vivono nel mondo delle idee e che si dimenticano delle dinamiche reali. Probabilmente è proprio questo che ha spinto la pensatrice a indagare il mondo della politica, trovando in essa l’autentica condizione umana dell’uomo, soprattutto quello moderno. La politica non per la Arendt un semplice esercizio del potere. Non è un mondo a parte fatto di politici distinto e da un mondo fatto di cittadini, ma è il luogo dove le persone si possono realizzare attraverso azioni e discorsi. Questa concezione è stata assolutamente perduta, secondo Hannah Arendt già nel medioevo dove la vita della contemplazione era di gran lunga più importante di quella dell’azione. Questa distinzione (il cui iniziatore è Platone) ha portato la filosofia a vaneggiare tra i concetti sottovalutando la sfera dell’azione. Questa scorporazione tra filosofia e politica ha portato l’uomo a subire la politica anziché realizzarsi per mezzo di essa. Proprio dentro questo contesto che sviluppa da questa intuizione nasce il concetto animal laborans. Chi è l’animal laborans? L’animal laborans è l’uomo contemporaneo che vive in funzione del lavoro stesso o in altri termini che lavora e che vive per la mera sopravvivenza.[1] Le origini di questa condizione saranno sviluppate successivamente in maniera concettualmente ben definita. Il concetto animal laborans è di stretta attualità. Questa condizione esistenziale è riscontrabile nelle diverse forme di insicurezza caratterizzanti l’odierno mondo del lavoro. Un esempio possiamo trovarlo nell’ambivalente concetto di flessibilità. Il rapporto tra animal laborans e uomo flessibile lo analizzerò successivamente alla luce di due brillantissimi saggi di Richard Sennett citati in bibliografia.[2] L’animal laborans non deve essere un concetto pensato all’interno di un contesto meramente professionale, ma anche in un contesto politico-esistenziale. Per contesto politco-esistenziale intendo tutte quelle di condizioni politiche che producono una esistenza il cui fine è la mera sopravvivenza. Un esempio di questo contesto possiamo trovarlo molto facilmente nei regimi totalitari sui quali Hannah Arendt ha scritto un’opera che cerca di individuare una struttura comune che li determina nonostante le imponenti differenza ideologiche.[3] L’animal laborans, oltre ad essere analizzato da un punto di vista esistenziale, sarà analizzato da un punto di vista concettuale. Analizzare una condizione esistenziale da un punto di vista concettuale significa scoprirne le relazioni che sussistono con altri concetti con cui esistono enormi differenze, ma che vivono in un confine comune, relazioni che una volta individuate arricchiscono la comprensione di un patrimonio concettuale complesso ma nello stesso tempo affascinante. Sarà quindi interessante scoprire che relazione sussiste tra il concetto di animal laborans di Hannah Arendt e quello di Homo sacer di Giorgio Agamben, filosofo contemporaneo.[4] Il concetto di animal laborans non è di certo di matrice ottimistica: esso descrive in maniera cruda una condizione esistenziale determinata da alcuni approcci politico- filosofici che hanno prodotto un humus culturale che a sua volta ha determinato scelte politiche che da un punto di vista umano sono molto discutibili. Quello che intendo ricercare sarà inoltre l’individuazione di una “pars costruens”, ossia un insieme di soluzioni che possono essere individuate nel pensiero pragmatico americano attraverso l’ausilio dei saggi di Richard Sennett. Anche Hannah Arendt ha vissuto dentro un contesto sociale ( quello americano) dove ha fatto i conti con questo tipo di mentalità. Il suo attivismo politico è testimonianza di un atteggiamento profondamente legato a questo approccio, soprattutto alla luce del primato dell’azione che è uno dei capisaldi della sua filosofia. L’agire politico di Hannah Arendt è stato sempre fuori gli schemi: troppo conservatrice per i liberali, troppo progressista per i conservatori. Il suo è un pensiero che difficilmente accontenta chi ha un approccio ideologico scorporato dalla realtà. Per questo ritengo sia giusto offrire tutta una serie di quesiti produttivi proposti da Sennett in linea con la sua volontà di creare una nuova politica: una politica che sappia guardare al miglioramento delle condizione umane fuori da griglie concettuali preconfezionate in nome di quell’ “amor mundi” che instancabilmente ha sostenuto la pensatrice tedesca.
L’animal laborans nella storia
L’animal laborans è una particolare condizione esistenziale. Essa consiste nell’uomo che lavora con il semplice obbiettivo di sopravvivere. La storia dell’animal laborans comincia nella società dell’antica Grecia, nella democrazia ateniese. In quel tipo di società era vigente una particolare modo di percepire la politica: essa era il luogo dove le persone potevano realizzarsi attraverso azioni e discorsi. Tra i cittadini c’era una completa eguaglianza ( la definizione di cittadinanza era comunque molto restrittiva, infatti la maggior parte delle persone che abitavano ad Atene non erano considerati cittadini). Questi cittadini si riunivano in assemblea, il luogo dove si svolgeva il dibattito politico e ognuno era uguale all’altro. Le decisioni venivano prese in maniera democratica (ovviamente la situazione non era così semplicistica, c’erano anche delle forti turbolenze politiche) e ogni cittadino partecipava liberamente alla vita politica della città. La maggior parte del tempo di un cittadino ateniese era caratterizzato dall’impegno politico. Chi provvedeva ai bisogni della casa e ai bisogni fisiologici del cittadino? Le donne e gli schiavi. Le donne erano chiuse tutto il giorno in casa dove svolgevano le mansioni domestiche insieme agli schiavi. Donne e schiavi nell’antica Grecia rappresentano due forme di animal laborans. Alla base di questo sfruttamento non sussistevano banali teorie razzistiche, ma un vero e proprio approccio pragmatico. La domanda che si poneva un cittadino ateniese era sostanzialmente questa: chi si occupa della casa e dei bisogni fisiologici? La risposta era semplice: donne e schiavi. La condizione femminile e di schiavitù erano considerate naturali, ossia pienamente inserite nell’ordine della natura. Non a caso la necessità naturale della schiavitù fu teorizzata anche da un grande filosofo come Aristotele . La sua analisi rispecchia la mentalità vigente nel tempo dei greci.[5] Secondo la Arendt questo approccio è stato scardinato da un punto di vista intellettuale dalla filosofia platonica. Platone metteva in risalto la maggior importanza della vita contemplativa rispetto a quella attiva. Il contemplare il mondo delle idee aveva la precedenza sull’agire nel mondo. Questa mentalità si rafforzò nell’era cristiana dove la contemplazione di Dio era di gran lunga più importante rispetto a qualsiasi azione umana. Questo approccio ha portato a un cambiamento radicale nella società: la svalutazione dell’azione. L’ azione secondo la Arendt consiste nella capacità umana di dare un nuovo inizio a un qualcosa che sostanzialmente è imprevisto. Privando l’uomo dell’azione, lo si priva della linfa vitale, di ciò che lo caratterizza maggiormente e che determina la realizzazione della sua natura. Un altro punto di svolta fu l’avvento del capitalismo industriale e il parallelo processo di secolarizzazione. In questo periodo l’uomo considera molto meno importante la questione dell’aldilà e la capacità di attribuire valore alla sua dignità: comincia a considerarsi mero processo biologico in un mondo in cui fatica sempre più a trovare un senso. Questo ulteriore rovesciamento culturale porta con sé delle implicazioni profonde nel rapporto tra uomo e lavoro: siamo alla fine dell’homo faber.[6] Per homo faber Hannah Arendt intende l’uomo che realizza sé stesso nel lavoro attraverso la creatività e attraverso la capacità di produrre qualcosa. L’homo faber è un uomo che porta qualcosa da uno stato di non essere ad uno stato di esistenza.[7] L’artigiano medievale ne è un esempio molto calzante. Nella società del capitalismo industriale l’uomo è diventato un ingranaggio meccanico di un sistema di produzione seriale. Non sviluppa la sua creatività e non produce niente. La cosa importante è che sia funzionale per lo svolgimento del processo produttivo. Questa condizione lo porta a lavorare con il semplice scopo di portare a casa un salario senza realizzare sé stesso in ciò che fa. La situazione dell’uomo moderno è angosciante. Ovviamente questo processo che apparentemente influenza il solo mondo del lavoro, in realtà influisce anche su altre sfere della vita come per esempio quello delle relazioni sociali. L’individualismo crescente è frutto di una riduzione dell’essere umano ad animale da lavoro. Gli individui rischiano di essere pensati solamente come mera merce di scambio senza che essi siano percepiti come portatori di un valore in quanto naturalmente sono agenti. La persona moderna sembra quasi impotente davanti questo processo.[8]
Strumentalità e animal laborans
Molto interessante è il rapporto che sussiste tra animal laborans e strumentalità. Gli strumenti sono essenzialmente creati con fini produttivi. L’homo faber fabbrica gli strumenti per creare il suo prodotto, frutto della sua creatività. Il rapporto tra creatività e homo faber è assolutamente fondamentale: attraverso di essa egli realizza sé stesso nel processo lavorativo. Fondamentalmente è questa la differenza che separa l’homo faber dall’ animal laborans. L’animal laborans non realizza sé stesso nel processo lavorativo, ma consuma sé stesso. Questo cambiamento è stato determinato dall’avvio della rivoluzione industriale. La rivoluzione industriale è determinata dall’introduzione della macchina come mezzo che determina i processi produttivi. Lo strumento non è più un mezzo che serve all’uomo per produrre un qualsivoglia prodotto attraverso la sua creatività. L’uomo stesso si adatta ai movimenti della macchina. La macchina esercita un domino sull’uomo e non viceversa.
Questo pone il lavoratore in una condizione di subordinazione nei confronti della macchina. Il sistema di produzione in serie intensifica questo processo. L’uomo diventa con questa innovazione solamente una parte del processo produttivo. Il rapporto con lo strumento diventa una situazione che non è più in suo controllo. Questo scenario parte dalla rivoluzione industriale fino ad arrivare ai giorni nostri. La macchina è stata pensata con la finalità di rendere il lavoro dell’uomo meno penoso. La riduzione della fatica fisica era l’obbiettivo che stava alla base della produzione della macchina insieme ad un aumento della produzione. Il risultato di questa novità nella storia del lavoro non ha portato i risultati sperati in termini di soddisfazione professionale. Il valore che esprime il lavoratore all’interno di una realtà di fabbrica è assolutamente sminuito dalla partizione dei processi produttivi. Il cambiamento che avviene nell’uomo dopo questa rivoluzione non riguarda solamente il modo di percepire il lavoro, ma anche il movimento corporeo nella sua totalità: «Non è più il movimento del corpo che determina il movimento dell’utensile ma il movimento della macchina che comanda i movimenti del corpo»[9] La rivoluzione che si è sviluppata nel mondo del lavoro è assolutamente radicale come la stessa Arendt afferma «Ne è risultata una vera e propria rivoluzione nel concetto di fabbricazione; la manifattura, che era sempre stata “una serie di passi separati”, è diventata un processo continuo”il processo del nastro trasportatore e della catena di montaggio»[10]. Il rapporto precedente tra uomo e strumentalità era assolutamente diverso. L’homo faber utilizzava un mezzo per produrre un fine che a sua volta diventava mezzo per qualcos’altro «Ogni fine serve ancora come mezzo in un altro contesto».[11] Questa catena in cui il fine diventa costantemente mezzo solo se l’uomo viene considerato il fine di tutte le cose. Quindi il rapporto tra strumentalità e homo faber è caratterizzato da questa incapacità di comprendere la differenza tra mezzi e fini «La filosofia dell’homo faber per eccellenza, può essere definita teoricamente come un’innata incapacità di comprendere la distinzione tra utilità e significato espressa linguisticamente nella differenza tra le espressioni “al fine di” e “in nome di».[12] A questo punto possiamo tracciare in maniera chiara come animal laborans e homo faber concepiscano in maniera molto differente il loro rapporto con la strumentalità: Il primo non riesce a comprendere il concetto di significato legato al rapporto mezzo-fine, il secondo non riesce a comprendere quello di strumentalità «L’ homo faber, in quanto non è che un fabbricante e non pensa che in termini di mezzi e fini che scaturiscono direttamente dalla sua opera, è tanto incapace di intendere il significato quanto l’animal laborans di comprendere la strumentalità»[13].
Possiamo concludere che esiste una differenza sostanziale tra i dei due approcci, ma che entrambi presentano dei limiti. Il limite dell’homo faber consiste nel perdere il senso del prodotto che produce attraverso lo strumento. Il limite dell’animal laborans consiste nel non comprendere il senso e l’utilizzo dello strumento stesso. La situazione dell’animal laborans è comunque più grave, perché percepisce in maniera molto più forte la perdita di senso nel lavoro che opera.
La vittoria dell’animal laborans
Come si è affermata la condizione esistenziale dell’animal laborans nella società moderna? La risposta sicuramente non è semplice. Ci sono in gioco tutta un serie di fattori, da quelli culturali a quelli politici. Da un punto di vista politico l’avvento del capitalismo industriale ha ridefinito il rapporto tra uomo e macchina. Essa non può più essere considerata come mero strumento attraverso il quale il lavoratore realizza la sua creatività. La macchina è diventata uno strumento finalizzato alla produzione in serie e, a livello teorico, uno strumento che renderebbe il lavoro meno penoso per l’uomo. Il lavoratore moderno non impara il mestiere, ma è solamente parte del processo produttivo. La sua presenza in fabbrica non esprime un valore aggiunto portato all’azienda, ma serve solo per far eseguire determinate istruzioni alla macchina. Questo porta l’uomo a non avere un rapporto col proprio lavoro. Prima della rivoluzione industriale il lavoro di una persona né determinava un’identità che si fondava sulle competenze che il lavoratore conseguiva attraverso l’esercizio e l’apprendimento. Nella società moderna questo processo è saltato. La politica ha dato risposte insoddisfacenti per cercare di impedire che questa condizione esistenziale dilaghi. La condizione di animal laborans influisce molto sulla sfera esistenziale. L’animal laborans vive un senso di frustrazione legato essenzialmente ad un senso di non-realizzazione che sviluppa durante il suo percorso professionale. In questa prospettiva si crea un circolo vizioso che ha messo in moto in maniera molto forte tutta una serie di problemi politici come quello della flessibilità che richiedono delle risposte politicamente consistenti. La politica sembra quasi impotente davanti questo processo «Le qualità richieste dal lavoro e quelle richieste dalla morale non sono le stesse».[14] Da un punto di vista culturale la faccenda è molto complessa. La vittoria dell’animal laborans possiamo attribuirla all’avvento del secolarismo. Il dubbio cartesiano ha messo la società in condizione di perdere tutto quel sistema di convinzioni che caratterizzava la società pre-moderna. Hannah arendt cerca di capire quale possa essere la relazione che lega il dubbio metodico cartesiano, con le sue implicazioni nel pensiero moderno, e la vittoria dell’animal laborans «La vittoria dell’animal laborans non sarebbe mai stata completa se il processo di secolarizzazione, la perdita inevitabile della fede derivata dal dubbio cartesiano, non avesse privato la vita individuale della sua immortalità, o almeno della certezza dell’immortalità».[15] Questa perdita di certezza nei confronti dell’immortalità ha portato l’uomo a dubitare del mondo stesso.
Davanti a questa situazione di disagio esistenziale e culturale, l’uomo non poteva rimanere impotente: bisognava cercare in una sfera non religiosa un elemento che potesse produrre una certa quantità di ottimismo. La filosofia elaborò un modello di pensiero che vedeva nel progresso scientifico una possibile certezza. Questo ottimismo derivava dal fatto che il genere umano attraverso la scienza potesse trovare le condizioni per produrre una vita di qualità. Questa concezione, secondo la Arendt, portava l’uomo ulteriormente distante dalle dinamiche che caratterizzano la vita attiva «E quando postulò che fosse reale nell’ottimismo acritico e apparentemente incontrastato di una scienza in continuo progresso, si portò più lontano dalla terra di quanto non l’avesse mai portato la tensione cristiana verso l’oltre-mondo».[16] La fiducia nel progresso ha portato l’uomo ad avere un rapporto con i propri sensi differente rispetto all’approccio precedente. La mancanza di un approccio finalistico portò l’uomo a ragionare sui propri sensi senza la capacità di attribuire loro un senso «I soli contenuti rimastigli furono gli appetiti e i desideri, i bisogni incoscienti del suo corpo che dichiarò passioni e che giudicò “irragionevoli” perché si accorse che non poteva “ragionare”, cioè fare i conti con essi».[17] Questa mancanza di produzione di senso lasciò spazio solo esclusivamente alla forza vitale, ossia al bisogno di sopravvivenza insito nel genere umano. «Rimase solo una “forza naturale”, la forza del processo vitale, alla quale tutti gli uomini e tutte le attività umane erano egualmente sottomesse(“lo stesso processo del pensiero è un processo naturale”) e il cui solo scopo, se mai aveva uno scopo, era la sopravvivenza della specie dell’animale umano».[18] Il concetto di sopravvivenza diventa così l’elemento essenziale della riflessione umana. L’attività del pensare è oramai ridotta ad una mera funzione cerebrale, funzione alla quale possono adempiere benissimo i moderni calcolatori elettronici «Non è solo e nemmeno soprattutto la contemplazione che è diventata un’esperienza assolutamente priva di significato. Il pensiero stesso, quando divenne “calcolo delle conseguenze”,divenne una funzione cerebrale, col risultato che gli strumenti elettronici adempiono queste funzioni meglio di noi».[19] Così ha vinto l’animal laborans. La funzione stessa del pensare è stato ridotta ad un pensare per sopravvivere.
L’animal laborans nei regimi totalitari
La condizione esistenziale dell’animal laborans si realizza in maniera naturale nei regimi totalitari. Le caratteristiche principali di questi regimi sono: il partito unico, l’utilizzo della polizia segreta, la duplicazione delle associazioni partitiche, un’ideologia che diventa la chiave della storia, l’aspirazione al dominio del mondo sviluppando degli obbiettivi sopranazionali, l’utilizzo dello sterminio sistematico. Il partito unico inizialmente non si presenta come tale. Esso partecipa normalmente alle elezioni democratiche, anche se comincia ad instaurare un clima di violenza nel periodo della campagna elettorale) per poi distruggere il medesimo sistema democratico che lo ha condotto al potere. Il regime totalitario concede più potere alla polizia segreta che all’apparato militare. Così facendo evita il pericolo di una dittatura militare (la dittatura militare è comunque pericolosa agli occhi del leader totalitario perché essa lo sottopone ad un insieme di leggi seppur autoritarie, mentre egli vuole avere un potere che si pone al di sopra della legge stessa). Inoltre la polizia di segreta è utilizzata per instaurare quel clima di terrore che può colpire chiunque sia colpevoli che innocenti, il tutto giustificato dall’affermazione della “causa” ossia l’attuazione di quelle leggi immutabili della natura che il leader totalitario pretende di incarnare e applicare. Il regime totalitario utilizza anche la duplicazione delle associazioni partitiche. Per esempio un’associazione giovanile del partito non è solo una, ma almeno due.
Questo meccanismo è utilizzato per non dare troppo potere a ciascuna delle associazioni e per spostare il fulcro del potere in maniera arbitraria da un’associazione all’altra. Nei regimi totalitari l’ideologia diventa lo strumento attraverso il quale è possibile comprendere le leggi immutabili della storia. Questa ideologia parte da una premessa che deve essere affermata e giustificata in ogni circostanza, accettandone anche le più tremende contraddizioni. In questo modo il regime totalitario trasforma la menzogna in realtà. Tale tipologia di regime vuole aspirare al dominio sul mondo. Per esempio l’ideologia nazista pretendeva che tutte le razze “inferiori” dovessero essere sottomesse alla razza “ariana” e poi sterminate .L’ideologia staliniana pretendeva che esistessero “classi in via di estinzione” come ad esempio quella dei contadini e che la rivoluzione dovesse espandersi in tutto il mondo abolendo tutte le classi esistenti. Un’altra caratteristica del regime totalitario è l’utilizzo dello sterminio sistematico che serve a velocizzare “il corso della natura” mettendo alla stessa stregua colpevoli e innocenti cercando di abolire i medesimi concetti di “innocenza” e “colpevolezza”.[20] La pretesa di cancellare questi concetti dalla coscienza delle persone apre le porte alla condizione esistenziale dell’animal laborans. L’individuo vive in una società dove non può realizzare sé stesso. Il confine tra pubblico e privato è totalmente sparito: o il privato diventa tutto pubblico o il pubblico diventa tutto privato. La libertà viene praticamente uccisa. L’animal laborans vive in una condizione di schiavitù nei confronti del lavoro. In una società liberticida questa schiavitù diventa più accentuata. Nei campi di sterminio l’uomo è costretto a lavorare per prolungare la sua agonia fino alla morte. L’animal laborans trova pieno compimento nei regimi totalitari sia da un punto di vista lavorativo, sia da un punto di vista più specificatamente esistenziale. Nei regimi totalitari il concetto di “politica” così come pensato dalla Arendt viene cancellato. L’uomo non realizza sé stesso attraverso azioni e discorsi in quanto gli unici che contano sono quelli del leader. Il cittadino, nel regime totalitario, è chiamato ad aderire con tutto sé stesso a questa volontà che deve essere percepita come una sorta di “volontà della natura”. Per quanto riguarda invece, la dimensione lavorativa, la situazione è analoga. Lavorare significa sopravvivere, non solo nei campi di lavoro, ma anche nella vita quotidiana. Esso è percepito come una serie di azioni che servono l’ espansione del movimento accelerando quelle che sono le presunte legge di natura che il movimento stesso avrebbe individuato per mezzo dell’intuizione del leader. Il leader e l’ideologia che rappresenta sono il fine stesso del lavoro.
L’animal laborans nel regime nazista
Il regime nazista ha realizzato in maniera molto forte l’affermazione dell’animal laborans nella società. Le basi ideologiche del nazismo possono essere ritrovate nell’esigenza di imporre un nuovo ordine alla Germania, una rinnovata potenza militare-economica del paese, la ricerca dell’unità nazionale germanica, un rapporto collaborativo fra le classi sociali, una forte gerarchizzazione politica e sociale della società, la militarizzazione della comunità nazionale vissuta come impegno morale e la fede assoluta del popolo nei capi e nel capo supremo, il Führer. L’antisemitismo è un tratto essenziale di questa ideologia. Gli ebrei vengono ritenuti coloro che controllano il sistema capitalistico internazionale e contemporaneamente vengono ritenuti fautori del comunismo. Essi vengono considerati una razza inferiore che deve essere sterminata. Secondo l’ideologia nazista esiste una razza che è superiore alle altre: la razza ariana. La razza ariana è composta da tutti coloro che appartengono al ceppo germanico. Il regime nazista ha fatto della persecuzione un metodo di lotta e affermazione politica. Il principale bersaglio di queste persecuzioni sono gli ebrei, ma non bisogna dimenticare che nei campi di sterminio nazisti venivano deportati dissidenti politici, omosessuali e altre categorie sociali che non appartenevano a quel modello di “uomo” che il regime cercava di imporre. In Germania esistevano sia campi di sterminio che campi di lavoro. Nei campi di sterminio i nazisti mandavano coloro che dovevano essere uccisi e che non erano utili per impieghi lavorativi. Nei campi di lavoro mandavano quelle persone che potevano lavorare e che quindi non andavano uccise subito. Nei campi di lavoro si realizza pienamente il concetto di animal laborans. Lo scopo di una persona all’interno di un campo di lavoro era esclusivamente quello di sopravvivere. Il lavoro non portava con sé né gratificazione economica, né professionale. La situazione all’interno dei campi di lavoro era paradossale: i nazisti si servivano spesso di persone che collaboravano (destinate comunque al lavoro all’interno dei campi) che aiutavano l’organizzazione del campo, infliggendo umiliazioni fortissime ai propri cari internati nel campo di concentramento. La distinzione tra colpevole e innocente attraverso questa perversa strategia nazista si faceva molto labile. Secondo Hannah Arendt il campo di concentramento serve per realizzare il dominio assoluto del regime sull’uomo «I campi di concentramento e di sterminio servono al regime totalitario come laboratori per la verifica della sua pretesa di dominio assoluto sull’uomo».[21] Per esercitare un dominio totale sull’uomo, il dominato deve diventare un mero fascio di reazioni istintuali «Il dominio totale, che mira a organizzare gli uomini nella loro infinita pluralità e diversità come se tutti insieme costituissero un unico individuo, è possibile soltanto se ogni persona viene ridotta a un’immutabile identità di reazioni, in modo che ciascuno di questi fasci di reazioni possa essere scambiato con qualsiasi altro».[22]
Queste reazioni istintuali devono diventare simili per tutti, proprio per farli diventare “un unico individuo”.Proprio per questo i resoconti dei sopravvissuti sono spesso simili e monotoni«I resoconti dei superstiti sono numerosi e sorprendentemente monotoni».[23]Il dato angosciante consiste nel fatto che questi campi non erano creati per soddisfare un bisogno economico o di altro tipo, ma erano fine a sé stessi «I campi di concentramento come istituzione non sono stati creati in vista di una possibile prestazione produttiva, dato che la loro unica funzione economica permanente è stata quella di finanziare l’apparato di sorveglianza; quindi per quanto concerne l’economia, essi esistono principalmente per sé stessi».[24] L’insensatezza di fondo che caratterizza la nascita dei campi di sterminio produce a sua volta una insensatezza dei criteri di selezione delle persone internate: che cosa hanno fatto queste persone per soffrire in modo così atroce? La risposta dobbiamo trovarla nel motivo di fondo che muove il regime nazista: realizzare la filosofia del “tutto è possibile”. La sofferenza delle persone che hanno vissuto nei lager nazisti è state talmente atroce da realizzare in maniera integrale il concetto di animal laborans. Il prodotto finale di questo stato esistenziale consiste in una totale perdita di senso dell’esistenza. Il paradosso del regime nazista è che questo orrendo risultato è si è realizzato sia nelle vittime che nei carnefici.
L’animal laborans nel regime stalinista
Oltre al regime nazista, anche il regime stalinista, ha creato le condizioni per l’affermazione dell’animal laborans nella società. L’ideologia stalinista è basata sulla creazione di uno stato molte forte, altamente burocratizzato che governa il territorio attraverso la sua struttura imponente. Stalin è il leader indiscusso e deve essere la persona che incarna la tradizione leninista. Il regime dichiara guerra a tutte le categorie sociali che si oppongono ai progetti del regime. La principale categoria sociale che è bersaglio dell’ideologia staliniana è quella dei contadini, che in quanto piccoli proprietari, tendono ad avere posizioni più conservatrici e a tutelare la loro piccola proprietà .Nel regime staliniano la macchina del terrore non si rivolge solamente a chi si oppone al regime, ma anche a chi sostiene il regime stesso. Molti comunisti furono perseguitati dal regime per le più svariate ragioni: dalla paura che essi potessero cospirare contro il regime, alla necessità naturale della macchina del terrore di produrre vittime. Stalin stesso teorizzava l’esistenza di “classi in via di estinzione” che erano aggregati sociali destinati allo sterminio. Anche in Unione Sovietica, come nel regime nazista, ci furono campi di sterminio e campi di lavoro. Nei campi di sterminio le persone venivano fatte morire di stenti.
Molte persone morivano anche nei campi di lavoro. L’animal laborans si instaura in Unione Sovietica proprio per la mancanza di libertà che caratterizzava il regime. I lavoratori erano sottoposti alle durissime disposizioni dei dirigenti industriali. Essi non potevano realizzare loro stessi nell’attività lavorativa perché la loro funzione all’interno del regime era quella di tenere vivo lo stato e il movimento. Il cittadino nell’ Unione Sovietica vive una condizione di incredibile sudditanza nei confronti del potere politico. Un minimo errore di valutazione politica che non fosse conforme alla tendenza del regime poteva costare la vita. Il campo di concentramento in Unione Sovietica era definito un campo di lavoro. Questa definizione secondo Hannah Arendt è assolutamente errata. Tutti i lavoratori russi erano soggetti a condizioni da “campo di lavoro” e quindi ciò che veniva definito con il termine “campo di lavoro” non era nient’altro che un campo di concentramento «Specialmente nel regime staliniano, i cui campi di concentramento erano per lo più descritti come campi di lavoro coatto perché la burocrazia aveva voluto nobilitarli con tale nome, era chiaro che non si trattava di questo; il lavoro coatto era la condizione normale di tutti i lavoratori russi, che non avevano libertà di spostamento e ad ogni istante potevano essere arbitrariamente mobilitati per l’invio in qualsiasi luogo».[25] Anche nel regime stalinista, i campi di concentramento non portavano assolutamente un vantaggio economico per lo stato «L’ incredibilità degli orrori è strettamente legata alla loro inutilità economica».[26] Forse, alla base di questo atteggiamento, c’era la volontà di trasformare l’intero sistema giudiziario in un campo di concentramento «Le deviazioni da tale norma nella Russia staliniana devono essere attribuite alla disastrosa scarsità di prigioni e forse anche al desiderio, rimasto irrealizzato, di trasformare l’intero sistema giudiziario in un sistema di campi di concentramento».[27] Un altro elemento che contraddistingue il trionfo dell’animal laborans in Unione Sovietica è l’assurda pretesa del potere politico di togliere il dolore ai propri cittadini «Il dolore e il ricordo erano vietati. Nella Russia di Stalin una donna chiedeva immediatamente il divorzio dopo l’arresto del marito per salvare la vita dei suoi figli; e se quegli per caso ritornava, gli chiudeva sdegnata la porta in faccia».[28] Questa pretesa assurda porta a conseguenze razionalmente incomprensibili: la minaccia per il regime proviene da chiunque, anche dalle persone che condividono la stessa ideologia «Durante il periodo staliniano i comunisti stranieri rifugiatisi o chiamati a Mosca appresero, pagando di persona, di costituire una minaccia per l’URSS, alla stessa stregua dei suoi nemici».[29] L’elemento che determina tutto ciò sta nel concetto di supersenso: nel regime sovietico non si può per nessuno motivo la mondo mettere in discussione le deduzioni logiche che vengono messe in moto per sviluppare una integrità e una coerenza ideologica «Totalitaria non è la pretesa della Russia rivoluzionaria che nelle condizioni esistenti la dittatura del proletariato sia la miglior forma di governo, bensì la catena di deduzioni, tratta soltanto dal dittatore totalitario, in base alla quale risulta logicamente che senza tale sistema non si può costruire una metropolitana, che chiunque sa dell’esistenza della metropolitana di Parigi è sospetto perché potrebbe dubitare della prima deduzione e che quindi se fosse possibile, bisognerebbe distruggere questa metropolitana, che invero non sarebbe mai dovuta esistere».[30]
L’animal laborans e l’homo sacer
La condizione di homo sacer è molto simile a quella di animal laborans. Tale concetto è sviluppato e approfondito da Giorgio Agamben nel suo libro “Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita”.[31] Giorgio Agamben illustra e spiega un concetto che è molto utile per dare una chiave di lettura riguardante i principali problemi politici attuali: quello di homo sacer. L’Homo sacer nell’antica Roma era una persona che poteva essere uccisa da chiunque senza che l’assassino potesse essere incolpato di omicidio. Questa persona si poneva fuori dall’ordinamento giuridico e viveva una condizione di “nuda vita”. Il concetto di “nuda vita” è stato elaborato da Walter Benjamin e consiste in quella condizione esistenziale determinata dall’infelice unione tra violenza e diritto. Secondo l’autore la politica moderna dovrebbe riesaminare la distinzione fatta nel mondo classico tra Zoe e Bios. Questi due termini significano entrambi “vita”, ma con due accezioni completamente differenti: il primo fa riferimento alla dimensione della vita, al modo con cui l’essere vivente interagisce con i suoi simili, il secondo fa riferimento ad un’esistenza puramente biologica. La sovrapposizione tra questi due concetti produce una dimensione politica che è al centro del dibattito moderno: la biopolitica. Per biopolitica si intende quello stato esistenziale in cui la politica penetra nel mistero della vita perdendo di vista la distinzione appena citata operata nel mondo greco classico. I moderni campi di concentramento, che hanno una pagina tristissima del ventesimo secolo, sono l’enigma più inquietante della biopolitica. Gli ebrei perseguitati dai nazisti erano uomini “uccidibili e in sacrificabili”, fuori dall’ordinamento giuridico. Infatti, i nazisti si preoccupavano prima di isolare dalla legge i futuri perseguitati e poi renderli a una condizione di “nuda vita” nei campi di concentramento. Inoltre erano fatti degli esperimenti scientifici sui perseguitati che erano considerati “cavie umane”. Probabilmente in nessun periodo storico la politica ha avuto una dimensione così invasiva nei confronti della vita umana. Oggi la politica deve affrontare grandi sfide biopolitiche, come per esempio quella dell’eutanasia. Al di là delle singole posizioni che si possono avere a riguardo una cosa è certa: bisogna valutare il tutto non perdendo di vista l’antica distinzione tra “Zoe” e “Bios”. Tra i concetti di animal laborans e homo sacer esistono affinità e differenze. Entrambi le condizioni esistenziali producono uno stato di precarietà esistenziale.
Nei campi di concentramento nazisti si realizzano sia l’uno che l’altro: l’animal laborans si realizza perché l’unico scopo all’interno dei campi di concentramento è la sopravvivenza, mentre l’homo sacer si realizza perché la vita dell’uomo all’interno del campo può essere uccisa in qualsiasi momento senza che tale dramma metta in moto sistema giuridico. Il campo di concentramento rappresenta quindi il luogo dove animal laborans e homo sacer si incontrano nella medesima persona: il deportato. Ovviamente ci sono anche degli elementi che separano i due concetti: per esempio nel mondo lavorativo delle democrazie occidentali non possiamo certo dire che la vita dei lavoratori sia uccidibile e contemporaneamente insacrificabile. L’animal laborans lavora in funzione della sopravvivenza, ma questa sopravvivenza viene messa in discussione molto più raramente che nei campi di concentramento. Ci sono effettivamente numerosi casi di morte sul lavoro che potrebbero richiamare una certa “sacertà” della vita umana, ma nella “sacertà” dei campi di concentramento l’essere in bilico tra la vita e la morte era all’ordine del giorno. La condizione di homo sacer è sicuramente il frutto di una condizione di animal laborans che si realizza in pieno: per esempio nei campi di concentramento la condizione di animal laborans si realizza nella sua forma più mostruosa, aprendo le porte a quella di homo sacer .L’homo sacer, a differenza dell’animal laborans è una condizione esistenziale in cui il passaggio tra la vita e la morte può realizzarsi da un momento all’altro. Lo schiavo dell’antica Grecia è un animal laborans, ma non è un homo sacer. Egli lavora per sopravvivere, ma nella visione del mondo di quella società, rappresenta comunque un bisogno. L’homo sacer dell’antica Roma vive una condizione molto differente rispetto allo schiavo dell’anitca Grecia. Egli non è un bisogno per la società, che può liberasene da un momento all’altro senza aver intaccato la visione del mondo che caratterizzava l’antica Roma. Il confine tra questi due concetti è sicuramente nebuloso, non per questo è indefinibile. Ogni homo sacer è un animal laborans, ma non ogni animal laborans è un homo sacer.
L’ambivalenza del sacro
Hannah Arendt è sicuramente una grande pensatrice politica. Il suo concetto di animal laborans si pone al confine con quello di homo sacer. La condizione di homo sacer ha senza dubbio delle notevoli conseguenze politiche. La vita dell’ homo sacer è definita uccidibile e insacrificabile e rappresenta, come è stato dimostrato precedentemente, la massima realizzazione dell’animal laborans. L’espressione homo sacer può essere tradotta con le parole “uomo” e “sacro” .Risulta molto importante capire che nesso esiste tra il concetto di “sacralità” e quello di “sacertà”. Come afferma Agamben, ci troviamo davanti ad un concetto-limite, che per essere compreso deve essere liberato da griglie interpretative eccessivamente categoriche che mostrano i loro limiti «Tutto fa pensare che ci troviamo qui di fronte a un concetto-limite dell’ordinamento sociale romano, che, come tale, può difficilmente essere spiegato in modo soddisfacente finche si resta all’interno dello ius divinum e dello ius humanum, ma che può, forse, permettere di far luce sui loro reciproci limiti».[32] Questa ambivalenza si presenta in maniera molto forte nel mondo ebraico e viene descritta nell’Antico Testamento : «Nondimeno quanto uno avrà consacrato al Signore con voto di sterminio, fra le cose che gli appartengono: persona, animale o pezzo di terra del suo patrimonio, non potrà essere né venduto né riscattato; ogni cosa votata allo sterminio è santissima, riservata al Signore».[33]La sacralità è dunque legata al bando, al concetto dell’essere-fuori «L’analisi del bando-assimilato al tabù- è fin dall’inizio determinante nella genesi della dottrina dell’ambiguità del sacro: l’ambiguità del primo, che esclude includendo, implica quella del secondo».[34] Secondo Agamben questo approccio è stato accettato senza farne un’analisi approfondita che cercasse di porre qualche resistenza a questo concetto «Una volta formulata, la teoria dell’ambivalenza del sacro, come se la cultura europea se ne rendesse conto per la prima volta, si diffonde senza incontrare resistenza in ogni ambito delle scienze umane».[35] Per quanto questa teoria possa essere considerata veritiera, non bisogna cadere nell’errore di psicologizzare eccessivamente l’esperienza religiosa fornendone una chiave di lettura riduttiva «Che il religioso appartenga integralmente alla sfera dell’emozione psicologica, che esso abbia essenzialmente a che fare coi brividi e colla pelle d’oca, ecco la trivialità che il neologismo numinoso deve rivestire di un’apparenza di scientificità».[36] Tale lettura è tipica nell’analisi della storia dei concetti. Un concetto può avere dei sensi assolutamente contraddittori perdendo la loro immediata intelligibilità «Nella vita dei concetti, vi è un momento in cui essi perdono la loro immediata intelligibilità e, come ogni termine vuoto, possono caricarsi di sensi contraddittori»[37] La teoria dell’ambivalenza del sacro può sicuramente aiutare la comprensione dei fenomeni politici legati al concetto di homo sacer, ma di certo in maniera non esauriente «Non una pretesa ambivalenza della categoria religiosa generica del sacro può spiegare il fenomeno politico-giuridico cui si riferisce la più antica accezione del termine sacer; al contrario, solo un’attenta e pregiudiziale delimitazione delle sfere rispettive del politico e del religioso può permettere di comprendere la storia del loro intreccio e delle loro complesse relazioni».[38]
L’animal laborans e l’uomo artigiano
Il concetto di uomo artigiano viene analizzato da Richard Sennett nel suo libro titolato per l’appunto “L’uomo artigiano”.[39] L’artigiano non è solo un mestiere, ma anche uno stile di vita, un modo diverso di percepire il lavoro. Il lavoratore moderno è solo un meccanismo di un ingranaggio, niente più . Ed è per questo che vive una condizione di vita miserevole. Sennett vuole aprire una speranza al lavoratore moderno. Se l’uomo occidentale ricoprisse la mentalità dell’artigiano, cambierebbe la qualità del suo lavoro. L’artigiano lavora per realizzare se stesso nel lavoro compiuto. Le botteghe medievali sono un esempio forte a sostegno di questo concetto. Il sistema delle corporazioni medievali era strutturato in maniera tale che ogni corporazione aveva un maestro, che guidava gli allievi nell’apprendimento del mestiere i cui segreti erano un tesoro geloso della corporazione. L’apprendimento e la realizzazione di un lavoro erano il frutto di una crescita personale che avveniva nel mondo della bottega. Nel rinascimento questo concetto va eclissando: nasce la figura del genio. Il genio non è più un maestro, una persona che può insegnare qualcosa a qualcuno, ma un talento naturale, una persona che nasconde i segreti del suo operare perché questa segretezza gli conferisce potere, lo rende un genio. Qui si interrompe una tradizione che porterà fino ai giorni nostri dove il lavoro viene pensato solamente in maniera meccanica, una dimensione in cui mano e mente si separano. La separazione di mano e mente produce una diminuzione delle qualità intellettuali del lavoratore stesso portandolo in un circolo vizioso.
Fortunatamente esistono delle forme di artigianato moderno dove si è nuovamente instaurato un nuovo rapporto tra creatività e il lavoro: il programmatore di Linux. Esso è un sistema operativo open source dove ogni programmatore può introdurre delle modifiche e le può discutere con gli altri programmatori per migliorare la qualità del lavoro e sviluppare un forte senso di realizzazione. L’esempio dei programmatori d Linux deve essere valido per la società odierna: mano e mente devono vivere una situazione di armonia , di reciproco aiuto se vogliamo togliere l’uomo moderno da una situazione di insoddisfazione cronica dovuta a questa separazione che si è sviluppata nei secoli a partire dal rinascimento fino ad arrivare al suo massimo sviluppo nella società industriale. Si può paragonare il concetto di uomo artigiano in Sennett con quello di homo faber di Hannah Arendt. Queste condizioni esistenziali sono molto simili se non analoghe. L’homo faber nel processo di produzione realizza sé stesso mettendo in campo delle capacità così come l’uomo artigiano. Recuperare una tale dimensione del lavoro potrebbe essere una prospettiva di rilancio per rivalutare il rapporto tra uomo e lavoro. Recuperare tale dimensione del lavoro significa che il lavoratore deve recuperare sia la capacità di immaginazione, sia il concetto di pratica corporea «Tutte le abilità, anche le più astratte, nascono come pratiche corporee; la seconda, l’intelligenza tecnica, si sviluppa attraverso la facoltà dell’immaginazione»[40]. Il nuovo artigiano moderno deve sviluppare in sé il desiderio di migliorare continuamente la propria prestazione per poter migliorare anche la sua capacità di essere soddisfatto del suo lavoro «L’aspirazione alla qualità spinge l’artigiano a migliorare sempre».[41] Questo miglioramento si deve ottenere riscoprendo la validità del concetto di esercizio «L’abilità è una capacità pratica ottenuta con l’esercizio».[42] L’esercizio potrebbe sembrare in un primo momento qualcosa di noioso, ma l’uomo può sfuggire a questa noia ripetendo l’esercizio con l’obbiettivo di migliorare la tecnica «Il grande violinista ebbe a dichiarare che più la tecnica migliora, più a lungo ci si può esercitare senza annoiarsi».[43] Il miglioramento della tecnica è decisivo per avere un rapporto con la macchina dove il lavoratore esercita un domino su di essa, senza che guardi passivamente lo strumento che esegue istruzioni che sia a livello teorico che pratico diventano incomprensibili per il lavoratore «Il fisico Victor Weisskopf disse una volta ai suoi studenti del MIT che lavoravano esclusivamente su esperimenti computerizzati: “Quando mi presentate un certo risultato, il computer capisce la risposta, ma non sono sicuro che voi l’abbiate capita” ».[44]
L’uomo creatore di sé stesso
Il concetto di animal laborans ha posto diverse questioni molto problematiche. A queste questioni bisogna tentar di dare una risposta per cercare di ricondurre la persona umana alla sua dignità, da quella esistenziale a quella professionale. Sennett prova a ridare una prospettiva d’azione all’uomo contemporaneo che si trova in tutte quelle situazioni che sono state descritte nei precedenti capitoli. Da allievo di Hannah Arendt, la sua risposta ha un carattere meramente pragmatico, quindi mette l’azione al centro della sua riflessione. Sennett così come Hannah Arendt, si rende conto che la semplice capacità umana di produrre qualcosa è di per sé insufficiente per superare tutte quelle questioni pratiche che rendono l’uomo moderno un animal laborans. Se la cultura viene lasciata in balia esclusiva della capacità di produrre rischia l’autodistruzione «Una cultura fondata sugli artefatti umani rischia di continuo l’autodistruzione».[45] Questo atteggiamento è determinato dal fatto che l’uomo è stato sempre affascinato dal problema tecnico, senza poi badare alle conseguenze del suo operato da un punto di vista morale «Quando vedi qualcosa che è tecnicamente allettante, ti butti e lo fai; sulle conseguenze ci rifletti solo dopo che hai risolto vittoriosamente il problema tecnico. Con la bomba atomica è stato così».[46] Sennett individua nell’opera di Hannah Arendt Vita activa la possibile soluzione per dare un criterio morale che possa guidare il processo di risoluzione di un problema tecnico. Hannah Arendt ha sempre dimostrato una grande fiducia nel linguaggio, che offre la possibilità alle persone di relazionarsi tra loro per edificare una società migliore e determinare dei criteri morali che possano sorreggere lo scorrere del tempo che permette all’uomo di sviluppare sempre nuove potenzialità tecnologiche, che possono essere altamente costruttive, ma anche altamente distruttive «Le pagine di Vita acitva esplorano appunto come il linguaggio possa guidarci, per così dire, nel nuotare contro la corrente vorticosa del tempo».[47] Nonostante Sennett condivida la fiducia del linguaggio espressa dalla Arendt, non condivide il fatto che la mente umana possa entrare in funzione solamente una volta che si è terminato un lavoro. La distinzione tra animal laborans e homo faber non è così drastica «Per Hannah Arendt, la mente entra in funzione una volta cessato il lavoro. Secondo un altro modo divedere, più equilibrato, nel processo del fare sono contenuti pensiero e sentimento». [48]Attraverso questa chiave di lettura è possibile immaginare un potenziale dialogo tra le due condizioni esistenziali: si può partire dalla dimensione di animal laborans per riscoprire quella di homo faber «L’animal laborans può diventare la guida dell’homo faber».[49] La condizione del produrre può portare ad un apprendimento circa questioni importanti che riguardano la natura umana «Le persone possono apprendere informazioni su di sé attraverso le cose che fabbricano»[50]. Sennett spinge la persona umana a trovare degli elementi di curiosità nel lavoro che svolge: la comprensione del processo del fare porta ad una vita materiale più umana «E’ possibile realizzare una vita materiale più umana, se solo si comprende meglio il processo del fare».[51] Comprendere il processo del fare significa riscoprire la maestria che c’è in ogni individuo. Con il termine maestria si evoca quel mondo che è legato ai maestri artigiani. Secondo Sennett una lettura del genere di questo termine è riduttiva, perché la maestria è un dono che si può scoprire anche nella cultura contemporanea «La maestria designa un impulso umano fondamentale sempre vivo, il desiderio di svolgere bene un lavoro per sé stesso».[52] La scoperta della maestria può migliorare tutte le aree della vita di ciascun individuo. La sua forza è determinata dal fatto che essa si fonda su parametri oggettivi «In tutte queste sfere, la maestria si concentra su parametri oggettivi, sulla cosa in sé».[53] Essa è la chiave per creare un rapporto armonico tra pratiche concrete e pensiero in maniera tale da sviluppare un attitudine al problem solving «Ogni bravo artigiano conduce un dialogo tra le pratiche concrete e il pensiero; questo dialogo si concretizza nell’acquisizione di abitudini di sostegno, le quali creano un movimento ritmico tra soluzione e individuazione di problemi» .[54]L’approccio di Sennett parte dall’individuo. Nonostante le difficili condizioni geopolitiche ed economiche del mondo, l’individuo può portare il cambiamento partendo dalla sua condizione di animal laborans per dare una chiave di lettura al processo del fare che permette di scoprire la maestria dentro ogni persona.
L’esperienza come mestiere
L’obbiettivo di Sennett è di dare una nuova prospettiva all’esperienza professionale. L’animal laborans può trovare dignità nel proprio mestiere e soddisfazione nell’apprendimento tecnico «L’animale umano che lavora può trovare arricchimento nelle abilità tecniche dell’artigiano e dignità nello spirito del suo mestiere».[55] Questo tipo di cultura si è sviluppato in diversi filoni del pensiero occidentale; nel pensiero moderno si realizza nel pragmatismo «Nella nostra epoca, trova la sua patria filosofica nel pragmatismo».[56] Il concetto di esperienza come mestiere si applica dentro questo humus culturale. Indagare l’esperienza come mestiere significa cercare tecniche che possono garantire capacità di esperienza «Che cosa comporta dunque il concetto di esperienza come mestiere? Comporta di focalizzare l’attenzione sulla forma e sul procedimento, ovvero sulle tecniche dell’esperienza».[57] Sennett sa bene che presentare l’esperienza in termini di tecnica può essere disapprovato da alcune persone, ma sostiene che inevitabilmente ciò che l’uomo fa con il corpo determina chi è «Mi rendo conto che l’idea di pensare l’esperienza in termini di tecnica può suscitare perplessità. Ma ciò che siamo discende direttamente da ciò che il nostro corpo sa fare».[58] Secondo l’autore esiste un nesso relazionale tra capacità di produrre oggetti fisici e il creare delle buone relazioni sociali «Io sostengo, né più né meno, che le capacità che il corpo possiede di conformare oggetti fisici sono le medesime capacità a cui attingiamo nelle relazioni sociali».[59]Se non si sposa questo presupposto, viene meno uno dei tratti distintivi della filosofia pragmatica «Un tratto distintivo del movimento pragmatista è sempre stato quello di presupporre un continuum tra l’organico e il sociale». [60]La capacità di vivere cogliendo questo nesso relazionale, permette all’animal laborans di configurare gradualmente il mondo materiale «Gli atti fisici della ripetizione e dell’esercizio consentono a questo animal laborans di sviluppare abilità tecniche dall’interno e di riconfigurare il mondo materiale attraverso un lento processo di metamorfosi»[61]Cogliere questo nesso relazionale significa anche riscoprire un sano orgoglio per il lavoro, non superbo, ma come una giusta ricompensa per un lavoro ben fatto «L’orgoglio per il proprio lavoro è centrale nei mestieri tecnici, in quanto è la ricompensa per la bravura e l’impegno profusi»[62]Questo orgoglio può creare anche dei problemi di ordine etico. Chi costruì la bomba atomica fece un gran lavoro, ma dalle conseguenze etiche spaventose. Essere pragmatici, significa anche porsi delle domande di ordine etico nel processo produttivo «Il pragmatismo vuole sottolineare il valore del porsi domande di ordine etico nel corso del processo lavorativo» .[63]La proposta di Sennett riguarda un singolo ambito filosofico: quello del pragmatismo. Lo stesso autore non pretende che le sue proposte siano esaustive per risolvere le implicazioni prodotte dal concetto di animal laborans. Il percorso tracciato da Sennett, è comunque una possibile via, un tentativo sperimentabile. Hannah Arendt forse non avrebbe condiviso tali teorie, forse il suo approccio è meno propositivo nonostante abbia elaborato un pensiero basato sull’azione. Tra Richard Sennettt e Hannah Arendt c’è comunque una forte comunanza per quanto riguarda di mettere i problemi sul piano dell’azione. Entrambi gli autori si allontanano da speculazioni teoriche, da sistemi concettuali che spostano l’attenzione su una dimensione contemplativa piuttosto che su una dimensione attiva. I problemi legati alle implicazioni della condizione esistenziale dell’animal laborans permangono perché di fatto la soluzione di Sennett non è stata ancora messa in pratica. A livello di mentalità, la società contemporanea è ancora lontana da un approccio del genere per le più svariate ragioni.
Ciò non significa che tutto ciò che è stato detto non sia un punto partenza “un nuovo inizio” concetto così caro ad Hannah Arendt.
Conclusioni
Il concetto di animal laborans è stato elaborato da Hannah Arendt per descrivere la situazione esistenziale della persona nell’era contemporanea. La sua elaborazione non parte dalla società contemporanea, ma dalla civiltà dell’ antica Grecia. Già all’epoca esistevano forme di animal laborans che possiamo identificare con le donne e con gli schiavi. Abbiamo dimostrato che la massima realizzazione dell’animal laborans si realizza nei moderni regimi totalitari La risposta a questo scenario non è stata remissiva, bensì molto propositiva. Non ci si aspetta dal potere questo passo, ma è pur legittimo sperare. La risposta che ha dato Sennett parte dall’individuo che deve dare una nuova prospettiva al lavoro. Questo dimostra l’idea arendtiana che non bisogna avere una fiducia illimitata nei confronti delle ideologie umane, soprattutto se per giustificare sé stesse rendono dei scenari terribili reali. Contro questo approccio si deve riscoprire la politica, non come è definita nei luoghi comuni moderni, ma per come è nobilmente concepita da Hannah Arendt. La persona umana dovrebbe scoprire che è possibile realizzarsi nella società attraverso azioni e discorsi. Il segreto di questo approccio consiste nello sviluppare una consapevolezza di questa dinamica. Lo sforzo deve essere sia individuale che collettivo. Individuale perché è la singola persona che deve dare una nuova prospettiva alla propria esistenza, collettivo perché attraverso uno sforzo comune in questa direzione la vita materiale delle persone può sensibilmente migliorare. Il problema in questione, nasce da un approccio pragmatico e viene sviluppata una soluzione nei termini di questo approccio. Hannah Arendt ha dimostrato che di fronte agli interrogativi che affliggono l’uomo, bisogna avere un approccio realista .L’ idea illuministica di un progresso lineare e continuo è stata smentita dai regimi totalitari che hanno realizzato a pieno l’animal laborans. La fiducia nei grandi sistemi concettuali (molto spesso svincolati dalla realtà) hanno permesso di sfidare il limite delle possibilità umane di autodistruzione. Nell’attuale cultura si è arrivati a concepire che i totalitarismi sono un orrore e che le persone non possono morire senza senso in nome di una presunta coerenza ideologica. Questo non significa che l’animal laborans non sia parte della società moderna Ogni giorno muoiono persone sul lavoro, oppure in una guerra.
Per quanto i totalitarismi siano stati indicativi di ciò che la persona umana deve evitare, la lezione non è stata recepita nel migliore dei modi. Il concetto di “flexibility” studiato da Sennett nel saggio L’uomo flessibile[64] è indicativo di come il concetto di animal laborans sia radicato nel mondo del lavoro. Per flessibilità si intende quella ideologia che vuole rompere i vincoli che caratterizzavano il modo di percepire il lavoro. La persona moderna che lavora non è più legata da un rapporto di fiducia con il luogo di lavoro perché può essere spostata da un momento all’altro in un’altra città. Stessa cosa vale dal punto di vista contrattuale: il contratto non stabilisce più una relazione di lungo termine tra il lavoratore e il datore di lavoro, ma di breve termine aprendo continue possibilità di cambiamento. Stessa cosa vale da un punto di vista relazionale: i continui turni, non permettono di stabilire relazioni di piena fiducia tra lavoratori perché le persone con cui si lavora cambiano ogni giorno. Per dimostrare la validità delle sue asserzioni Sennett analizza due situazioni di vita professionale di persone che ha intervistato: Rico è un ragazzo figlio di un certo Enrico, uomo che aveva ricevuto un educazione tradizionale che cercava di trasmettere al figlio. Enrico lavorava duro, il suo salario era molto basso e sognava l’ascesa sociale come tutti gli immigrati che vengono negli Stati Uniti. Egli fa due lavori per permettere al figlio di studiare al college. Rico, da una parte sente la pressione di un modello educativo tradizionale, ma vista la situazione del lavoro che vive attualmente, comprende che la mentalità del padre era caratterizzata da regole certe in antitesi a quella mentalità che vive quotidianamente a lavoro. Rico è diventato una persona di successo, ha più disponibilità finanziaria, eppure vive in uno stato di insoddisfazione. Egli ha dovuto fare nella sua vita molti spostamenti, alcuni anche a causa delle esigenze lavorative della moglie. Molte sono le possibilità che egli subisca continuamente “downsizing” che è un termine che indica il licenziamento di un determinato reparto all’interno di una azienda perché quella stessa azienda è stata inglobata in un’altra che aveva quel determinato reparto già sviluppato con i suoi dipendenti. Nonostante la ricchezza accumulata, Rico vive comunque una vita lavorativa piena di momenti frustranti. Interessante è anche il caso di Rose. Ella lavorava in un caffè, ma cerca la strada del successo lavorando in un ‘agenzia pubblicitaria .Il risultato è sempre lo stesso: senso di frustrazione. Le qualità delle relazioni sono pessime e ogni volta che la squadra affronta un fallimento non ragiona su cosa possa aver imparato da quell’esperienza, ma si butta capofitto su un altro lavoro nella speranza di un risultato migliore. Secondo Sennnett bisognerebbe rivedere il concetto di flessibilità per cercare di creare un nuovo homo faber che possa realizzare le proprie aspirazioni nel suo percorso professionale. L’animal laborans non è quindi identificabile necessariamente con una persona che si trova in una situazione di disagio economico, ma può essere anche una persona che vive una situazione professionale di alto livello, ma che realizza quella insoddisfazione dovuta al suo precario rapporto con il lavoro. La proposta di Sennett risulta più che mai attuale.
Bibliografia
Agamben Giorgio, L’uomo senza contenuto,Macerata, Quodlibet 2005.
Agamben Giorgio, Homo Sacer ,Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi 2005.
Arendt Hannah, Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi, 2004.
Arendt Hannah, Vita Activa.La condizione umana, Milano, Bompiani, 2001.
Autori vari, Hannah Arendt,Mondadori, Milano 1999.
Elisabeth Young-Bruhel, Hannah Arendt,Torino, Bollati Borringhieri 1982.
Guaraldo Olivia, Politica e racconto, Roma, Meltemi 2003.
Sennett Richard, L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli 2008.
Sennett Richard, L’uomo flessibile,Milano, Feltrinelli 2007.
[1] Per comprendere in maniera chiara ed esaustiva il concetto di animal laborans Arendt Hannah, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani 2001 p..238-242.
[2] Le opere a cui sto facendo riferimento sono Sennett Richard, L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli 2008 e Sennett Richard, L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli 2007.
[3] Arendt Hannah, Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi 2004.
[4] Per un approfondimento del concetto di homo sacer, Agamben Giorgio,Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi 2005.
[5] Per un apprendimento della mentalità politica degli antichi greci Arendt Hannah, Vita activa. La condizione umana,Milano, Bompiani 2001 p .18-53.
[6] Per un approfondimento del concetto di “fine dell’ homo faber” Ivi p. .227-233.
[7] Per un approfondimento del concetto di homo faber ivi p .109-114.
[8] Per un approfondimento del concetto di “vittoria dell’animal laborans” Ivi p. 238-242.
[9] Arendt Hannah, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani 2001 cit. p. 104.
[10] Ivi cit. p. 106.
[11] Ivi cit. p. 109.
[12] Ivi cit. p. 110.
[13] Ivi cit. p. 110.
[14] Sennett Richard, L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli 2007 cit. p. 19.
[15] Arendt Hannah, Vita activa. La condizione umana, Milano, bompiani 2001 cit. p. 238.
[16] Ivi cit. p. 239.
[17] Ivi cit. p. 239.
[18] Ivi cit. p. 239.
[19] Ivi cit. p. 240.
[20] Per un approfondimento sulla struttura dei regimi totalitari Arendt Hannah,Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi 2004 p. 423-656.
[21] Arendt Hannah,Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi 2004 cit. p. 599.
[22] Ivi cit. p .599.
[23] Ivi cit. p. 600.
[24] Ivi cit. p. 608.
[25] Arendt Hannah,Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi 2004 cit. p. 608-609.
[26] Ivi cit. p. 609.
[27] Ivi cit. p. 613.
[28] Ivi cit. p. 618.
[29] Ivi cit. p .625.
[30] Ivi cit. p. 627.
[31] Agamben Giorgio, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi 2005.
[32] Agamben Giorgio, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita. Torino, Einaudi 2005 cit. p. 82.
[33] Lev 27,28 cfr.Mi 4,13-Gs 6,24-Dt 13,16-Gs 6,26-Re 16,34-Dt 7,26.
[34] Agamben Giorgio, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita. Torino, Einaudi 2005 cit. p. 85.
[35] Ivi cit. p. 85.
[36] Ivi cit. p. 86.
[37] Ivi cit. p. 88-89.
[38] Ivi cit. p .89.
[39] Sennett Richard, L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli 2008.
[40] Ivi cit. p. 19.
[41] Ivi cit. p. 31.
[42] Ivi cit. p .44.
[43] Ivi cit. p. 44.
[44] Ivi cit. p .47.
[45] Sennett Richard, L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli 2008 cit. p. 12.
[46] Questa è la testimonianza di Robert Oppenheimer davanti ad una commissione governativa nel 1954.
[47] Sennett Richard, L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli 2008 cit. p. 15.
[48] Ivi cit. p. 16.
[49] Ivi cit. p. 17.
[50] Ivi cit. p. 17.
[51] Ivi cit. p. 17.
[52] Ivi cit. p. 18.
[53] Ivi cit. p. 18.
[54] Ivi cit. p. 18-19.
[55] Sennett Richard, L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli cit. p .272.
[56] Ivi cit. p .272.
[57] Ivi cit. p. 275.
[58] Ivi cit. p, 275.
[59] Ivi cit. p. 275.
[60] Ivi cit. p .275.
[61] Ivi cit. p. 279.
[62] Ivi cit. p. 279.
[63] Ivi cit. p .280.
[64] Sennett Richard, L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli 2007.
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