a cura di Elisa Scirocchi
“[…]Così è la storia. Un gioco della vita e della morte prosegue nel calmo dispiegarsi di un racconto, ricomparsa e denegazione dell’origine, svelamento di un passato morto e risultato di una pratica presente[ …]”.
Michel De Certeau: Filosofo, letterato, storico, teologo, studioso di psicoanalisi. Dal profondo interesse per la psicologia, e per le scienze sociali in generale, nasce, nel 1975, La scrittura della storia. Come la stella polare brilla chiara nel cielo di navigatori, l’operato di Freud emerge in questo testo come punto di riferimento assoluto. De Certeau tende a designare Freud come colui che riuscì a far emergere quelle dimensioni inquietanti dell’essere umano, le quali possono essere comprese solo se trascritte o raccontate in una storia attraverso il mondo retorico della scrittura. L’analista, infatti, scava il nostro inconscio attraverso delle figure di stile che si ripetono e che sono applicabili a molteplici situazioni. Se ci pensiamo bene il disaccordo con il padre che porta al complesso di Edipo, o l’associazione attraverso il transfert di una persona a un’altra, sono, come afferma lo stesso De Certeau, dei fenomeni polivalenti. Attraverso queste figure possiamo dare voce al nostro inconscio, allo stesso modo in cui solo attraverso delle lenti scure siamo in grado di guardare la luce accecante del sole. Queste strutture formali non colmano le nostre lacune, non portano a una piena trasformazione della nostra parte inconscia in conscia, non ci consegnano noi stessi, ma ci avvicinano soltanto a noi stessi. Scrive De Certeau che questi formali e retorici espedienti “circoscrivono l’inesplicato, non lo spiegano”. Attraverso la scrittura della storia, l’uomo mostra tutta la sua debolezza, e il suo lato lacunoso, così come attraverso un’analisi di tipo psicoanalitico egli mette a nudo il suo lato più debole. La storia esprime l’estraneità che proviamo verso di noi, estraneità tutta propria dell’uomo contemporaneo in continua lotta con se stesso e con la sua voglia connaturata di evadere da sé, che lo mette in condizione di fare continuamente progetti.
Quando ci immergiamo nella scrittura del passato ciò che ci colpisce è il suo carattere illusorio. Siamo spinti verso un passato che mostra il suo equilibrio precario, che ammette a pieno la sua alterità, e che tenta invano di vincere le vertigini che l’abisso dell’interiorità procura all’uomo. Se la storia non comunica altro se non ciò che non ci appartiene, essa esprime attraverso un segno linguistico una dimenticanza; essa narra, infatti, attraverso delle forme letterarie ciò che noi non conosciamo. Attraverso l’analisi della nostra interiorità ammettiamo la presenza di una mancanza, accettando consapevolmente la nostra condizione d’ignari. Riceviamo dalla nostra cultura recondita un nuovo materiale da raccontare, e siamo costantemente vittime di una dialettica mai conclusa con noi stessi. Ci dividiamo tra segni e significati. Non possiamo mai abbandonare i nostri totem, non possiamo mai sciogliere quel profondo legame che ci unisce ai nostri simboli, allo stesso modo in cui non possiamo mai uccidere nostro “padre”. Rimaniamo costantemente in uno stato di ambivalenza, e anche se avessimo la brutalità di uccidere con le sole mani nude nostro “padre”, non riusciremmo mai ad allontanarlo completamente da noi. Come dice De Certeau: “Il <padre> non muore. La sua <morte> è sola un’altra leggenda e un permanere della sua legge. Tutto avviene come se non si potesse mai uccidere questo morto, è come se credere che il fatto di averne <preso coscienza>, di averlo esorcizzato con un altro potere o di averne fatto un oggetto di sapere (un cadavere), significasse semplicemente che egli si è spostato ancora una volta, e che si trova proprio là dove noi ancora non sospettiamo che sia, in quello stesso sapere e nel profitto che tale sapere sembra assicurare”.
Attraverso la lettura di questo libro comprendiamo che bisogna ritornare al testo, ritornare a camminare in punta di piedi sul suo suolo incrinato correndo il rischio di cadere nel vuoto del burrone sottostante. Dobbiamo danzare tra (e con) le parole, allo stesso modo in cui danziamo con il nostro inconscio. Dobbiamo camminare sui sentieri della storia correndo il rischio di cadere nei molti buchi del suo terreno, allo stesso modo in cui camminiamo nella nostra interiorità correndo il rischio di cadere in profonde (e scomode) verità. La storia si presenta come un insieme d’illusioni, di totem mai abbandonati, di padri mai uccisi veramente, di abissi coscienziali mai oltrepassati. La scrittura nasce dal desiderio di delimitare, di comprendere, di stabilire confini e frontiere, per poi poterli attraversare. La storia ha bisogno dell’Altro per potersi scrivere, di quell’Altro che ricomposto nel discorso storico permette di ritornare alle origini, e di ricondursi a sé. La scrittura grazie al suo continuo susseguirsi d’illusioni mostra la sua vera “identità”. Leggiamo ancora le parole di De Certeau: “L’identità non è uno, ma due. L’uno e l’altro. È il principio della scrittura dell’analisi (analysis, divisione, scomposizione) e della storia”. La storia è dunque l’analisi di un’identità. La storia è sia l’atto dell’analisi in sé, che la materia analizzata, e quest’ambiguità non può non manifestarsi che nella scrittura, che riproduce qualcosa, creando nuove forme. Per questo ammettiamo che anche la scrittura è un atto storico, perché è inserita nella storia, e perché produce una storia, tramite il suo rapporto con l’alterità presente nella realtà di tutti noi. Scriviamo per lasciare una traccia di noi stessi, e lo facciamo sempre attraverso l’Altro. Raccontiamo ciò che è altro da noi, con le forme e i segni che più ci descrivono. La storia è un discorso che pone la morte, non la nega, ma la riconduce a sé con la sua scrittura. Essa è il racconto che facciamo del padre. È il dramma, la messa in scena di una popolazione di morti. Raccontiamo la morte del padre, solo dopo che questi sia morto, perché è proprio nel momento dell’assenza che si scatena in noi il bisogno della scrittura. Percepiamo la sua assenza, e questa risuona per noi, in modo paradossale, come un’ingombrante presenza. Scriviamo non solo per raccontare una dipartita, ma anche per raccontare la presenza di chi è ancora qui, e di chi vorrebbe colmare quell’assenza, quella presenza di un vuoto che non gli permette più di muoversi senza provare sulla propria pelle quel profondo senso di vertigine. Abbiamo su di noi il privilegio (o la condanna?) di essere figli, di rimanere per raccontare la morte del padre, così da poter, finalmente, e non una volta per tutte, raccontare noi stessi.
Elisa Scirocchi
Il padre rimarrà per sempre.I tabù rimangono,i totem persistono. L‘ho imparato dall’esperienza. Vedere questa mia conoscenza empirica tradotta in parole mi “risolve” un po’..grazie.
@Chiara Pilozzi – … ma rimane sempre anche il figlio: la richiesta inestinguibile di riscatto dal momento perverso del tabù, dei totem. Se il Padre è una verità, allora lo è anche il Figlio. Sicché …