Ci sono storie radicate profondamente nella cultura e così spontanee alla mente da sembrare naturali, indiscutibili, innate. Sono storie eterne perchè senza memoria; sviluppate nel tempo del Mito si trascinano invisibili di generazione in generazione. Chiamate da Jung archetipi vengono continuamente riplasmate, anche in epoche moderne, senza perdere il loro alone di immortalità. Qui sta forse il segreto nascosto del Frankenstein di Mary Shelley, madre di fantascienza. Dalla mitologia il romanzo prende in prestito le idee della creazione e dell’acquisizione della conoscenza con un riferimento esplicito a Prometeo, la divinità greca che forgiò l’uomo con l’argilla e che, per avergli restituito il fuoco – simbolo dell’evoluzione tecnico-scientifica – venne punito da Zeus per l’eternità. La fama e la diffusione popolare del romanzo però non hanno impedito la nascita di fraintendimenti e rielaborazioni, fissati nell’ immaginario collettivo da successive trasposizioni teatrali e cinematografiche. Il romanzo originale non ha niente a che vedere con quel mostro sbandierato dallo scetticismo antiscientifico che invade oggi i dibattiti della bioetica e non è assolutamente un manifesto contro la tecno-scienza e le sue invasioni di presunte prerogative divine. L’ argomento Frankestein utilizzato dai detrattori della scienza non trova, nelle sue modalità, alcun riscontro nel testo: i riferimenti mitici del romanzo rimangono sempre pure metafore letterarie. L’opera di Shelley è nata come storia di orrore e parla di passioni umane, di convenzioni sociali, di scienza e di solitudine, tanta solitudine. Se una critica alla conoscenza scientifica è presente allora va ricercato in questi ambiti. Frankenstein, o il Moderno Prometeo è un romanzo di fantascienza da una forte connotazione umanista.
Nata a Londra nel 1797 Mary Shelley era figlia del filosofo William Godwin e di Mary Wollstonecraft, pioniera dell’emergente movimento femminista, deceduta tragicamente dieci giorni dopo il parto. Pubblicato anonimo nel 1818, quando Mary era appena ventunenne, Frankenstein e le sue suggestioni si sono presto fatti largo nelle moderne culture e concezioni popolari. L’idea del racconto nasce a Ginevra come sfida letteraria tra quattro giovani amici – Mary, il poeta Percey Shelley (suo futuro marito), Lord Byron e John Polidori – che confinati in casa da una improvvisa pioggia si dilettano nella lettura di racconti di orrore e in conversazioni filosofiche sull’origine della vita. Come racconta Mary nella prefazione del 1931: “Ogni cosa deve avere un inizio, per dirla come Sancho, e questo inizio deve essere legato a qualcos’altro che viene prima. Gli Indu hanno posto il mondo su un elefante per poterlo sostenere, ma hanno messo l’elefante su una tartaruga. L’invenzione, bisogna ammetterlo con umiltà, non consiste nel creare dal nulla, ma dal caos.” E dopo due settimana la storia riesce finalmente ad emergere dalla caoticità mentale di uno stato semi insonne.
Suggestioni romantiche, elementi gotici e lo sviluppo della ragione scientifica sono i tratti che caratterizzano il mondo di Mary Shelley e che si combinano e prendono corpo in quella che è la sua opera più famosa e un classico immortale della letteratura. Nonostante la sua diffusione però il significato del romanzo viene spesso minimizzato e distorto e la trama soggetta a stupefacenti confusioni: appare spesso un elemento di stupore nell’espressione di colui a cui si fa notare che il titolo del romanzo non è il nome del “mostro” ma dello scienziato che lo ha creato, Victor Frankenstein appunto. La creatura non ha nome, è uno sventurato, un reietto, un esperimento abbandonato a se stesso al momento della creazione. E soprattutto non è quel mostro percepito dalla tradizione popolare che, evaso dal laboratorio, si ribella indiscriminatamente al suo stesso creatore.
Tutto il romanzo è permeato dalla filosofia di Rousseau secondo la quale l’individuo nasce naturalmente in una condizione d’innocenza che viene corrotta nel suo confrontarsi con e nella società. Non è un caso che l’educazione della “creatura” segua esattamente le fasi dell’ Emilio, il trattato del filosofo francese sull’educazione, che Mary Shelley conosceva a fondo. Da notare che la madre, Mary Wollstonecraft, nella sua opera Rivendicazione dei diritti della donna ne aveva criticato il quinto libro in cui viene sancita una netta distinzione di ruolo tra i due sessi per cui “la donna è fatta per piacere e per essere soggiogata.” Come l’ideale Emilio, la creatura inizia il suo percorso di crescita in solitudine, nella foresta, lontano dalla vita sociale. Sviluppa i sensi e apprende a distinguerne le percezioni. Le sensazioni di piacere e dolore lo guidano con stupore ad acquisire le fondamentali conoscenze naturali e a migliorare le sue abilità tecniche. Comprende le proprietà del fuoco, il variare delle stagioni e tenta un improbabile dialogo imitando il canto degli uccelli. Un suo primo contatto con gli uomini si risolve in fallimento, il suo aspetto è fonte di terrore e viene attaccato. Costretto alla fuga trova riparo in un capanno di cui una parete è in comune con un casolare abitato. Attraverso una fessura osserva e inizia a percepire la quotidianità di una famiglia umana: “le sorrise con un affetto e una gentilezza tali da suscitare in me sensazioni nuove e sconvolgenti: erano un misto di dolore e di gioia, sentimenti che mai prima avevo sperimentato nè a causa della fame, nè del freddo, nè quando ero riuscito a scaldarmi o a saziarmi di cibo. Mi ritrassi dalla fessura, incapace di sopportare quella emozione.” Nascosto dietro la parete impara il linguaggio degli uomini e a leggere e scrivere. Entra casualmente in possesso di un volume delle Vite di Plutarco, de I Dolori del Giovane Werther, e del Paradiso Perduto di Milton che gli fanno assaporare tutto lo spettro delle passioni umane. Il desiderio di congiungersi con quegli esseri si fa sempre più forte, momenti di ottimismo cedono di fronte alla coscienza di una propria condizione esistenziale di solitudine: “Ma tutto era un sogno; nessuna Eva placava i miei dolori o divideva i miei pensieri; io ero solo. Ricordavo la supplica di Adamo al suo Creatore. Ma dov’era il mio? Lui mi aveva abbandonato e nell’amarezza del mio cuore lo maledicevo.” Ed ecco che il processo pedagogico rousseaniano si imbatte in un ostacolo insormontabile proprio nella sua fase conclusiva.
Frankenstein è un romanzo di passioni umane e di solitudine. Il “mostro” è in realtà un’ anima nobile, alta, educata. L’esclusione da quel mondo di sentimenti lo conduce all’odio e ad una vita di vendetta in cui la morte non sarà il fine ma l’arma usata per creare desolazione nel suo creatore. La solitudine è la condizione esistenziale di maggiore inquietudine che il “mostro” possa percepire e la morte sarà un sollievo e la fine di ogni rimorso. Il romanzo di Shelley non ci mette in guardia dallo sviluppo scientifico ma da noi stessi: non è la scienza a creare il mostro ma l’ esclusione sociale e la paura del diverso. Se, nel romanzo, una critica alla scienza può quindi essere percepita allora questa non va ricercata nelle sue creazioni e nei suoi fondamenti ma nell’animo dei suoi protagonisti.
Victor Frankenstein, il creatore del “mostro”, è uno scienziato dotato di una forte e acuta intelligenza ma di un animo essenzialmente individualista. Egli porta avanti il suo progetto febbrilmente e in solitudine, con distacco dalla vita affettiva e avulso dalla storia. Disdegna la scienza moderna che, nelle sue mani, sarà un semplice strumento per inseguire i sogni alchemici di Agrippa, Paracelso e Alberto Magno: “Disprezzavo le finalità della moderna filosofia naturale. Era ben diverso quando i maestri della scienza ricercavano immortalità e potere; questi obiettivi, seppure vani, erano grandiosi; ma adesso la scena era mutata. […] Mi si chiedeva di scambiare chimere di illimitata grandezza con realtà di poco valore”. Victor è cosciente che la sua ricerca potrebbe portare grandi benefici all’umanità ma sarebbe semplicemente una conseguenza collaterale alle sue aspirazioni di gloria e di futura devozione. Si dimostrerà infine un padre egotista e immaturo che mai si assumerà le responsabilità della sua creazione e che mai capirà l’animo che si nasconde dentro quel suo figlio reietto. Fino alla fine lo crederà malvagio di natura e pronto all’inganno per “arricchire di nuovi, neri crimini la sua lista.”
Il romanzo presenta una cornice narrativa che fornisce una chiave per decifrare un ipotetico discorso sul ruolo e il valore della scienza. Il racconto ha una forma epistolare ed è redatto dal Capitano Robert Walton, impegnato in una spedizione alla scoperta dell’artico, che soccorre tra i ghiacci uno sfinito Victor Frankenstein all’inseguimento della sua creatura. Anche lui è in un certo senso attratto da sogni di gloria ma è soprattutto la curiosità a spingerlo nella sua impresa e il beneficio che essa porterebbe all’umanità: “ […] gli ho detto con tutta la passione che mi pervade quanto volentieri sacrificherei la mia fortuna, la mia esistenza e ogni speranza alla riuscita dell’impresa. La vita o la morte di un uomo sarebbero piccolo prezzo da pagare in cambio della conoscenza che cerco, del dominio che potrei acquisire e trasmettere alla razza umana”. Di fronte a simili ragionamenti Victor ha un fremito, mette in guardia il suo interlocutore dal cedere a simili passioni e inizia a raccontargli la sua esperienza come avvertimento morale. Robert è fortemente attratto da questo singolare personaggio e dalla sua acuta intelligenza ed eloquenza ma rimane comunque uno spirito differente e profondamente più umanista. Seppur con rammarico abbandonerà l’impresa verso il Polo Nord perchè cosciente che il suo non è un destino solitario e che, dalla sua decisione, dipende anche quello dei suoi compagni: “Non posso oppormi alle loro richieste. Non posso condurli incontro al pericolo contro la loro volontà e devo ritornare.”
Non è quindi la scienza moderna con il suo armamentario tecnico il problema che traspare nelle righe del romanzo. Le suggestioni create da Frakenstein si sono prestate e si prestano a molteplici usi ma una semplice lettura ci rivela significati riconducibili per lo più alla sfera affettiva. Se un problema scienza è presente allora va visto nel suo allontanamento dai bisogni umani concreti e nella ricerca della glorta, del successo individuale e, come diremmo oggi, della stabilità economica e del profitto che trasformano il progresso in un effetto collaterale o in un semplice paravento retorico. Il vero e unico mostro che emerge dal romanzo di Mary Shelley è l’egotismo fortemente radicato nella società.
Marco Crosa
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Ma.Cro Mind (http://marcocrosa.wordpress.com/ ) è un blog che ho recentemente aperto per riorganizzare un pò tutto il mio materiale. Ha al momento solo pochi articoli in inglese ed è sotto continue ristrutturazioni. Altri posts in italiano sono su Critical Mass (http://graccux.wordpress.com/).
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giuste osservazioni, grazie
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Molto interessante, grazie! Ha corretto il tiro!!!
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