Concepire il riso e il pianto come forme espressive significa partire dall’uomo come totalità, e non dal particolare – come il corpo, l’anima, lo spirito, il legame sociale – che si lascia separare dalla totalità quasi fosse qualcosa di autonomo (Helmut Plessner)
Di norma, la filosofia si è posta come scopo la ricerca della verità, scientifica o metafisica, mistica o religiosa e, raramente, ha sopportato lo sguardo beffardo tipico del comico. La filosofia ha, spesso, preferito la polemica, il contraddittorio e lo scontro, piuttosto che l’ambivalenza dello humour. In sostanza, anche all’interno della filosofia contemporanea, realtà in cui comunque pochissimi continuano a credere nell’esistenza di una verità universale e necessaria, si continua a preferire qualcosa che ha più affinità con il tragico che con il comico. Come sostiene Ferroni, l’esistenza del comico è stata per secoli relegata in una zona “bassa”, che non poteva venire negata fino in fondo ma restava comunque tollerata perché subalterna ad una seria, quindi alta e nobile. In questi termini, il riso è stato inteso alla stregua di una parentesi, di una momentanea divagazione. A tale proposito, emblematica è la disputa medievale fra coloro i quali affermavano che Cristo, durante la sua vita, abbia potuto ridere in virtù della sua parte umana; o non l’abbia di certo fatto perché ne riconoscono solo la sua natura divina, negando quella umana. Eppure, vari autori hanno dato uno spazio, più o meno ampio, proprio all’indagine del fenomeno comico e, tra di essi, spiccano Platone, Aristotele, Hobbes, Kierkegaard, Nietzsche, Baudelaire, Freud, Bergson, Pirandello ed altri. Inoltre, se uno spazio marginale è stato affidato al riso, possiamo affermare tranquillamente che al pianto si è dato ancor meno rilievo. In questo panorama di studi, particolarmente interessante e originale risulta l’interpretazione che Plessner fornisce delle due manifestazioni.
L’approccio di Plesser, volutamente distante da parziali teorie fisiologiche o psicologiche, può essere definito fenomenologico-esistenziale, dal momento che il significato del riso e del pianto sono posti in relazione alla natura dell’uomo tout court. Per il filosofo, queste due manifestazioni possono essere comprese solo prendendo in considerazione la duplice natura umana, corporea e spirituale, binomio imprescindibile e indivisibile. Infatti, le manifestazioni espressive passano attraverso il corpo, sarebbero impossibili senza la natura fisica, però, rimandano costantemente ad un’interiorità psichica e spirituale. Inoltre, nella rosa dei comportamenti umani, il riso e il pianto sono una manifestazione peculiare e molto significativa poiché da un lato possesso esclusivo dell’uomo (il riso dello scimpanzé, ad esempio, non può essere considerato, per Plessner, vero riso) ma dall’altro sono caratteristiche che si contrappongono proprio alla posizione monopolistica dell’uomo: il riso e il pianto sono, in un certo senso, in antitesi con altre prerogative esclusivamente umane come il lavoro o il linguaggio poiché queste possono essere interpretate attraverso il ricorso alla razionalità, invece, per comprendere il riso e il pianto, la razionalità ci dice ben poco e bisogna, appunto, tornare a considerare l’uomo in virtù della sua duplice natura corporea e spirituale, erroneamente considerata scissa da Cartesio in poi. Il linguaggio e l’azione dimostrano l’abilità umana, il potere che la ragione conferisce al soggetto, ma non ci dicono nulla del rapporto dell’uomo con il suo corpo. Al contrario, nel riso e nel pianto, nonostante la persona perda il controllo di se stessa , rimane in ogni caso persona, dal momento che il corpo si incarica di dare una risposta alla situazione al suo posto. Il precipitare in queste due espressioni evidenzia una perdita di padronanza e controllo, una rottura dell’equilibrio che l’uomo stabilisce fra corpo ed interiorità: i processi corporei si emancipano e reagiscono autonomamente. In breve, possiamo affermare che il riso e il pianto si presentano quando non si può più dare una risposta ragionevole (gesti, linguaggio etc.), ma la situazione non deve essere minacciosa perché, a quel punto, potrebbe solo esistere il perdersi, lo smarrirsi, in una vertigine.
L’uomo capitola come unità corporeo-spirituale, vale a dire come vivente; perde il rapporto con la sua esistenza fisica, ma non capitola come persona. Non perde la testa. Alla situazione a cui è impossibile rispondere egli trova comunque – grazie alla posizione eccentrica, per la quale egli non viene mai completamente assorbito dalla situazione – la sola risposta ancora possibile: quella di prendere distanza da essa e liberarsi. […] Perdendo il dominio su di sé, rinunciando ad un rapporto con se stesso, l’uomo testimonia ancora la sua sovrana comprensione dell’incomprensibile, ancora mostra il suo potere nell’impotenza, la sua libertà e la sua grandezza nella coercizione. Sa trovare una risposta anche là dove non c’è più nulla da rispondere (Helmuth Plessner).
A questo punto, Plessner prende in considerazione i vari motivi che possono condurre al riso, quindi la gioia, il solletico, il gioco, la comicità, il motto di spirito, l’imbarazzo e la disperazione; e quelli che portano al pianto, ovvero la tristezza, la malinconia, la disperazione, la nostalgia, la rabbia, l’ira e l’ostinazione. Però, soprattutto, il filosofo intende sfatare la consueta contrapposizione fra le due manifestazioni espressive, opposizione secondi cui riso e pianto esprimerebbero, rispettivamente, gioia e malessere; dal momento che, in realtà, le cose non sono così semplici e schematiche e, non a caso, esiste un riso disperato e un pianto di gioia. Plessner riconduce l’opposizione riso/pianto al fatto che, di norma, l’uomo ride o piange sì in situazioni limite, però, nel pianto l’uomo è maggiormente coinvolto nella risposta. Inoltre, se il riso si caratterizza per l’immediatezza e l’apertura, il pianto per la chiusura e la gradualità. Infine, il riso, a differenza del pianto, è altamente sociale e si estrinseca nella comunità (chi ride ha bisogno della conferma altrui dell’allegria della situazione) e si conclude più rapidamente, mentre il pianto tende a trasformarsi in una successione di singhiozzi.
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Brevi cenni bibliografici:
Diana Bonsignore (diana.bonsignore@gmail.com) ha trent’anni, due lauree in antropologia e un master economico in gestione delle risorse umane. Da sempre, è appassionata alla cultura umanistica in genere (ama leggere, andare a mostre e spettacoli teatrali etc.) e, specificatamente, si interessa attivamente (con varie collaborazioni) all’antropologia del genere e alla tutela della condizione femminile tout court. Questo è uno dei suoi articoli per Empatia, associazioni per le pari opportunità (link)