Dopo la trilogia è arrivato anche il (non) Manifesto e si presenta un po’ come i titoli di coda di un lavoro lungo circa un decennio. È questo il percorso del ticket Hardt & Negri, che ancora continua a snocciolare teoria per allietare le prospettive del movimento ed estenderne le capacità di conflitto e di organizzazione. Già in “Comune” avevamo notato alcune eccedenze sul terreno dell’analisi per entrare più apertamente nel campo della proposta. Evidentemente c’era bisogno del ciclo di lotte che dal 2011 si è allungato fino ai giorni nostri per dare quel “quid” per avanzare delle prospettive di organizzazione, o semplicemente delle analisi più stringenti. Ed infatti “Questo non è un manifesto”, circa 100 pagine edite da Feltrinelli, si presenta come un tentativo di chiudere il cerchio della teoria per entrare più nello specifico su alcuni problemi lasciati a terra dalla pratica.
Innanzitutto autogestione ed autonomia del Comune. Il tratto “politico” non cambia (almeno rispetto all’ultima, omonima, fatica letteraria). Il discorso ruota, giustamente, tutto intorno ai commons ed al “che fare” per renderli pienamente autonomi e, quindi, effettivamente autogestiti dalle singolarità in lotta. È questa la base del tanto celebrato “processo costituente” che condensa e sostanzia una prospettiva realmente rivoluzionaria dei commoners (ossia i nuovi militanti, gli “agenti del cambiamento”) contro il potere della merce ed il dominio della proprietà privata. “I commoners non sono comuni solo per il fatto di lavorare, ma, piuttosto e soprattutto, perché lavorano sul comune”. Ed in modo particolare lavorano a forme di organizzazione politica “comune”, non temendo lo specialismo perché ogni Essere umano, con la giusta formazione, potrebbe essere messo nelle condizioni di capire ogni cosa. Una delle allegorie più interessanti richiamate nel testo è la “Carta della Foresta” (1217) che, dopo una stagione di privatizzazioni radicali (che trovarono espressione nella ben più nota “Magna Carta”), garantiva e regolava l’accesso dei “commoners” alle risorse comuni. Ma andiamo con ordine.
L’invasione di Piazza Tahrir, l’occupazione del Campidoglio, le acampadas spagnole, le rivolte in alcuni quartieri londinesi, l’occupazione di Zuccotti Park e via di seguito pensando alla “primavera araba”, a Piazza Syntagma. Sono questi alcuni degli eventi che hanno permesso la definizione di un’analisi complessiva, fermo restando che “ognuna di queste lotte è unica e orientata a condizioni locali specifiche”. Sembrerebbe che, a differenza dei movimenti “no global” tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo millennio (pensiamo a Seattle ed a Genova in particolare) che erano decisamente globali e si muovevano lungo le strade larghe della globalizzazione, il 2011 ci abbia mostrato la ricerca della “stanzialità” dei conflitti (che usano gli strumenti della globalizzazione solo per organizzarsi localmente). Questo dimostra una stretta connessione dei movimenti con le questioni nazionali. È la nascita di un nuovo “nazionalismo” che andrebbe urgentemente discusso. In realtà anche le parole dei movimenti “no global” di dieci anni fa, in particolare verso il deflusso, erano “pensare globale ed agire locale”. Ogni ciclo di lotte lascia sempre qualcosa in eredità garantendo la continuità del movimento.
Ad ogni modo la cosa interessante del libro è la cornice che descrive le soggettività fabbricate dal neoliberismo: l’indebitato, il mediatizzato, il securizzato ed il rappresentato. Tutti questi “idealtipi” (o “figure soggettive della crisi neoliberista”, come vengono definite) si fondono l’uno dentro l’altro e l’uno con l’altro. L’indebitato. “Il debito ci controlla”. Ha un potere morale su di noi che si divide e si ricompone tra responsabilità e colpa. La colpa di essere in debito (solo per il fatto di consumare) e la responsabilità di ripagarlo (impoverendosi ulteriormente). È una forma della precarietà perché questa corsa continua genera lavoratori precari, pronti ad accettare qualunque cosa (ad ogni condizione) per rimanere in Vita. Quando si afferma che la vita sia stata messa al lavoro si parla anche di questo. Una delle condizioni è la costituzione sul debito della relazione tra “Capitale” e “Lavoro”. La produzione capitalista ha cambiato dimensione abbandonando la ricerca del profitto (sfruttamento industriale) per una più comoda attesa della Rendita (sfruttamento della Vita). Il mediatizzato. Non ci manca la comunicazione, ne abbiamo anche troppa, ci manca la creatività. Ci manca la resistenza al presente. Dicevano Deleuze e Guattari. Il punto, in effetti, è proprio questo. Nel magma furioso della comunicazione, che scorre ormai in ogni luogo, manca la qualità ed il rischio che “la coscienza del lavoratore mediatizzato venga classificata e assorbita nel web” è molto alto. Eppure la comunicazione (intesa come passaggio di informazioni) sarebbe fondamentale in questo modello produttivo. Il problema è che l’informazione “viva” prodotta dal Lavoro viene immediatamente cristallizzata nei processi burocratici. Morendo. Il securizzato. Il nostro corpo non è solo “l’oggetto della sicurezza, ma anche il soggetto”. Siamo sempre molto attenti ai moniti contro le attività da considerare sospette ma allo stesso modo siamo attivi nell’individuarle, magari generando mostri da banali ombre. Questo contribuisce a creare un regime diffuso di paura dove assumiamo continuamente il ruolo di vittime e carnefici, in molti luoghi della Vita (compreso il lavoro). La paura è un tratto fondamentale della nostra Esistenza che si riaggancia alla necessità di rivendicare nuova sicurezza producendo una società fondamentalmente militarizzata (non solo nelle uniformi ma anche nelle coscienze sociali). Il rappresentato. In questo caso l’idealtipo proposto si fa complesso: “dobbiamo riconoscere che la figura del rappresentato riunisce in sé le figure dell’indebitato, del mediatizzato e del securizzato, e riassume al contempo il risultato finale della loro subordinazione e della loro corruzione”. Il rappresentato agirebbe in una società mediatizzata che svuota la partecipazione di ogni intelligenza creativa, manipolando l’assoggettamento al debito ed alla paura. Questa mistificazione sarebbe stata generata dalla “eclisse della speranza di trasformazione” in seno alla classe operaia che, con le sue organizzazioni, aveva dato slancio alla partecipazione al potere. Il nuovo posizionamento globale degli assetti potere e l’incapacità oggettiva di partecipare “democraticamente” alle decisioni, apre la necessità di ricostruire una nuova soggettività politica capace di costituire un’altra forma possibile della rappresentanza. Il rappresentato, quindi, semplificherebbe un po’ le altre figure. È solo un individuo, alienato.
Per sostenere i riot contro la crisi bisognerebbe innanzitutto riscoprire le nostre singolarità, lanciandole nello spazio del Comune. Il rifiuto del debito sarebbe l’inizio di questo processo di singolarizzazione. Si rifiuta il debito perché si afferma l’abbondanza. L’abbondanza della Vita e della produzione. Un’abbondanza ed un desiderio di potenza che, in realtà, sarebbe continuamente negata in questo nuovo sistema di enclosures applicato a livello globale. Ed allora il debito da economico sarebbe inteso in termini di legame sociale. Siamo in debito di affettività. La singolarità (commoners) sarebbe la soggettività costituente comune che si muove in sciami attraverso una rete estesa di relazioni che sono fondamentalmente umane ed affettive, aprendo nuovi e continui processi di costituzione dei commons. Nella trilogia di Negri & Hardt il momento dell’Esodo, della fuga dagli attuali sistemi di comando, è stato più volte ripreso (con Aronne a difesa del cammino). La fuga è la modalità dell’Esistenza che si sottrae ai meccanismi dell’indebitamento, della paura e della rappresentazione per proporsi come costituente altra realtà. È la modalità che apre la possibilità di costruire l’autonomia. Se il potere è relazione bisognerebbe come prima cosa negare un estremo della relazione. Noi. Negarci.
Detto questo si apre un intervento approfondito sulla Costituzione. O, meglio, sul processo costituente che deve seguire alla fuga delle singolarità in Comune. Con una certezza: si pensa e si lavora ad una Costituzione che non debba essere semplicemente utilizzata da noi, qui ed ora. Si lavora per un’altra realtà da costruire. Costituzione e Comune sono i due termini principali del dibattito. In mezzo scorre il processo che dovrebbe portare da un capo all’altro della storia. “Questa crisi può essere almeno in parte spiegata dal fatto che, mentre le forze produttive diventano sempre più comuni, le relazioni di produzione e di proprietà continuano ad essere definite da regole e norme individualistiche e privatistiche inadatte a raccogliere la nuova realtà produttiva”. Il gap da colmare sarebbe questo. Forze produttive (cioè noi) ormai pienamente commons e relazioni industriali ed istituzionali (ossia loro) sempre più esclusive ed escludenti. I luoghi della decisione, inoltre, si sono molto rarefatti (così come si è rarefatto il capitale, diventando sempre più finanziario) di conseguenza i centri del potere sono esplosi ed ormai sono diventati quasi impossibili da rintracciare ed identificare. Chi decide su cosa? Siamo davanti ad uno stato di Eccezione rivisto e corretto. È lo Stato di Emergenza che ignora la Costituzione ma decide continuamente con decreti di urgenza (che sono oggettivamente esclusivi ed escludenti, visto che possono esercitarli pochi Esseri umani lasciando fuori tutto il resto). È una privatizzazione del potere.
Il processo costituente dovrebbe passare innanzitutto attraverso un’autonomia del tempo delle lotte, perché ogni conflittualità ha il proprio kairos. Inoltre la comunicazione e le nuove tecnologie dovrebbero essere utili per creare un terreno “federalista” che metta insieme queste molteplici esperienze territoriali, tutte interessate alla conquista ed alla riapertura dei commons. È questa “l’ontologia plurale del politico” che darebbe sostegno all’autogestione del comune attraverso una composizione condivisa delle singolarità costituenti. Ogni decisione, allo stesso tempo, deve essere singolare e comune. Esattamente il contrario delle attuali decisioni prese per decreti di urgenza, nell’ambito dello Stato di Emergenza, esautorando la democrazia da ogni intervento. L’Emergenza è un dispositivo che tiene in piedi una perversa ripartizione tra poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) che dovrebbe essere investita dal processo costituente. Ormai l’Esecutivo è stato totalmente esautorato di ogni capacità di direzione e controllo. La visione dei Parlamenti nazionali sulle disposizioni di legge oppure sulla sicurezza è stata totalmente annientata. Non sono più competenti in materia. Questa incompetenza istituzionale ha completato l’allontanamento delle organizzazioni partitiche dagli Esseri umani sviluppando, spesso ragionevolmente, malumore e diffidenza. Anche il Legislativo è ormai ridotto a mero simulacro. Semplicemente si rapporta in un dialogo morto con l’Esecutivo. Qualche volta ostacolando ed ogni tanto favorendo l’attività parlamentare. Il potere Giudiziario è l’unico elemento che, oggi, viene mobilitato quando si tratta di approvare qualche Riforma, aprendo la possibilità e la necessità di un intervento degli altri poteri su argomenti che, di volta in volta, vengono iscritti all’ordine del giorno. Un processo costituente, vista la situazione, non può prescindere dal rimettere in discussione questi tre poteri. Legislativo. “In un processo costituente il potere legislativo non deve essere un organo di rappresentanza, ma deve facilitare e promuovere la partecipazione di tutti al governo della vita sociale e nel processo di decisionale politico”. Il modello e la forma di questo “costituendo” potere dovrebbero essere i Consigli di Fabbrica di gramsciana memoria. Un’operatività diffusa su scala territoriale di partecipazione effettiva degli Esseri umani alla produzione industriale ed alla decisione sociale. Esecutivo. “Lo stato neoliberista, nonostante le affermazioni in senso contrario, esercita una forte pianificazione dell’attività promossa in stretta collaborazione con interessi aziendali e finanziari”. Il comune, in poche parole, deve essere gestito non solo nel presente ma anche per il futuro. Gli autori ci tengono a precisare la loro distanza dai sistemi di pianificazione statale degli anni sovietici, ma la parola “Piano” sembra non essere più off limits nella terminologia del movimento. E questo, forse, è un bene. Perché proprio la pianificazione sembrerebbe poter dare l’opportunità di innescare meccanismi virtuosi capaci di estendere democraticamente l’accesso ai commons. È inoltre interessante e degna di evidenza la posizione degli autori sulle banche che “devono diventare istituzioni gestite in comune per il bene comune e la finanza uno strumento della pianificazione democratica”. Il ruolo del credito in questo ipotetico mondo comune potrebbe essere un altro punto di discussione. Giudiziario. “La nostra propensione non è cercare modi per rendere il potere giudiziario realmente indipendente, quanto ammettere che determinate funzioni del giudiziario sono inevitabilmente politiche e scoprire come queste possano essere adeguatamente riconfigurate sul terreno politico”. L’indipendenza del Giudiziario, secondo Negri & Hardt, starebbe innanzitutto nella sua capacità di interpretare la Costituzione e garantire l’equilibrio dei poteri in un ambito federale e democratico.
Questo è il testo. Naturalmente nelle linee generali. Il resto, come sempre, dipende dalla nostra carne e dal nostro sangue. Dalla capacità di farci realmente commoners nella vita quotidiana e nei conflitti territoriali. Ma, in ogni caso, verrà il momento in cui un ragionamento più “pratico” sulla ricomposizione di questi conflitti bisognerà farlo.