Il seguente articolo, tradotto in italiano, è apparso originariamente nel 1997 su “The New York Review of Books” e potete leggerlo in inglese qui. L’articolo s’inserisce in un vasto e laico dibattito internazionale sul significato del neodarwinismo e sul metodo riduzionista, il cui abuso metodologico non è considerato al passo con i tempi a confronto del paradigma della complessità e dell’emergentismo. In particolare Stephen Gould oppone al metodo di John Maynard Smith, Richard Dawkins e Daniel Dennett un approccio pluralista e complesso al fenomeno della vita, pur rimanendo nei laici canoni scientifici e neodarwiniani. Anzi, la sua proposta è quella di tornare al “vecchio” Darwin, che quanto a pluralità di cause nelle leggi dell’evoluzione avrebbe capito qualcosa in più dei nuovi “ultras” darwiniani, prima ancora che genetica e biologia cercassero di “totalizzare” il discorso neodarwinista. Sullo stesso argomento, prima della morte, Gould è intervenuto in un altro articolo, che potete trovare al seguente link, intitolato Evolution: The Pleasures of Pluralism
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Fondamentalismo darwiniano, di Stephen Jay Gould
Numerosi esempi, dall’arroganza di Platone alle tirate di Beethoven, inducono a concludere che gli individui più brillanti della storia tendono a essere tipi irascibili. Con l’eccezione di Charles Darwin, che deve essere stato il più affabile di tutti i geni; era gentile all’eccesso, persino con gli immeritevoli, e non pronunciò mai parole dure. George Romanes, discepolo di Darwin, espresse stupore per l’unica affermazione aspramente critica che avesse mai incontrato: “Nell’intera gamma di scritti di Darwin, è impossibile trovare un altro brano formulato con tanta risolutezza; esso rappresenta l’unica nota amara nelle migliaia di pagine da lui pubblicate.” Il brano di Darwin che fece tanta impressione a Romanes era rivolto contro coloro che semplificavano e ridicolizzavano la sua teoria sostenendo che la selezione naturale, e soltanto la selezione naturale, è la causa di tutti i cambiamenti evolutivi. Nell’ultima edizione de L’origine delle specie (1872), Darwin scrive: “Poiché in tempi recenti le mie conclusioni sono state molto travisate, e si è dichiarato che io attribuisco la modificazione delle specie esclusivamente alla selezione naturale, mi sia concesso rimarcare che nella prima edizione di quest’opera, e nelle successive, ho posto nella posizione più appariscente – e precisamente a chiusura dell’Introduzione – le seguenti parole: “Sono convinto che la selezione naturale è stata la causa principale, ma non l’unica, delle modificazioni“. Non è servito a nulla: grande è il potere del travisamento continuo“.
È chiaro che Darwin amava la propria particolare teoria della selezione naturale – l’idea potente a cui spesso nelle lettere si riferiva come all’amato “figlio”.Come ogni buon genitore, tuttavia, ne comprendeva i limiti ed esigeva disciplina. Sapeva che gli ampi e complessi fenomeni evolutivi non si possono attribuire a un’unica causa, seppur onnipresente e poderosa quanto l’idea di cui era padre. Alla luce di tutto ciò, specie data la tendenza della storia a riciclare le grandi questioni, trovo divertente l’ironica situazione in cui è rimasta intrappolata di recente la teoria dell’evoluzione. In diversi settori è emerso fino a raggiungere un certo risalto un movimento di costruttivismo rigido, una sedicente forma di fondamentalismo darwiniano; spazia dal cuore della biologia inglese di John Maynard Smith all’ideologia inflessibile (seppur formulata in una prosa leggiadra) di Richard Dawkins, suo compatriota, agli scritti altrettanto angusti e più pesanti del filosofo americano Daniel Dennett (che ha intitolato il suo ultimo libro L’idea pericolosa di Darwin). Un gruppo più numeroso di rigidi costruttivisti è inoltre impegnato in un tentativo consapevole in maniera quasi sarcastica di “rivoluzionare” lo studio del comportamento umano lungo la retta via darwiniana, sotto la dicitura di “psicologia evolutiva”.
Alcune di queste idee sono finite sulla stampa non specialistica, ma il tema unificante del fondamentalismo darwiniano non è stato sottolineato né identificato in modo adeguato. I professionisti, dal canto loro, sono ben consapevoli di tali connessioni. Il mio collega Niels Eldredge, per esempio, nel suo recente libro Reinventing Darwin, a proposito di questo movimento organizzato parla di “ultradarwinismo”. In tutta la varietà delle tematiche da loro affrontate, gli ultradarwinisti hanno in comune la convinzione che la selezione naturale regoli tutto ciò che ha una qualche importanza nell’evoluzione e che l’adattamento emerga come risultato universale e come prova conclusiva dell’onnipresenza della selezione.
L’ironia della situazione è duplice. In primo luogo, come illustra il brano citato poc’anzi, lo stesso Darwin si oppose con forza agli ultras dei suoi tempi. (In un certo senso, una simile perla storica non dovrebbe interessare in alcun modo al giorno d’oggi; forse Darwin fu eccessivamente prudente e quindi gli ultra-moderni hanno una buona ragione per essere più darwinisti di Darwin. Tuttavia, dato che questi ultras promuovono il proprio prodotto con un fervore quasi teologico e dato che le concezioni dei padri fondatori hanno importanza in ambito religioso, anche se non dovrebbero averne in quello scientifico, la strenua opposizione dello stesso Darwin diventa in realtà pertinente). In secondo luogo, l’invigorimento della moderna biologia evolutiva grazie all’apporto di dati entusiasmanti che non sono selezionistici né adattazionistici e provengono da tre discipline fondamentali quali la genetica delle popolazioni, la biologia dello sviluppo e la paleontologia (si vedano gli esempi nel seguito) trasforma questi ultimi anni che precedono il nuovo millennio in un periodo particolarmente sfavorevole per il fondamentalismo darwiniano – e pare semplicemente confermare il pluralismo del tutto ragionevole dello stesso Darwin.
Charles Darwin rimarcava spesso che la sua opera rivoluzionaria si poneva due obiettivi distinti: primo, dimostrare il dato di fatto dell’evoluzione (la connessione genealogica di tutti gli organismi e un percorso storico della vita governato dalla “discendenza con modificazioni“); secondo, promuovere la teoria della selezione naturale come il meccanismo più importante dell’evoluzione. Per quanto riguarda il primo obiettivo, Darwin trionfò (a dispetto del creazionismo americano dell’estrema destra). Praticamente tutte le persone raziocinanti accettano l’evoluzione come dato di fatto e nella scienza non esiste un’altra conclusione che vanti evidenze più convincenti. Darwin riuscì sostanzialmente a raggiungere anche il secondo obiettivo. La selezione naturale, un’idea potentissima dalle conseguenze filosofiche radicali, è senz’altro una causa primaria dell’evoluzione, come conferma la teoria e dimostrano innumerevoli esperimenti. Ma la selezione naturale è la causa onnipresente e realmente unica ed esclusiva come propongono gli ultras?
Il radicalismo della selezione naturale sta nella sua capacità di detronizzare alcune delle più profonde e tradizionali consolazioni del pensiero occidentale, in particolare l’idea che la benevolenza, l’ordine e lo squisito disegno della natura, con gli esseri umani posti su un confortevole vertice di potenza e superiorità, provino l’esistenza di un creatore onnipotente e benevolo che ci ama più di tutti (la versione teologica vecchio stile), o quanto meno che la natura segua direzioni privilegiate e che gli esseri umani facciano parte di uno schema sensato e prevedibile che governa il tutto (la versione moderna e più laica).
Rispetto a tali convinzioni, la selezione naturale di Darwin presenta il punto di vista più contrario che si possa immaginare. Nel mondo di Darwin, una sola forza causale è responsabile del cambiamento evolutivo: la lotta inconscia tra i singoli organismi per favorire il proprio successo riproduttivo personale – niente altro e niente di più (non vi è alcuna forza, per esempio, che operi esplicitamente a favore del bene delle specie o dell’armonia degli ecosistemi). Richard Dawkins vorrebbe restringere ulteriormente il punto focale della spiegazione fino ai geni che lottano per il successo riproduttivo all’interno di corpi passivi (gli organismi) posti sotto il controllo dei geni – un’idea iperdarwiniana che a mio giudizio è una caricatura fondamentalmente sciocca e logicamente carente dell’intento autenticamente radicale di Darwin.
Gli stessi fenomeni che le concezioni tradizionali citano come prova della benevolenza e dell’ordine intenzionale – lo squisito disegno degli organismi e l’armonia degli ecosistemi – emergono a causa del processo darwiniano di selezione naturale soltanto come effetti collaterali di un singolare principio causale di significato apparentemente opposto: gli organismi lottano soltanto per se stessi. (Un buon piano strutturale porta al successo riproduttivo, mentre l’armonia degli ecosistemi registra l’equilibrio competitivo tra i vincitori). Il sistema di Darwin andrebbe considerato liberatorio dal punto di vista morale e non deprimente in modo cosmico. In ogni caso, le risposte agli interrogativi morali non si possono trovare nella fattualità della natura, quindi perché non accettare la “doccia fredda” e riconoscere che la natura non è morale e che non è organizzata per corrispondere alle nostre speranze? Dopo tutto, la vita esiste sulla Terra da 3,5 miliardi di anni prima del nostro arrivo; perché mai i suoi percorsi causali dovrebbero corrispondere ai nostri bisogni di significato o di decenza?
Si arriva così al punto tecnico e pratico che determina le priorità di ricerca ultradarwiniane. La selezione naturale si può osservare direttamente, ma soltanto nelle insolite condizioni di esperimenti controllati in laboratorio (su organismi che si riproducono a un ritmo molto veloce, come i moscerini della frutta) o di sistemi naturali semplificati e tenuti sotto stretto controllo. Poiché l’evoluzione, in ogni senso rilevante, impiega così tanto tempo (più dell’intera storia potenziale dell’osservazione umana!), non possiamo, tranne in circostanze particolari, osservare il processo in azione e dobbiamo pertanto tentare di inferire le cause dai risultati (si tratta della procedura standard in ogni scienza storica, per inciso, e non di un ostacolo particolare che gli evoluzionisti si trovano a fronteggiare).
Il risultato generalmente accettato della selezione naturale è l’adattamento – la forma, la funzione e il comportamento di un organismo si configurano per realizzare il summum bonum darwiniano di un aumentato successo riproduttivo. Dobbiamo quindi studiare la selezione naturale principalmente dai suoi risultati – vale a dire concentrandoci sui presunti adattamenti degli organismi. Se riusciamo a interpretare tutte le caratteristiche significative degli organismi come adattamenti rivolti al successo riproduttivo, possiamo inferire che la selezione naturale è stata la causa del cambiamento evolutivo. Questa strategia di ricerca – il cosiddetto programma adattazionistico – è il cuore della biologia darwiniana e il credo fervente e monocorde degli ultras.
Poiché gli ultras sono nell’intimo dei fondamentalisti e poiché i fondamentalisti in genere tentano di stigmatizzare gli avversari ritraendoli come apostati dall’unica via giusta, vorrei dichiarare ufficialmente che personalmente (insieme a tutti gli altri sostenitori del pluralismo darwiniano) non nego l’esistenza e l’importanza fondamentale dell’adattamento né il fatto che la selezione naturale produca adattamento. Sì, gli occhi sono fatti per vedere e le zampe per muoversi. E ancora sì, è vero, non conosco altri meccanismi scientifici oltre alla selezione naturale che abbiano una dimostrata capacità di costruire strutture dotate di un disegno di tale efficacia.
Ma è poi vero che tutto il resto dell’evoluzione – tutti i fenomeni relativi alla diversità organica, all’architettura dell’embrione e alla struttura genetica, per esempio – discenda per semplice estrapolazione dalla capacità della selezione di creare lo squisito disegno degli organismi? La forza che realizza un occhio con caratteristiche funzionali spiega anche il motivo per cui il mondo ospita più di cinquecentomila specie di coleotteri e meno di cinquanta specie di vermi priapulidi? O perché la maggior parte dei nucleotidi – le catene di molecole che formano il DNA e l’RNA – delle creature multicellulari non codifica per un enzima o per una proteina necessari alla costruzione di un organismo? O perché i dinosauri che dominavano morirono e i mammiferi che erano subordinati sopravvissero, arrivando a prosperare e a evolvere, lungo un percorso bizzarramente accidentale, una creatura capace di costruire città e comprendere la selezione naturale?
Non nego che la selezione naturale ci abbia aiutati a spiegare fenomeni su scale molto distanti da quella dei singoli organismi, dal comportamento di una colonia di formiche alla sopravvivenza di una foresta di sequoie. Ma la selezione non può bastare come spiegazione completa di molti aspetti dell’evoluzione; altri tipi e stili di cause diventano pertinenti, o addirittura prevalenti, in domini molto al di sotto o al di sopra dell’organismo, il classico locus darwiniano. Queste altre cause non sono, come gli ultras spesso sostengono, il prodotto di tentativi debolmente mascherati di re-introdurre clandestinamente il fine nella biologia. Questi ulteriori princìpi sono privi di una direzione, non teleologici e materialistici tanto quanto la stessa selezione, ma operano in modo diverso dal meccanismo fondamentale di Darwin. In altre parole, concordo con Darwin che la selezione naturale “non è l’unica causa delle modificazioni”.
Che momento singolare per essere fondamentalisti nei confronti dell’adattamento e della selezione naturale, ora che tutte le principali sottodiscipline della biologia evolutiva hanno scoperto che esistono altri meccanismi che si affiancano alla posizione centrale occupata dalla selezione! La genetica delle popolazioni ha elaborato dal punto di vista teorico, e confermato nella pratica, una elegante spiegazione matematica dell’importante ruolo giocato dai cambiamenti neutrali, e quindi non adattativi, nell’evoluzione dei nucleotidi, le unità individuali dei programmi del DNA. L’occhio può essere un adattamento, ma la maggior parte delle sostituzioni di un nucleotide con un altro nell’ambito delle popolazioni può non esserlo.
Nelle più straordinarie scoperte evoluzionistiche di questo decennio, i biologi evolutivi hanno documentato una stupefacente “conservazione”, o una stretta similarità, dei percorsi di sviluppo fondamentali tra phyla che si sono evoluti in maniera indipendente per più di 500 milioni di anni e che appaiono molto diversi per gli aspetti anatomici di base (insetti e vertebrati, per esempio). I famosi geni omeotici del moscerino della frutta – responsabili delle bizzarre mutazioni che sconvolgono l’ordine delle parti lungo l’asse principale del corpo, piazzando, per esempio, gli arti al posto delle antenne o di parti della bocca – sono presenti (e si ripetono quattro volte su quattro cromosomi distinti) anche nei vertebrati, nei quali in effetti funzionano nello stesso modo. Il principale percorso di sviluppo degli occhi viene conservato e mediato dal medesimo gene nei calamari, nelle mosche e nei vertebrati, benché i prodotti finali differiscano in maniera sostanziale (si pensi al nostro occhio a una sola lente e a quello sfaccettato degli insetti). Gli stessi geni regolano la formazione della superficie superiore e di quella inferiore negli insetti e nei vertebrati, per quanto nell’ordine opposto – dato che la nostra schiena, con il midollo spinale che corre sopra le viscere, dal punto di vista anatomico è equivalente all’addome di un insetto, in cui le catene nervose corrono lungo la superficie inferiore, al di sotto delle viscere.
Si potrebbe sostenere, immagino, che questi casi di conservazione registrano semplicemente gli adattamenti, immutati nel corso di tutte le vicissitudini della vita, poiché la loro ottimalità rende impossibile un miglioramento. La maggior parte dei biologi, tuttavia, ha l’impressione che tale stabilità agisca principalmente come un vincolo alla gamma e alle potenzialità dell’adattamento: se il corpo di organismi che presentano funzioni e caratteristiche ecologiche tanto diverse si deve formare seguendo i medesimi percorsi di base, allora è una limitazione delle possibilità, più che un adattamento anelante alla perfezione, a diventare un tema dominante nell’evoluzione. Quando si spiegano i percorsi evolutivi nel corso del tempo, i vincoli imposti dalla storia raggiungono quanto meno la stessa rilevanza dei vantaggi immediati dell’adattamento.
Anche il mio settore, la paleontologia, ha messo in discussione con grande vigore la premessa darwiniana che sia possibile spiegare le trasformazioni principali della vita sommando, attraverso l’immensità del tempo geologico, i minuscoli cambiamenti successivi prodotti generazione dopo generazione dalla selezione naturale. La protratta stabilità della maggior parte delle specie e la diramazione di nuove specie in determinati “istanti” geologici (per quanto lenti alla scala irrilevante di una vita umana), vale a dire lo schema noto come equilibro punteggiato, impone di spiegare le tendenze evolutive a lungo termine come il peculiare successo di alcune specie nei confronti di altre e non come accumulo graduale di adattamenti generati da organismi all’interno di una popolazione che si evolve continuamente. Si può determinare una tendenza a causa dei rapidi ritmi di ramificazione di alcune specie nell’ambito di un più vasto gruppo. Ma i singoli organismi non ramificano; soltanto le popolazioni mettono rami – ed è raro che le cause del ramificarsi di una popolazione si possano ridurre al miglioramento adattativo dei suoi singoli membri.
Anche lo studio delle estinzioni di massa ha sconvolto molte opinioni comuni tra gli ultradarwinisti. Oggi sappiamo, quanto meno per quanto riguarda l’evento della fine del Cretacico che spazzò via i dinosauri insieme a circa il 50 % delle specie di invertebrati marini (all’incirca 65 milioni di anni fa), che alcuni episodi di estinzione di massa ebbero realmente effetti catastrofici e furono provocati dall’impatto con masse di provenienza extraterrestre. La morte di alcuni gruppi (come i dinosauri) in una estinzione di massa e la sopravvivenza di altri gruppi (come i mammiferi), pur essendo senza dubbio eventi non casuali, probabilmente hanno poco a che fare con le ragioni di successo dei vari ceppi, legate all’evoluzione e all’adattamento, in normali epoche darwiniane dominate dalla competizione. Forse i mammiferi sopravvissero (dando origine infine all’evoluzione degli esseri umani) perché le creature piccole sono più resistenti nei confronti di un’estinzione catastrofica. E forse i mammiferi del Cretacico erano piccoli principalmente perché con dimensioni maggiori non potevano aver successo nella competizione con i dinosauri dominanti. È possibile che un adattamento immediato non abbia nulla a che fare con il successo nell’arco di immensi periodi di cambiamento geologico.
Perché il fondamentalismo darwiniano deve esprimersi in modo così stridente quando per la maggior parte i biologi evolutivi sono diventati più pluralistici alla luce di queste nuove scoperte e teorie? Non sono uno psicologo, ma immagino che i fedeli di una qualsiasi religione superficialmente affascinante debbano gettarsi in trincea ogniqualvolta si profili una generica minaccia. “Quella bella religione vecchio stampo, ecco quel che fa per me.” Il rigido adattazionismo – il sogno di una grande semplicità alla base di un mondo di enorme complessità e varietà – ha una immensa capacità di seduzione. Se l’evoluzione fosse alimentata da un’unica forza che produce un determinato tipo di risultati e se quindi fosse possibile spiegare la lunga e tortuosa storia della vita estendendo piccoli e sistematici incrementi di adattamento attraverso l’immensità del tempo geologico, allora una rasserenante semplicità esplicativa potrebbe discendere sulla manifesta ricchezza della vita. A quel punto l’evoluzione potrebbe diventare “algoritmica”, una procedura logica garantita, come nel sogno a occhi aperti di Daniel Dennett. Ma perché ce l’hanno con la ricchezza disordinata della vita, a condizione che si riesca a costruire una trama altrettanto ricca di spiegazioni soddisfacenti?
Il libro di Daniel Dennett, L’idea pericolosa di Darwin, pubblicato nel 1995, si presenta come il manifesto filosofico dell’adattazionismo puro degli ultras. Dennett spiega abbastanza bene la concezione rigidamente adattazionista, ma difende un’immagine ben misera e angusta dell’evoluzione, supponendo che tutti i fenomeni importanti si possano spiegare in questo modo. Il suo libro limitato e superficiale sembra la caricatura di una caricatura – infatti se Richard Dawkins ha banalizzato la ricchezza di Darwin aderendo alla forma più bigotta di ragionamento adattazionista caratterizzata da un estremo riduzionismo, Dennett, in qualità di agente pubblicitario di Dawkins, riesce a convertire un resoconto già viziato e improbabile in un postulato ancor più semplicistico e inflessibile. Se la storia, come spesso si è potuto osservare, ripete eventi grandiosi trasformandoli in farse, e se T.H. Huxley si comportò realmente come il “mastino di Darwin”, è difficile fare a meno di pensare a Dennett, in questo libro, come al “cagnolino di Dawkins“.
Il ragionamento di Dennett si basa su tre immagini, tre metafore, che hanno in comune l’erroneo assunto che la selezione naturale convenzionale, agendo nel modo adattazionistico, possa render conto, per estensione, di tutti gli aspetti dell’evoluzione – cosicché l’intera storia della vita diventa un’unica grandiosa soluzione ai problemi di disegno strutturale. “La biologia è ingegneria“, continua a ripetere Dennett. In una recensione critica demolitrice, apparsa sulla più importante rivista di questo settore, Evolution, e intitolata “L’idea pericolosa di Dennett“, H. Allen Orr osserva: “La sua rassegna dei tentativi dei biologi di circoscrivere il ruolo della selezione naturale sconfina in una zelante difesa del panselezionismo. È anche di una scorrettezza assurda. (…) Dennett fraintende in modo sostanziale le preoccupazioni dei biologi nei confronti dell’adattazionismo. Gli evoluzionisti sono essenzialmente d’accordo che – laddove si ha un “Disegno intelligente” – la causa è la selezione naturale. (…) Il nostro problema è che, in molte storie di adattamento, il protagonista non mostra affatto segni più che evidenti di un “Disegno”“.
Nella sua prima metafora, Dennett descrive l’idea pericolosa di Darwin come un “acido universale” – per rendere onore alla sua onnipresenza e alla sua capacità di corrodere le convinzioni occidentali tradizionali. Parlando di adattamento, la conseguenza più importante della selezione naturale, Dennett scrive: “Gioca un ruolo determinante nell’analisi di tutti gli eventi biologici, su ogni scala, dalla creazione della prima macromolecola capace di riprodursi autonomamente in avanti.” Accetto senz’altro la designazione acida – infatti la potenza e l’influsso dell’idea di selezione naturale stanno proprio nel suo contenuto filosofico radicale – ma pochi biologi sarebbero disposti a difendere la spensierata pretesa di onnipresenza. Se Dennett sceglie di restringere i propri interessi all’aspetto ingegneristico della biologia – la parte effettivamente costruita dalla selezione naturale – è libero di farlo. Ma potrebbe non imporre questa limitazione ad altri, che sanno che la storia documentata della vita contiene molti più eventi evolutivi di quanti se ne immaginino nella filosofia di Dennett.
La selezione naturale non spiega perché molte transizioni evolutive da un nucleotide all’altro sono neutrali, e quindi non adattative. La selezione naturale non spiega perché una meteora si schiantò sulla Terra 65 milioni di anni fa, avviando l’estinzione di metà di tutte le specie del mondo. Come sottolinea Orr, l’invalidante ristrettezza di vedute di Dennett appare quanto mai manifesta quando trascura di discutere la teoria neutrale dell’evoluzione molecolare, o addirittura di citare il nome del suo fondatore, il grande genetista giapponese Motoo Kimura: pochi biologi evolutivi negherebbero che la teoria di Kimura è tra le più interessanti e potenti aggiunte alle spiegazioni evoluzionistiche che si siano mai avute dopo la formulazione darwiniana della selezione naturale. Non è obbligatorio apprezzare l’idea, ma come si fa a tralasciarla?
Nella seconda metafora, Dennett invoca continuamente l’immagine di gru e ganci appesi al cielo. Nella sua descrizione riduzionistica dell’evoluzione, le gru costruiscono gli ottimali disegni strutturali degli organismi procedendo dal basso verso l’alto, a partire dal substrato fisico-chimico della natura. Le gru sono una buona cosa. La selezione naturale è la gru fondamenta le dell’evoluzione; tutte le altre (la riproduzione sessuata, per esempio) agiscono come meri ausili per accrescere la velocità o la potenza della selezione naturale nella costruzione di organismi di buon disegno. I ganci appesi al cielo, d’altro canto, sono forme spurie di argomenti speciosi che arrivano da cieli sovrannaturali e tentano di costruire una complessità organica con congetture e fallacie ad hoc del tutto disgiunte da altre cause dimostrate. I ganci appesi al cielo, naturalmente, non vanno bene. Tutto ciò che non è la selezione naturale, o un qualche ausilio alla sua azione, è un gancio appeso al cielo.
Se il lettore pensa che io sia semplicistico o scorretto nei confronti di Dennett in questa mia caratterizzazione, si legga il libro e veda se riesce a scoprire qualcosa di più sostanzioso in questa metafora. Io sono riuscito a trovare soltanto un bastone retorico per battere i pluralisti e metterli in riga. È possibile che Dennett non riesca proprio a capire che esiste una terza (e corretta) possibilità oltre alla sua dicotomica scelta obbligata: accettare l’idea di una gru fondamentale a cui si aggiungono altre gru ausiliarie, oppure credere nei ganci appesi al cielo. Mi si permetta di suggerire che la piattaforma di spiegazione evolutiva ospita un assortimento di gru fondamentali, che contribuiscono tutte a costruire l’edificio della storia della vita in tutta la sua maestosità (non soltanto l’architettura di organismi dal disegno ingegneristico eccellente). La selezione naturale può essere la gru più grossa, dotata dell’insieme più numeroso di ausiliari, ma anche la teoria del neutralismo di Kimura è una gru e sono gru anche gli equilibri punteggiati e l’incanalamento della trasformazione evolutiva da parte dei vincoli dello sviluppo. “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti” – e sono necessarie molte gru per costruire qualcosa di così splendido e variegato.
Per la sua terza metafora – anche se so che obietterebbe e classificherebbe erroneamente la sua tesi come un’affermazione fondamentale sulle cause – Dennett descrive l’evoluzione come un “processo algoritmico“. Gli algoritmi sono regole di calcolo astratte e tanto generali da non fare riferimento a contenuti particolari. Per citare Dennett: “Per quel genere di processo formale che è un algoritmo, si ha la garanzia – logica – che, quando lo si fa “girare”, vale a dire funzionare, produce sempre un certo tipo di risultato.” Se l’evoluzione funziona davvero per mezzo di un algoritmo, allora tutto il resto del sistema semplicistico di Dennett ne segue: per fornire l’acido universale abbiamo bisogno soltanto di un tipo di gru.
Non ho alcun problema a riconoscere – di fatto non vedo come qualcuno potrebbe negarlo – che la selezione naturale, agendo per mezzo dei suoi meccanismi essenziali, è algoritmica: la variazione propone e la selezione dispone. Quindi, se la selezione naturale produce tutta l’evoluzione, senza l’intervento di processi ausiliari o complessità intermedie, allora immagino che anche l’evoluzione sia algoritmica. Tuttavia – e qui incontriamo ancora una volta l’errore invalidante di Dennett – l’evoluzione abbraccia ben di più della selezione naturale, tanto da non poter essere algoritmica nel semplice senso computazionale di Dennett.
Eppure Dennett arde dal desiderio di sussumere tutta la fenomenologia naturale sotto l’egida limitata dell’adattamento come risultato algoritmico della selezione naturale. Scrive Dennett: “Ecco, allora, l’idea pericolosa di Darwin: il livello algoritmico è il livello che spiega nel modo migliore la velocità dell’antilope, l’ala dell’aquila, la forma dell’orchidea, la diversità delle specie, e tutte le altre occasioni di meraviglia offerte dal mondo della natura“.
Non esito a concedere la corsa dell’antilope, l’ala dell’aquila e gran parte della forma dell’orchidea: essendo adattamenti, prodotti dalla selezione naturale, sono membri legittimi del dominio degli algoritmi. Ma è possibile che Dennett creda davvero alle sue estensioni imperialistiche? La diversità delle specie non è altro che la conseguenza computazionale della selezione naturale? Qualcuno può credere davvero, al di là della retorica, che “tutte le altre occasioni di meraviglia offerte dal mondo della natura” derivino dall’adattamento?
Forse Dennett si emoziona soltanto quando può osservare progetti adattativi, vale a dire il legittimo dominio algoritmico; un tale atteggiamento, tuttavia, corrisponde senza dubbio a una concezione molto limitata dell’interesse potenziale della natura. A mio avviso la sostituzione neutrale di nucleotidi è una “occasione di meraviglia offerta dal mondo della natura“. E mi meraviglio alla probabilità di un evento quale l’impatto di una meteora che spazza via i dinosauri e dà una possibilità ai mammiferi. Se questo evento accidentale non si fosse realizzato, imprimendo una certa configurazione all’evoluzione della vita, non saremmo certo qui a riflettere su questo e su quello!
“Stretta è la porta e angusta è la via.” I fondamentalisti di ogni sorta ispirano la propria vita a questo venerabile motto e quindi devono brandire senza sosta le proprie spade in una continua battaglia mentale contro le opinioni antitetiche degli apostati e dei rivali (che di solito costituiscono una cospicua maggioranza – infatti, come osservò anche Gesù, “Larga è la porta e spaziosa la via che porta alla distruzione”).
Il destino che augurano di preferenza ai non eletti varia secondo il temperamento e il potere dei veri credenti e si va dalla benevolenza della sincera pietà alle fiamme dello sterminio invocate da chi è per la purificazione. Ma è raro che l’arma ideologica basilare del fondamentalismo si allontani di molto dalle tecniche sperimentate dell’anatema.
Sfortunatamente, quanto meno per gli ideali del discorrere intellettuale, gli anatemi seguono raramente i dettami della logica e delle prove di fatto e ottengono quasi sempre un punteggio penosamente alto per quanto riguarda il rapporto tra il calore e la luce prodotti. Quando si ha un anatema si ha anche un anatematizzato; pare che in questo caso l’eletto sia io. (La mia ipotesi è che, quali che siano i miei contributi professionali al pluralismo darwiniano corretto, mi si dichiara colpevole principalmente per i miei sforzi di trasmettere tutta la materia oggetto del dibattito tecnico, con tutte le sue complessità e tortuosità, ma senza perdite di sostanza, al
lettore non specializzato.)
Gli attacchi personali in genere meritano il silenzio come risposta. Tuttavia, come mi hanno suggerito due vecchi commilitoni (Noam Chomsky e Salvador Luria) in occasione del solo incidente confrontabile in cui io sia stato coinvolto in precedenza, vi è un unico caso in cui va fatta un’eccezione: quando i denigratori fanno circolare un’accusa dimostrabilmente falsa che, non ricevendo risposta, potrebbe acquisire “una vita a sé”. Un fatto falso si può confutare, un ragionamento viziato si può smascherare; ma come si fa a rispondere a un attacco ad hominem? Per portare a termine nel modo migliore questo compito più difficile, e tutto sommato
più scoraggiante, vanno messe allo scoperto la contraddizione interna e la mancanza di correttezza della retorica.
John Maynard Smith, professore emerito all’Università del Sussex e decano degli ultradarwinisti inglesi, ha recensito il libro di Dennett su questa rivista – e quindi non era molto probabile che si trattasse di un commento critico. Maynard Smith inizia la presunta analisi della critica ultradarwinista con la seguente osservazione gratuita: “Gould occupa una posizione piuttosto curiosa, specie dalla sua parte dell’Atlantico. A causa dei pregi dei suoi saggi, chi non si occupa di biologia ha finito per considerarlo il più eminente teorico dell’evoluzione. Di contro, i biologi evolutivi con cui ho discusso i suoi lavori tendono a considerarlo un uomo le cui idee sono tanto confuse che non vale certamente la pena preoccuparsene, ma che non si dovrebbe criticare pubblicamente poiché quanto meno sta dalla nostra parte contro i creazionisti“.
Mi pare inutile replicare a un attacco così privo di contenuti e basato soltanto sui commenti di critici anonimi; ho il sospetto che, se li si citasse per nome, alla fine risulterebbe trattarsi di una cerchia molto ristretta di veri credenti. Se posso chiedere l’indulgenza del direttore di questa rivista per un unico sfogo emotivo, vorrei dire, quanto meno, che Maynard Smith mi offende offrendomi pomposamente la sua riluttante approvazione per essermi reso utile nella lotta al creazionismo. Non ho agito così per aggiudicarmi l’ammissione al suo circolo di professionisti autentici (credo infatti che entrambi ne possediamo un’onorata tessera d’appartenenza), ma piuttosto in qualità di membro della comunità scientifica più ampia e come piccolo contributo all’eterna lotta delle persone che hanno cara la razionalità. Non vinceremo questa battaglia, che è la più importante di tutte, se ci abbassiamo a usare la stessa tattica della maldicenza e dell’anatema che caratterizza i nostri veri avversari.
Invece di rispondere all’attacco di Maynard Smith alla mia integrità e al mio sapere, citando sconosciuti e omettendo le argomentazioni, mi sia permesso ricordargli semplicemente la lampante incoerenza tra il suo ammirevole passato e il suo deplorevole presente. Una quindicina di anni fa, Maynard Smith scrisse una recensione, molto critica seppur stupendamente incoraggiante, della mia prima raccolta di saggi, Il pollice del panda, in cui affermava: “Spero che sia evidente che il mio desiderio di discutere con Gould è un complimento, non una critica.” Poi seguì una serie di Tanner Lectures che tenni a Cambridge nel 1984 e ne scrisse un resoconto per Nature, dal sorprendente titolo “La paleontologia al tavolo d’onore” – il commento critico più gentile e incoraggiante che abbia mai ricevuto. Maynard Smith sosteneva che il lavoro di un piccolo gruppo di paleontologi americani aveva riportato l’intero soggetto alla centralità teorica nell’ambito delle scienze evolutive.
“Gli studiosi di genetica delle popolazioni reagivano a qualsiasi paleontologo tanto avventato da offrire un contributo alla teoria dell’evoluzione dicendogli di andarsene via a cercare altri fossili e di non scocciare i grandi. Negli ultimi dieci anni, tuttavia, la situazione è cambiata per il lavoro di un gruppo di paleontologi, di cui Gould è stato una delle figure principali.” Maynard Smith terminava l’articolo con la quintessenza delle metafore da universitari di Oxford o Cambridge: “Le conferenze Tanner sono state un’occasione di divertimento e di stimolo. I paleontologi sono stati troppo a lungo assenti dalla tavola dei professori. Bentornati.“
Maynard Smith ha poi ripubblicato entrambi gli articoli (insieme ad altri due che attribuiscono al mio lavoro il ruolo centrale di una sezione intitolata “Did Darwin Get it Right?“) nel suo volume di saggi del 1988, Did Darwin Get it Right? Essays on Games, Sex and Evolution. La cosa più singolare è che Maynard Smith ha poi recensito due libri sui dinosauri su questa rivista, dedicando più di metà dello spazio (con grande afflizione – ne sono certo – degli autori dei libri che avrebbero dovuto essere recensiti) a una critica tagliente delle mie opinioni sull’adattamento. Ecco l’inizio dell’articolo: “Quando, come capita spesso, mi ritrovo a dissentire da qualcosa scritto da Stephen Jay Gould, ricordo a me stesso che da bambini abbiamo avuto tutt’e due la stessa esperienza. Eravamo entrambi appassionati di dinosauri.” Ed ecco l’apologia finale: “Temo che quella che è iniziata come recensione di due libri sui dinosauri si sia trasformata in una discussione dell’impostazione funzionale e di quella adattazionista all’anatomia“.
Eccoci quindi di fronte all’enigma di un uomo che ha scritto numerosi articoli, per un totale di decine di migliaia di parole, sul mio lavoro – sempre di critica dura e mordente, sempre riccamente documentati (e, potrei aggiungere, sempre apprezzati in misura enorme da parte mia). Ma ora Maynard Smith ha bisogno di un sondaggio d’opinione tra colleghi innominati per scoprire che “non vale certamente la pena preoccuparsi” delle mie idee. Dovrebbe proprio chiedersi perché si è preoccupato così tanto, e per tanti anni, del mio lavoro. Qual è il motivo di questo cambiamento drammatico? È stato trascinato da un fervore apocalittico ultradarwiniano? Mi addolora, in ogni caso, che le sue capacità critiche un tempo davvero strabilianti sembrino non essere più visibili dentro al dogmatismo semplicistico sintetizzato dall’idea pericolosa di Darwin, un dogmatismo che minaccia di compromettere la vera complessità, sottigliezza (e bellezza) della teoria evoluzionistica e della spiegazione della storia della vita.