Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di filosofia morale, filosofia politica, etica
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a cura di Giacomo Pezzano
Questo testo di Federico Sollazzo ha prima di tutto il pregio di essere chiaro e non cercare un linguaggio volutamente difficile da decifrare, spesso peraltro sintomo di mancanza di contenuti, ma anche quello di cercare di fornire una visione ampia che – il sottotitolo lo evidenzia da subito – mira a costruire un primo ponte «filosofico» (senza alcuna pretesa di definitività, ma non per questo senza pretese di stabilità – comunque provvisoria) tra morale, politica ed etica. Come nota con precisione Maria Teresa Pansera nella presentazione, l’Autore assume una prospettiva che è insieme «filosofica, ma anche storica, politica, sociale e psicologica» (p. 10), ma mi sento di dire di più, è una prospettiva anche se non soprattutto antropologica, anzi, che proprio perché umanistica in senso ampio può essere poi filosofica, storica, politica, sociale e psicologica. Infatti (anche ciò è ben colto da Pansera), il principale elemento propositivo avanzato nell’opera è una caratterizzazione della base umanistica dell’etica, rintracciata in un insieme di necessità e capacità psico-fisiche (biologiche ed emozionali, che per l’Autore non vanno in alcun modo confuse con quelle emotive) che identificano la natura umana (l’uomo in quanto uomo), ma che allo stesso tempo non possono realizzarsi se non tramite una pluralità di modi storicamente diversi e contingentemente situati (dando in ultima istanza vita a uno scenario multiculturale e multietnico). I diversi contributi dell’opera manifestano al contempo l’uno rispetto all’altro indipendenza e organicità, quasi come tasselli di un mosaico (è peraltro l’immagine presentata da Sollazzo stesso nella premessa: p. 13) che se colti insieme nelle loro reciproche relazioni e interconnessioni presentano un quadro sintetico unitario, ma che se esaminati isolatamente sono comunque in grado di restituire un’immagine autonoma e chiara. Presenterò qui brevemente questi tasselli, isolando per ognuno di essi quella che ritengo essere la tesi centrale espressa dall’Autore: i §§ 1-4 presenteranno in nuce la parte dell’opera intitolata «Filosofia morale», i §§ 5-12 quella intitolata «Filosofia politica» e i §§ 13-18 quella intitolata «Etica».
1. Ciò che la critica filosofica novecentesca non ha cessato di denunciare, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, è la graduale affermazione di un sistema “standardizzante”, tanto più morbido quanto più capace di penetrare anonimamente e impersonalmente nelle maglie del pensiero, intaccandone l’autonomia e soffocandone la capacità di pensare le possibili alternative allo status quo, andando cioè ad assorbire la vera libertà individuale per dar vita a un’immedesimazione con la totalità che produce omologazione e conformismo: rendere tutti silenziosi complici tramite un controllo produttore di consenso che non abbisogna più nemmeno di un’esplicita disciplina annienta il pensiero critico e unidimensionalizza l’uomo (pp. 17-35).
2. Pensiero critico e prassi etica richiedono preliminarmente la risposta alla domanda «chi è l’uomo»: non si può costruire una casa umana senza esplicitare l’identità umana, intersezione di universalità e contingenza. L’uomo è l’«allotropo empirico-trascendentale» in quanto (recuperando i grandi temi dell’antropologia filosofica contemporanea di Scheler, Plessner e Gehlen) è costituito dall’interdipendenza di due elementi diversi ma congiunti e dipendenti l’uno dall’altro, uno più “materiale” (biologico) l’altro più “spirituale” (trascendentale) (pp. 37-44).
3. Ciò non nega, anzi riafferma, l’unitarietà della struttura umana, corporea ed extra-corporea al contempo: è da qui che può essere determinata una moralità minima eppure capace di universalizzare l’etica, laddove l’universalità dipende dagli «universalizzabili», elementi che, presenti in una data contingenza, risultano condivisibili e condivisi da tutti gli uomini per il solo fatto di essere tali. Insomma, «l’uomo ha delle necessità e delle potenzialità empirico-trascendentali che devono essere comprese per poter essere soddisfatte». L’ambivalente costituzione antropologica è unione di biologia ed emozionalità: la prima è l’insieme delle basilari esigenze fisiologiche per la sopravvivenza (più foriere di insoddisfazione quando non evase che non di felicità quando soddisfatte), indispensabile sostrato per lo svolgimento di attività superiori inerenti alla sfera della seconda, luogo di condivisione del medesimo sentire e di letterale com-passione. Una compassione che l’immaginazione letterario-narrativa promossa pubblicamente dalle istituzioni può e deve (con Nussbaum) promuovere come tramite per orientare la formazione degli individui, educandoli a percepire il mondo e il rapporto con gli altri in maniera non utilitaristica, in un’ottica di promozione delle capabilities di ciascuno (pp. 45-57).
4. La presenza di un’unica costituzione antropologica basilare non è affatto incompatibile con il pluralismo culturale, ma non per questo non richiede un lavoro di conciliazione sempre particolare con esso, che sappia porre al proprio centro non i «rapporti tra civiltà», bensì i «rapporti tra persone», sempre al contempo diverse e uguali fra loro, prese tra contingenza storica ed essenzialità antropologica: un’etica universale riprodotta da una pluralità di dipinti, di culture aperte costantemente le une verso le altre non attraverso la «tolleranza», forma quasi di elargizione dall’alto che maschera una stanca sopportazione, bensì tramite il «rispetto», sincera ricerca del confronto e della contaminazione con l’altro (potremmo anche dire: si tollerano civiltà, si rispettano culture e persone). L’inquinamento ibridativo consente comprensione reciproca: il confronto può avvenire così all’insegna di quell’«universalismo della differenza» in cui «proprio l’inassimilabilità delle singolarità costituisce il trait d’union fra le stesse» (pp. 59-65).
5. Il totalitarismo è prima di tutto quel fenomeno politico-sociale che si nutre dell’assenza – tipicamente moderna – di uno spazio pubblico, spazio della praxis fagocitato dalla centralizzazione della vita biologica come bene supremo da riprodurre e far sussistere attraverso il lavoro: eroso il politico, si apre lo spazio per l’ideologia, che si nutre di (nutrendo al contempo) cieca fiducia e obbedienza acritica, violenza fisica e terrore, annientamento della distinzione tra verità e menzogna, strumentalizzazione della ragione (pp. 69-80).
6. Politicamente, il totalitarismo si delinea attraverso la deresponsabilizzazione dei singoli, resa possibile dalla crescente burocratizzazione dell’amministrazione statale che mira a controllare e gestire la vita, a promuovere salute e salvezza del popolo: si può reagire solo correlando etica e politica, mettendo la seconda al servizio della prima, al servizio dell’umanità presente in ogni singola persona umana, che si distingue dall’individuo per la sua capacità di concepirsi all’interno di una rete aperta di interazioni con il prossimo e di impegnarsi criticamente e responsabilmente (pp. 81-88).
7. Il totalitarismo per Arendt è l’esplosione drammatica della perdita del significato politico antico dell’azione, della parola ridotta a riproduzione del dettato del capo e del pensiero ridotto a calcolo finalizzato alla sopravvivenza, della negazione del soggetto di diritto e della dignità umana; per Marcuse, invece, esso è inscindibilmente legato al capitalismo, a quello monopolistico di Stato in particolare, nel senso che il liberalismo genera lo Stato totalitario subordinando la politica all’economia per poi a sua volta piegare questa alla «Ragion di Stato», facendo emergere questo come vincitore della concorrenza e come organizzatore centralistico dell’apparato della tecnica. Da una parte l’idea di un autoritarismo nuovo e dotato di meccanismi specifici, ancorché favorito da un insieme di pre-condizioni e da alcuni tratti costitutivi della modernità; dall’altra parte l’idea di una manifestazione evolutiva del più ampio sistema capitalistico-industriale, nel quale ancora siamo incastrati: due concezioni diverse ma che denunciano con la stessa forza il trionfo dell’efficienza, della produttività, del privato, dell’assenza di pensiero critico, dell’illibertà (pp. 89-105).
8. È la denuncia dell’eclissi di una dimensione plurale e condivisa parallela a quella della responsabilità del Selbstdenken, del pensiero e del giudizio autonomi e non meramente esecutori, parallelismo dato dal fatto che non può esservi giudizio – ossia capacità di saper ragionare al posto dell’altro – senza la presenza altrui: è l’eclissi dell’umano, perché l’umanità dell’uomo «non è un dato, ma un progetto, e in quanto tale può realizzarsi solo se viene scelto e praticato attraverso l’iniziativa umana; il suo primo nemico è la passività, il cedimento passivo ai processi che ci inglobano». La «banalità del male» è la drammaticità dell’assenza del giudizio critico frutto della recisione (nel pensiero e nella prassi) del legame con tutti gli altri (pp. 107-117).
9. Conseguentemente, una democrazia “umana” e ispirata alla polis greca si può costruire sulla centralità dell’azione pubblica di individui liberi ed eguali, della relazione tra diversi, del mondo comune come spazio di confronto tra singoli soggetti autonomi: una strada percorribile rifiutando la violenza e passando tramite la disobbedienza civile, movimento dal basso in cui ognuno rivendica la propria possibilità di formare un nuovo concetto di Stato, dando vita a un contratto sociale orizzontale in grado non da ultimo di porre l’istanza di un modello politico «federativo» (pp. 119-131).
10. Una democrazia di questo tipo è certo «aperta», a patto però di non appiattire – come fa Popper – l’apertura del logos democratico su una ratio formale-procedurale, che si allontana dalla società per operare in base a regole proprie e rivendicare la propria avalutatività: il profondo logos democratico è una ratio critico-dialettica, che si esplica non staccandosi dalla contingenza ma sforzandosi di penetrarla (pp. 133-143).
11. «Democrazia» va però inteso non come un particolare evento storico, ma prima di tutto come una categoria filosofica, come il tentativo di pensare lo «spirito della democrazia», fatto di eguaglianza intesa non come qualità/proprietà di un soggetto ma come relazione fra soggetti (in-fra/in-between), come liberazione dalla potenza ideologica, economica e politica, come costante educazione alla democrazia stessa che non può prodursi senza l’attiva, pubblica e disinteressata opera dei cittadini: «solo comprendendo lo spirito della democrazia, si possono realizzare le democrazie» (pp. 145-157).
12. Lo spirito della democrazia è prima di tutto avverso all’ingiustizia e si preoccupa di definire status concettuale e pratico della giustizia, di ispirare il diritto per renderlo a pieno titolo umano, radicandolo nella struttura antropologica essenziale, la quale cerca nel diritto una garanzia della possibilità di minimizzare le sofferenze non desiderate e di massimizzare le possibilità di soddisfazione (pp. 159-165).
13. La «riabilitazione» della filosofia pratica è il tentativo di restituire all’etica uno spazio (quello della phronesis e dell’agire comunicativo) come risposta alla conclamata crisi del pensiero forte, uno spazio che però, per non essere meramente formale, deve rischiarare la sua zona d’ombra, impedendo che i processi decisionali discorsivi morali siano fisicamente impediti, psicologicamente inibiti o manipolati, che la libertà individuale sia solo dichiarata ma non materiale, rischiando così di compromettere quel senso critico irrinunciabile per il buon esito del Kommunikatives Handeln (pp. 169-179).
14. Due spettri (impensabili l’uno senza l’altro, due facce della stessa medaglia che si combattono per occupare l’una la superficie dell’altra) si aggirano nell’agone etico-sociale contemporaneo: il primo è il «libertarismo», fondato su un individualismo proprietario che astrae dal carattere ineludibilmente sociale e cooperativo di ogni attività umana, per pensare così la giustizia non come ripartizione e redistribuzione delle risorse, bensì come garanzia della loro acquisizione privata (pp. 181-188).
15. Il neocontrattualismo rawlsiano cerca lodevolmente di farsi carico di queste istanze liberali(ste) intersecandole con i principi più classici della giustizia sociale, ossia di legare libertà e giustizia, politica ed etica, attraverso l’espediente metodologico del «velo di ignoranza», che però si concentra solo sulla condizione sociale materiale – lasciando da parte forze «immateriali» come idee e valori –, si limita ad assopire la conflittualità sociale – pronta a riesplodere al sollevamento del velo –, e fa rientrare in gioco in una forma potenziale quella condizione sociale precedentemente messa tra parentesi nella sua forma effettiva (pp. 189-195).
16. Il secondo spettro è quello del «comunitarismo», figlio del crollo degli stati nazione sotto il peso della globalizzazione mercantilistica e del conseguente eccesso di pressioni morali esercitate sull’individuo: si afferma reattivamente l’identità personale come rifrazione e riflessione del modello identitario della comunità di appartenenza, della tradizione e del passato della totalità sociale di estrazione. Con il rischio concreto di far venire meno il decisivo ruolo mediatore proprio della riflessione, che rende consapevole la scelta di quale elemento (o quali elementi) considerare prioritario nella strutturazione della propria «identità a mosaico» (pp. 197-213).
17. Se la fondazione dell’etica può ritrovare nuovo terreno nella metafisica, questa – suggerisce Sollazzo – non può però essere (come è in Jonas) tale da negare quella possibilità di trascendere la natura immediata che paradossalmente specifica proprio la natura umana; ossia: può essere solo una metafisica “umanistica”, che interseca il rispetto dell’uomo per la natura (o quello problematicamente “autoritario” per l’Essere) con quello dell’uomo per l’uomo (pp. 215-227).
18. In ultima istanza, la vera e propria questione etica è, in una contemporaneità che si è pensata a partire dalla messa in discussione del cogito “fallo/logo-centrico” e della sua chiusura autoreferenziale, quella dell’alterità – oggettiva (la natura e le cose) e soggettiva (il prossimo): la relazione all’alterità, che (passando per Lévinas, Ricoeur e Derrida) attraversa lo stesso Sé da parte a parte, si traduce in cura e dono, in giustizia e amore, in amicizia e – più in generale – tutto ciò che eccede la logica dello scambio e del calcolo utilitarista ed ego-centrato (pp. 229-242).
19. L’appendice finale (pp. 245-257), dedicata alla tematizzazione – passando tramite Heidegger – della questione della tecnica nella sua declinazione prima di tutto ontologica, esplicita una dimensione che a prima vista (nuovamente, è già dal sottotitolo che una simile perplessità potrebbe emergere) potrebbe sembrare essere messa tra parentesi nell’opera, l’ontologia appunto: l’aspetto importante che la ricostruzione dell’analisi heideggeriana permette a Sollazzo di evidenziare con radicalità è che «la problematica fondamentale in cui ci troviamo nel mondo occidentale, non è economica, non è politica, non è ecologica, non è insomma, empirica, bensì ontologica», nel senso che «tutto deriva da un dato paradigma ontologico […] un certo modo di pensare» (p. 256). Qui non viene tanto affermata l’insignificanza delle dimensioni empiriche, quanto piuttosto il loro fondamento in un preliminare orizzonte ontologico, nel modo con cui si pensa l’uomo, il mondo, la natura, l’economia, etc. e soprattutto il rapporto tra di essi. Il che, detto concludendo en passant per ragioni di spazio, significa tutto l’opposto di concepire il pensiero come separato dalla vita, dai concreti processi sociali, economici, politici, etc. – in una parola: umani –, come l’intera struttura del libro e l’insieme dei suoi contenuti stanno d’altronde a testimoniare.
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