“Onestamente non ricordiamo né quando né dove, ma ci sembra che qualcuno (forse fu soltanto una conversazione in autobus, dopotutto) abbia messo una volta in rilievo certe curiose corrispondenze tra la fantascienza e il jazz. L’intuizione, chiunque ne sia stato il padre, si va dimostrando col tempo sempre più sostenibile e meriterebbe oggi l’occhio dei più aggiornati antropologi culturali. Coincidono anzitutto i dati anagrafici. Luogo di nascita per entrambi: gli Stati Uniti d’America. Data: gli Anni Venti, coi blues raucamente cantati in sordidi locali e i pulp magazines stampati su infima cartaccia. Nei due casi, una partenza dal basso, con orizzonti espressivi assai limitati, per non dire rozzi; e tuttavia un’attraente carica di viscerale immediatezza. Ma dietro l’apparente spontaneità e “ingenuità” del primo jazz ben sappiamo esserci tutta un’ascendenza nobile, filtrata dalle dorate sale di musica e da ballo d’Europa fino alle magioni aristocratiche delle colonie creole e di qui passata alle piantagioni di cotone e mescolatasi a primitivi ritmi e canti di lavoro. Allo stesso modo, la fantascienza degli esordi si presenta sotto forme a dir poco rudimentali ma non nasce certo dal nulla. Le sue stridule cornette e sue pianole plebee riciclano alla lontana e alla lontanissima, e spesso all’insaputa degli esecutori, i più illustri motivi della letteratura fantastica occidentale. Anche la “carriera sociale”, per così dire, di jazz e fs. segue percorsi paralleli. Genuina, candida passione di una minoranza. Scoperta da parte di sofisticati cercatori di novità. Curiosità crescente. Successo e lusinghieri inviti in casa Guermantes. Esagerazioni paradossali (“meglio Armstrong di Mozart!” “Preferisco Bradbury a Tolstoj”). E infine, passato il culmine della moda, un’accettazione condiscendente, una dignitosa sistemazione al terzo piano, scala C. Perché lo status della coppia resta in definitiva equivoco. Non basta un concerto jazz al Metropolitan o una cattedra di fs. in un’università di provincia per farne due ospiti veramente di riguardo. Gli inquilini abusivi che recitano la parte dei padroni di casa si piccano di sapere che cosa sia l’arte e decideranno sempre che l’arte però insomma via è un’altra cosa […]” (Carlo Fruttero e Franco Lucentini, nell’introduzione a “Il quarto libro della fantascienza”, Einaudi)
I soliti scontri fra “alto” e “basso”. Il Jazz: nato nei bassifondi della cultura alta e ufficiale, decenni dopo diventa Arte. Mi son sempre chiesto, ad esempio, perché la fantascienza sia considerata una letteratura di serie B. Nei libri di testo delle scuole italiane la fantascienza non compare neanche come letteratura. Forse perché è troppo scomoda, forse perché le sue origini sono umili, basse, come uno scantinato nel quale si accatastano i libri vecchi… come ogni lievito che si rispetti, il fungo cresce e diventa una muffa che attacca tutto ciò che è ”grande”. Ogni epoca ridefinisce ciò che è degno di essere studiato e ciò che è meno degno, ciò che è arte e ciò che non lo è, ciò che è sublime e ciò che non lo è. Ciò che merita una cattedra universitaria, ciò che non lo merita. Il tutto si determina in base ad un complesso gioco economico sociale molto arduo da analizzare, il cui studio negli ultimi anni ha avuto uno dei massimi fautori in Pierre Bourdieu. In questo scontro sono anche in gioco valori e classi sociali. La filosofia pop, ad esempio, ultimamente sta cercando di ricavarsi uno spazio in un mondo culturale ed accademico spesso poco propenso a “dequalificare” le proprie discipline ed a ristrutturare la propria gerarchia dei saperi.
La filosofia è altro, non può mica occuparsi di cinema e fumetti, o della “vita”, dicono i “detentori” e loro seguaci. Questi “conflitti” fra saperi e fra gerarchie di saperi, del resto, non sono prerogativa dei pop filosofi e degli ultimi anni. Esempi ben documentati di scontri egemonici culturali sono reperibilissimi. Basti pensare, nella Francia e nell’ Europa dei primi anni dell’Ottocento, allo scontro fra Romanzo e Poesia, uno scontro di cui i libri di Balzac sono stati i più vividi cronisti. Non per niente, Sartre definiva Balzac uno dei più grandi sociologi della nostra storia. Questa battaglia (dietro cui si schieravano anche opposte tradizioni politiche sociali) avrà la sua continuazione anche alla fine dell’Ottocento, fra l’arte pura (per esempio, Henri Brémond) e la letteratura popolare (come non pensare a Jules Verne?). Volendo, la battaglia continua fra surrealisti e Bataille. Le mode sono mode, de gustibus, si dice; ma dietro ogni moda ci sono precisi rapporti di potere socio economici, precisi rapporti di forza fra classi d’interesse culturali trasversali. Quello che prima non era di moda, un romanzo di Jules Verne, successivamente diventa l’oggetto di una tesi di laurea accademica o di un corso universitario. Similmente, le “avanguardie”, si ricavano un loro spazio nei valori culturali di un’epoca o negandoli in toto o riadattandoli alle loro competenze ed a nuovi valori emergenti. Senza evitare la questione della gerarchia delle arti e delle novelle versioni di trivio e quadrivio, dobbiamo però meno ingenuamente affrontare il problema di come si accede alla cultura e di chi siano davvero i “custodi” delle gerarchie dei saperi. Nel campo filosofico, per esempio, il disprezzo snobista di un certo successo dei “nuovi filosofi” non nasconde forse una ennesima manifestazione di odio verso la democrazia e verso l’accesso democratico al sapere? Non scordiamoci che la nostra cultura ha passato secoli a costruire un sapere professionale traducendo spesso lo stesso senso comune in un linguaggio scientifico, creando caste con un loro linguaggio specifico e “campi” diversi tutti in competizione fra di loro. Siamo pronti a impegnarci in una sistematica “traduzione di ritorno” per riportare il sapere a coloro a cui esso dovrebbe anche appartenere, e trasformare problemi privati in questioni pubbliche? Per far questo, decostruire i “padroni” del sapere può esser utile. Come afferma Bourdieu, l’intellettuale è casta, una sorta di categoria aristocratica erede, fra l’altro, dell’umanista-teorein che guarda con disprezzo ogni sapere e ogni tecnica che non sia quella di Omero. E, solo da qualche secolo, erede anche del tecnocrate che non sa che farsene di Omero. Qualunque sia l’origine biologica dell’intellettuale, questo “detentore” del sapere è l’unica categoria “produttiva” che non vuol essere “storicizzata”. E che difficilmente mette in discussione i propri valori e la propria gerarchia dei saperi, costruendo valori eterni ed astorici che si sottraggono ad ogni conflitto.