“Era un altopiano dei Vosgi dai fianchi irsuti. I monti circostanti si elevavano o discendevano come montagne russe, tutti ombreggiati dalla loro chioma d’abete, ora zazzera scossa dai venti, ora pettinata con cura, tosata sui lati, che rivelava agli occhi riposati l’oasi di un prato verde o di una casa rossa. Quei tetti lontani, fabbricati a mattoni, dovevano alla foresta che li circondava l’abbellimento di un contrasto: erano diventati la meta delle passeggiate, per il piacere di incontrare degli uomini dopo la traversata di un luogo solitario; rappresentavano la vita umana, poveri sostituti che implicavano tuttavia una quantità di idee mondane e lussuose radicatesi là misteriosamente, probabilmente col favore della distanza. Sull’altopiano era spuntato un villaggio, Altweier, accuratamente diviso, come tutti quelli dell’Alto Reno, in due parti: la frazione cattolica e la frazione protestante. Ciascuna aveva la sua chiesa e le case si raggruppavano, sottomesse, attorno ai due campanili. Il partito cattolico si era impossessato della cima: più modesto o venuto tardi, il partito protestante si era installato un po’ più in basso, annodato dalle tortuosità della strada. Il calzolaio, carattere forte, s’era sistemato ancora più in basso per far vedere che faceva gruppo a parte. Certi alberghi ermafroditi servivano da tramite, da intermediari. In uno di essi (che si era chiamato Hôtel di Sedan dal 1870 al 1918, e che prese dopo l’armistizio il nome di Hôtel della Marna, senza del resto cambiare proprietario), Louis Gaillard andava a villeggiare, durante i tre mesi di vacanza che l’università accorda ai suoi professori. Arrivò, caricato di una valigia, vestito con l’indispensabile gabardine e l’aria imbronciata che è il suo correlativo abituale. Aveva caldo e sete, aveva litigato, senza averla vinta, col conducente della corriera; e il disgusto, la nausea di fine viaggio che rivolta i nostri poveri corpicini sedentari, pesavano su di lui. Era un mediocre, smarrito dalle cattive compagnie: come è dannoso per un giovane povero vivere nella scia di ragazzi ricchi, così può nuocere il commercio di persone più intelligenti di sé”.
Inizia in questo modo il breve, asciutto e intenso racconto che nel 1922, presumibilmente d’autunno, scrive, con voce adulta e sicura (anche se il timbro appare, soprattutto nelle prime righe, molto più lirico di quello a cui di norma si è abituati, e con uno stile davvero personale e ironico, nonché particolarmente ricco di colti riferimenti letterari, spesso tutt’altro che ostentati) un ragazzo, già diplomato, e iscritto in una classe letteraria di preparazione al concorso della Scuola Normale Superiore, ma di soli diciassette anni d’età: quel ragazzo è Jean-Paul Sartre. Questa è la sua prima pubblicazione.
Sartre, quando scrive questo romanzo, è un adolescente che però con tutta evidenza ha una sensibilità assai raffinata, ed è in grado, precocissimo, di analizzare senza alcuna pietà i meccanismi sui quali di base si fondano le relazioni umane – secondo la visione di Sartre, che certo non brilla per ottimismo – all’interno della società contemporanea, meccanismi essenzialmente di autoinganno, che fanno somigliare i volti più a delle maschere che a delle vere e proprie facce, e la speculazione filosofica di Sartre, per certi versi, parte anche sin da qui, basti solo pensare a quella parola che, praticamente alla fine del brano sopra riportato, sembra seminascosta in mezzo alle altre, e la si legge quasi di sfuggita, ma in realtà si staglia imponente, brilla di luce propria, si accende come una spia sul cruscotto di un’automobile, e accende tutto il contesto. Nausea. Disgusto, dunque, per ogni cosa, perché il mondo non sembra all’altezza dell’individuo che si trova a viverci, a viverlo. Il racconto si intitola “L’angelo del morboso” (“L’Ange du morbide”) e il protagonista, Louis, è quello che con ogni probabilità credo che si potrebbe opportunamente definire, senza timore di apparire menzogneri o esagerati, un essere spregevole, anche se forse già definirlo così è un complimento, poiché gli si conferisce una dignità, una statura malvagia, che non ha: snob, vigliacco, autoriferito fino al parossismo, annoiato, pressappochista, borioso, del tutto incapace di concreti, costruttivi e autentici slanci emozionali, inconcludente, insolente, irritante, ambiguo, vacuo, immaturo, frustrato e frustrante, dalla mente come “un ingranaggio rotto di orologio, che gira alla rovescia” (così non si fa scrupolo di scrivere Sartre), autore di poesie deliranti, che ovviamente gli paiono sublimi proprio perché assurde, insensate e incomprensibili – come se il non farsi capire fosse un pregio… – e che altrettanto ovviamente vengono viceversa di solito accolte con lanci di calamai. Louis è morbosamente attratto dal morboso (di cui però ha anche una grandissima paura), e al cospetto della malattia si esalta come un bambino di fronte a un giocattolo, come se le sofferenze altrui, di cui non si cura per nulla, lo rendessero apparentemente più vivo, gli fornissero un godimento estetico. Il finale, però, a mio avviso straordinario, bruciante, e per certi versi finanche “politico”, è, nello spazio di poche, semplici sillabe, uno schiaffo in pieno viso all’ipocrisia.
Gabriele Ottaviani
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