“Questo volume presenta il sapere nel suo divenire. La ricchezza dei fenomeni in cui lo spirito si manifesta, che a un primo sguardo si presenta come caos, è ricondotta a un ordine scientifico, che li presenta secondo la loro necessità…” (GWF Hegel, Annuncio bibliografico della pubblicazione della Fenomenologia dello Spirito, Bamberger Zeitung, 28 Giugno 1807)
Chi si accinge alla lettura del testo hegeliano prima o poi viene preso da un senso di smarrimento, quando non di sconforto… In “presenza” di Hegel è facile ritrovarsi di fronte a un bivio: o si era capito male quello che si credeva di avere ben chiaro almeno nelle linee generali, o si inizia a temere di non essere nella migliore condizione mentale per affrontare la “leggendaria difficoltà” del pensatore di Stoccarda, non per niente indicato dai suoi contemporanei come “l’Eraclito redivivo”, in quanto “oscuro come l’Efesio”.
A me capita invece una cosa strana…
Ci sono momenti in cui resto come di fronte a un muro spesso e per quanto mi costringa a leggere e rileggere (come Hegel stesso consiglia di fare con i testi filosofici peraltro), sembra valere l’equazione “più leggo e meno comprendo”, mentre in altri momenti, come “d’incanto” (non saprei trovare termine più appropriato), tutto mi diventa chiaro di una chiarezza cristallina, l’insieme come le parti. Ma pur sempre poco traducibile in linguaggio ordinario, tanto che quando cerco di comunicare ad altri le frequenze, questi mostrano non poca difficoltà a sintonizzarsi e nel frattempo il segnale radio si è affievolito. Non so ancora spiegarmi come, ma inizio a credere che per comprendere il testo hegeliano si debba entrare in uno stato mentale particolare… Un diverso stato di coscienza? Il passo coraggioso verso queste dimensioni oscure appunto, a volte davvero “esoteriche” come qualche critico ha ben evidenziato, ha un valore inestimabile, perché altrimenti ci si deve far bastare gli schemi e le sintesi dei manuali, che loro malgrado fanno perdere proprio la ricchezza del testo e le innumerevoli, continue, aperture di senso, incapsulate l’una nell’altra in un ciclo senza fine, che le pagine racchiudono gelosamente come uno scrigno i suoi tesori.
Hegel richiede infatti a chi sceglie di unirsi a lui nel cammino impervio verso il “sapere assoluto” (nel senso etimologico di ab-solutum ossia “sciolto, svincolato”, libero da condizionamenti, come sottolinea il Garelli) non bastandogli il semplice “amore per il sapere”, di mettersi in gioco in prima persona, levandosi di dosso l’abitudine mentale, accettando il travaglio di un viaggio che ricorda molto da vicino quello dello sciamano degli Altai, che prima di raggiungere il “mondo superiore” e molto prima di potersi porre al servizio degli altri accetta di misurarsi con il “mondo inferiore”, dove ordinaria è la presenza di demoni, anime di defunti, creature spaventose / animali guida, in questo processo “negando e conservando” tutto quello che man mano incontra per la via, in un superamento dialettico che può essere metafora della vita reale nel suo svolgersi. E’ infatti il “tutto ciò che accade” che gli interessa prendere con sé (com-prendere) facendone tesoro, perché lui sa che tutto gli potrà servire… Ed è proprio in questo modo che Hegel sembra procedere nella sua “scienza dell’esperienza della coscienza”, racchiusa come in un libro vivo nella Fenomenologia dello Spirito, opera inquieta, “levata” a Jena sotto le cannonate dei Francesi di Napoleone: una scienza che non è “passiva registrazione di dati e impressioni, bensì vera e propria esperienza capace di modificare profondamente chi ne sia protagonista, una filosofia in cammino”.
Secondo Plebe, Hegel si propone “uno dei compiti più ardui che mai abbia affrontato il pensiero filosofico: quello di congiungere i due tronconi essenziali della filosofia, cioè la teoria della conoscenza e quella della realtà”. Se nella Fenomenologia del 1807 realizza una sorta di laboratorio in cui “mette alla prova i concetti e i problemi dell’intero pensiero occidentale”, è con la Scienza della logica del 1812-13 che attua quella radicale innovazione che sta alla base del suo pensiero logico, cioè il tentativo di “unificare i procedimenti soggettivi della conoscenza con le manifestazioni oggettive della struttura logica del mondo, inaugurando un nuovo tipo di logica che si contrappone alla tradizionale logica formale perché ne rifiuta la vuotezza”. Perché per Hegel “la vera logica è sapere concreto”, cioè aderenza alla realtà. Sempre secondo Plebe è proprio il risultato della Fenomenologia ossia “l’identificazione del soggetto con l’oggetto, del processo della coscienza con l’intelaiatura della realtà” a costituire il fondamento più importante della Logica.
E se ci si pone nella prospettiva del superamento della contrapposizione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, tra “certezza e verità”, anche il celebre passaggio sul superamento del principio di non contraddizione perde il suo carattere paradossale. Infatti – prosegue Plebe – “la contraddizione è qualcosa di disfattista soltanto dalla prospettiva di chi isola il processo conoscitivo; ma se invece il processo della conoscenza non è che il rispecchiamento dei meandri della realtà, allora la contraddizione è soltanto la riproduzione del sovrapporsi di due o più ramificazioni presenti nella realtà stessa”. E’ qui che la logica hegeliana si identifica con la dialettica. Non certo quella dialettica arbitraria del “gettar polvere negli occhi e produrre illusioni” o quella dialettica “estrinseca al movimento della cosa stessa”, ma quella dialettica che sola è capace di “comprendere l’opposto nella sua unità, il positivo nel negativo”, dialettica nella quale, “condotte alla loro foce, l’analisi e la sintesi finiscono per coincidere”. Cioè, come mette in chiaro Garelli, una “dialettica non rigidamente schematica, bensì plastica”, perché “proprio questo aveva indotto Hegel ad accingersi alla stesura del suo Sistema della scienza nell’esplicito intento di ridurre alla fluidità i pensieri solidificati”. Come confessa poi la Rodeschini, la dialettica hegelianamente intesa “è un metodo irresistibile, poiché è l’attività stessa dell’assoluto non solo sul piano conoscitivo ma anche sul piano del reale: esso conduce a una conoscenza vera perché è proprio di ciascuna cosa stessa, grazie al fatto che le cose sono, in definitiva, sempre e solo dentro l’assoluto e mai fuori”.
Cosa può significare tutto ciò, oggi, abituati come siamo a “strumentare” e misurare, inferendo le nostre spiegazioni o cercando conferme alle nostre ipotesi da quantità massicce di dati come quelli che escono dalla risonanza magnetica funzionale? Ci aiuta in questo senso Cimatti: “una spiegazione è dialettica quando tiene conto delle interazioni non lineari tra i fenomeni, interazioni che possono dare origine a nuove strutture o nuovi comportamenti che non si trovano – neanche in forme primitive – in nessuno degli elementi che precedono (ma soltanto cronologicamente) le novità”; in realtà “il vero metafisico è il riduzionista che sempre – e quindi secondo una modalità di pensiero non scientifica, ma appunto dogmatica – pretende di spiegare il complesso con il semplice: è proprio il punto di vista riduzionista ad essere metafisico, poiché esso postula una riduzione, mai stabilita sperimentalmente, dei fatti vitali alla pura chimica-fisica”. Per Zbilut sono proprio le dinamiche non lineari, il “caos non deterministico” (non prevedibile nello stato futuro “nemmeno se fosse possibile la precisione infinita”), le discontinuità di sistema o “singolarità”, le perturbazioni interne e… il “rumore” a caratterizzare i fenomeni come la vita, l’evoluzione, la plasticità cerebrale. Da un’altra prospettiva Mayr ribadisce che “i sistemi hanno quasi sempre la particolarità che le caratteristiche del tutto non possono essere – nemmeno in teoria – dedotte dalla più completa conoscenza delle componenti, prese separatamente o in altre combinazioni parziali”.
Che felice intuizione ebbe allora il nostro Golgi – “Nobel dimenticato”, come lo ricorda Mazzarello in un bel volume – nonostante l’evidente errore fisiologico, a immaginare il sistema nervoso non come una giustapposizione di cellule ma come una rete diffusa… Non molto diversamente se lo immaginano forse, da un punto di vista funzionale, quanti oggi si occupano di connettomica o di reti neurali artificiali, per i quali sono più importanti non tanto le singole localizzazioni quanto le connessioni fra le parti e la lettura dei “pattern” o configurazioni dell’insieme. Alla fine non è poi così difficile comprendere come una specifica area del cervello, che si può mostrare attiva per differenza, senza il “resto” non possa nemmeno funzionare: e guarda caso, per quanto ne sappiamo, non vi è ancora a oggi consistente letteratura che abbia indagato a dovere quanto il “resto” o l’insieme possa influenzare e in che modo tale specifica attività. Scienziati del calibro di Bassett e Gazzaniga, chiedendosi ormai se gli attuali strumenti di indagine siano quelli giusti o se sia giunto il momento di prendere in seria considerazione “altre metafore” per comprendere la complessità del cervello umano, hanno ammesso proprio qualche mese fa senza veli che “le neuroscienze hanno un disperato bisogno di nuovi apparati teoretici per risolvere i problemi ai quali si trovano di fronte”.
Il Cervello Hegeliano dunque – per dare conto in una “sintesi” conclusiva dell’accattivante metafora proposta – è appunto un cervello “compresente”, da prendersi contemporaneamente “nell’insieme e nelle parti” (in pluribus unum!), in un’ottica squisitamente integrazionale, dove nessuno e nulla vengono esclusi / inclusi a priori. Sul versante del mentale infine noi crediamo che quella ragione che Hegel definì con termine altisonante e per alcuni fuorviante “speculativa” (ma “speculativa in quanto contiene in sé il doppio senso di un movimento speculare in cui la fissità dilegua nella fluidità della coincidenza fra effettuale e razionale, movimento che Hegel esprime esemplarmente innanzitutto nelle metafore biologiche”, sempre nelle parole del Garelli) sia in realtà una dimensione distintiva dell’umano, certo non ordinaria ma presente in ciascuno e coltivabile, che potrebbe tornare utile nella comprensione del mondo e di noi stessi dentro il mondo, specialmente in un momento di inquietante incertezza come quello che viviamo.
Spero non me ne vogliano i Filosofi veri per questa maldestra “riduzione” dell’immensità della speculazione hegeliana in poche righe e per le avventate analogie. Spero allo stesso modo non me ne vogliano i Neuroscienziati puri per questa “nervosa” (ma pacifica nell’intento) incursione con armi non convenzionali… Personalmente ritengo che il cammino della conoscenza non possa escludere alcuna seria prospettiva (e qualche spunto di confine), specialmente quando ciò che si intende comprendere è l’umano stesso nella sua sfuggevole autenticità. A volte gli avanzamenti operati a livello di pensiero non sono meno importanti delle misurazioni delle macchine, in special modo (forse) nel campo di ciò che abbiamo deciso di considerare scienza.
Marco Mozzoni
Per approfondire:
1. Bassett D.S., Gazzaniga M.S., “Understanding complexity in the human brain”, Trends in Cognitive Sciences, May 2011, Vol.15, No.5
2. Burgio A. (a cura di), “Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi”, raccolta delle relazioni svolte al Seminario internazionale sulla dialettica tenutosi all’Università di Bologna nel Febbraio 2006, Quodlibet Studio, 2007
3. Dunham J., Grant I.H. , Watson S., “Idealism. The history of a philosophy”, Acumen Publishing, 2011
4. Eliade M., “Lo sciamanismo”, Edizioni Mediterranee, 1974
5. Garelli G., “Lo spirito dell’inquietudine”, in: Hegel G.W.F., “Sistema della scienza, parte prima: La fenomenologia dello spirito. Edizione del 1807”, a cura di Garelli G., Einaudi, 2008
6. Hegel G.W.F., “Fenomenologia dello spirito”, Bompiani, 2000
7. Hegel G.W.F., “Scienza della logica”, antologia commentata a cura di A. Plebe e P. Emanuele, Biblioteca Filosofica Laterza, 2001
8. Zbilut J.P., “Singolarità instabili e casualità”, Franco Angeli, 2004