“Il primo, a nostra conoscenza, che abbia orientato la filosofia lungo le strade dell’azione pratica ed abbia raggruppato attorno a sé dei discepoli per trascinarli ad una vita austera, è Pitagora di Samo” (Gustave Bardy)
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Il titolo che Nock dà al suo libro rivela non tanto un argomento psicologico quanto storico. Infatti il fenomeno psicosociale della “conversione”, sia ad una filosofia greca che ad una religione (Nock accomuna e cerca di distinguere le due cose nel capitolo XI del libro), diventa per lui un fatto storico, a motivo del quale si è avuta una vera e propria trasformazione della vita spirituale all’interno del mondo antico ed ellenistico. Afferma: “Se risolvere il mistero di una conversione individuale spetta in ultima analisi allo psicologo, comprendere invece il fenomeno singolare della conversione di un’epoca, della trasformazione di una cultura, è il compito più arduo ed insieme più affascinante che possa toccare allo storico – quando egli è veramente degno di questo appellativo.” L’autore conduce questo studio avvalendosi di più discipline, come la sociologia, la storiografia e la filologia, tutte quelle che concorrono a dare della società e della religione nel mondo antico informazioni più precise e dettagliate. Nel libro s’incontrano anche discipline quali la storia delle religioni classiche e storia del cristianesimo delle origini, la storia della cultura e della società ellenistico-romana e la storia della religiosità e dei culti orientali: vasti ed autonomi campi di ricerca, che tuttavia si fondono in una visione unitaria e coerente dello svolgimento spirituale del mondo antico. Nock eredita la grande tradizione di ricerca risalente a Droysen, ma ha anche presenti i filoni di studi inaugurati da Franz Cumont e di Adolph von Harnack per questa sua peculiarità interdisciplinare. Trattando il periodo storico che va da Alessandro Magno fino ad Agostino, affronta un’epoca cruciale in cui ci fu un vero e proprio incontro tra paganesimo e cristianesimo, nonché la penetrazione in Occidente di una mentalità più mistica e perennemente alla ricerca della “salvezza”; si propone perciò di guardare il processo dall’altro punto di vista, da quello dei convertiti; per usare le sue stesse parole: “Quando il cristianesimo apparve nell’impero romano, attrasse molte persone che conservavano l’atteggiamento tradizionale nei confronti dei fattori ignoti ed invisibili dell’esistenza. Questo processo di attrazione è stato per lo più studiato dal punto di vista cristiano. In questo libro ho invece cercato di considerarlo dall’esterno”. Il punto di vista tradizionale ha infatti relegato l’intera società pagana con le sue forme e i suoi miti a semplice elemento secondario. Nock si propone di fare il contrario: la promessa di perdono dei peccati, colpe ed errori, e di rinascita spirituale, la ricerca della verità e salvezza è un punto centrale di tutte le religioni diffusesi nel periodo ellenistico (“pagane” e non), ma che avvicina la conversione religiosa alla conversione filosofica, un problema significativo affrontato all’interno del libro che ci riporta alla filosofia come stile di vita e come disciplina, un “abbraccio totale” che non coinvolge solo l’intelletto, ma la volontà e i sentimenti.
Profondo conoscitore della filologia classica e della religiosità ellenistico-romana e tardo-antica, l’autore riprende un topos tanto caro nella sua precedente produzione letteraria: l’interesse storico per la cultura e per la religiosità antica (1). A partire da questa linea di ricerca si svolgerà tutta la sua postuma produzione letteraria, risalente agli anni in cui l’autore formò la sua preparazione intellettuale a Cambridge, “un centro fervido di ricerca e di rinnovamento per gli studi religiosi”. In questo libro presenta, partendo dal tema della conversione che ne è il leit motiv, due forme di religione che si vengono a creare nel periodo storico analizzato. La prima religione – che per lui viene ad essere la religione greca -, denominata da lui statica, è descritta come un “sistema di pratiche religiose di una piccola unità sociale dotata di esigenze e di interessi elementari e priva di contatti importanti con altre culture materialmente o intellettualmente superiori”, mentre la seconda, definita da lui dinamica, riponendosi nella coscienza individuale si mostra profetica e propagandistica, tesa a conquistare le coscienze. È proprio all’interno di questa religione dinamica, i cui massimi esponenti sono il giudaismo e il cristianesimo, che, secondo Nock, si radica il tema della conversione. Quindi per conversione, riprendendo le parole di Nock, occorre intendere “il nuovo orientamento dell’anima di un individuo, il suo decisivo rivolgersi dall’indifferenza o da una precedente forma di religiosità ad un’altra; rivolgimento che implica la consapevolezza di un grande mutamento”.
Nel primo capitolo l’autore cerca di delineare la differenza tra “conversione” e “adesione” e parte dal concetto che la religione sia un fatto vitale. Distingue le religioni primitive da quelle profetiche: mentre le prime si contraddistinguono per il fatto che il loro elemento essenziale è la pratica, per le seconde vi è un “profeta” che è spinto dall’intimo impulso di proclamare la verità che gli è stata ispirata da qualcuno che è percepito al di fuori di lui. Tra questi due poli opposti della storia – l’uno statico e l’altro dinamico – esiste un luogo intermedio dove la fede e il culto subiscono un cambiamento dovuto all’evoluzione politica e allo scambio culturale. Pertanto vengono a formarsi nuovi gruppi e nuovi adepti, dove l’elemento che li contraddistingue non è la conversione ma l’adesione, perché non vi era la necessità di intraprendere un nuovo stile di vita in luogo dell’antico in quanto “queste circostanze esterne non spingevano a varcare risolutamente le frontiere religiose, lasciando una volta per tutte l’antica patria spirituale per una nuova, bensì a rimanere a cavallo di una barriera determinata dalla cultura più che dal credo religioso”. Diversamente dal concetto di adesione la conversione viene ad essere per l’autore il decisivo volgersi dell’anima di un individuo verso un’altra forma di religiosità, nella consapevolezza che l’antica forma di religione era errata, mentre la nuova era giusta.
Dopo aver dato in termini generali l’idea di conversione, nel secondo capitolo l’autore presenta l’idea nella religione greca prima di Alessandro Magno. In questo periodo i culti delle città greche non avevano carattere missionario, perché il culto serviva esclusivamente per soddisfare le esigenze di ogni singolo cittadino. Espandendosi gli interessi della città, venivano ampliati anche i suoi culti: “per fare un esempio Atene che aveva rapporti con la Tracia ospitò il culto di Bendis, dea che gli ateniesi avevano incontrato e venerato in Tracia. Col tempo Bendis venne per così dire naturalizzata”. Nei confronti dei culti stranieri i Greci non avevano alcun pregiudizio. Quindi se un greco si trovava in terra straniera rendeva omaggio agli dei locali. In terra straniera non esisteva alcuna ombra di superiorità degli dei greci su quelli locali né viceversa. A seguito dello sviluppo commerciale di Atene subentrarono in Grecia residenti stranieri, ai quali non veniva preclusa l’adesione ai loro propri culti. Al contatto di questi culti stranieri gli ateniesi vennero a conoscenza di certi riti di iniziazione e di purificazione che, a quanto pare, venivano satireggiati nella commedia e celebrati anche in privato. Da quanto detto, in Grecia si palesa, secondo l’autore, “una religiosità senza conflitti e priva di zelo missionario”, caratterizzata dall’ampia diffusione del culto di Apollo, di Dionisio e di Orfeo.
Nei successivi otto capitoli l’autore, affrontando i costumi e le credenze dei Greci e degli orientali dopo Alessandro, sottolinea che questi, venendosi ad incontrare nel periodo ellenistico, subirono una compenetrazione più a livello culturale che religioso. A seguito di tale fusione si istituirono nuove forme miste di culti e di iniziazioni greco-orientali, come ad esempio il culto di Serapide e quello di Mitra. L’autore prosegue affermando che, a seguito della introduzione di nuovi culti a Roma ad opera dei mercanti, dei soldati e degli schiavi, si assistette a un vero e proprio processo di romanizzazione. Un esempio classico è il taurobolium che “sebbene caratteristico di Cibele, non era esclusivamente suo; non aveva alcun fondamento nel suo mito, e non sempre si celebrava durante la sua festività. La gente era attratta dal fatto di averlo visto eseguire (attirava le folle), dalla speranza di ricevere grazie particolari, dal desiderio di dimostrare la propria lealtà verso l’impero, dal piacere di mettersi momentaneamente in vista; forse a volte dal desiderio di dimostrare di poterselo permettere. Vediamo qui il graduale sviluppo di un culto che lo Stato aveva accettato e la sua piena espansione durante e dopo l’età degli Antonini. Esso apparteneva ai sacra publica, controllati dalla commissione di quindici membri”. La stessa cosa avviene per i Baccanali. Il culto in onore di Bacco poteva essere tributato a seguito della decisione del praetor urbanus; decisione che doveva essere approvata da un’assemblea valida del Senato.
In seguito l’autore, chiedendosi in che modo questi culti riuscirono ad attrarre gli stranieri, ne elenca le modalità di trasmissione. Questi tipi di diffusione per l’autore sono i seguenti: la propaganda individuale, l’insegnamento, il culto esteriore, le processioni, i sacerdoti mendicanti, i pubblici penitenti e i miracoli, includendo la loro descrizione nella propaganda letteraria e nell’arte figurativa. Anche il giudaismo, prosegue l’autore, per attirare seguaci si avvaleva del mezzo della propaganda individuale “condotta nelle case dagli schiavi e dai liberti ovvero da conoscenti occasionali”. I culti di Iside e di Cibele venivano trasmessi tramite l’arte figurativa, quella descrittiva e cerimoniale. Anche i sacerdoti mendicanti, per l’autore, svolgevano un ruolo significativo per la proliferazione di questi culti, fra i quali emergono quelli collegati al culto di Cibele e della dea Suria, oltre a quello di Iside. I sacerdoti mendicanti andavano in giro portando le immagini delle dee “danzando come dervisci, ferendosi le braccia con coltelli, accusandosi nel delirio di peccati contro di lei, flagellandosi e quindi elemosinando per conto della dea, capaci talora di far profezie e di invocare dal cielo castighi e punizioni su chi li derideva”. Non esclusa per fare proseliti era anche la modalità della propaganda letteraria che diffondeva ed esaltava il valore dei miracoli compiuti da questi dei. In particolar modo Aristide, nel suo inno in prosa a Serapide, afferma che molte grazie sono state concesse a lui durante le sue malattie e che le guarigioni erano in gran parte dovute ai miracoli. Oltre alle storie dei miracoli l’autore cita l’inno come mezzo attraverso il quale veniva descritto “al mondo intero la grandezza di un dio”. Ci fu sotto l’impero un’abbondante fioritura di inni in versi e in prosa.
Dopo aver passato in rassegna alcuni metodi con i quali i culti e le credenze venivano segnalati all’attenzione degli individui e delle comunità, l’autore affronta il periodo postumo delle conquiste di Alessandro Magno, sottolineando che tali conquiste comportarono l’esigenza di nuovi culti e di nuovi raggruppamenti, per cui ci fu un forte desiderio di nuovi protettori divini e una grande diffusione dell’astrologia che poneva l’uomo di fronte agli universali cosmici, nonché un forte interesse all’immortalità, seguita dalla curiosità per il soprannaturale e dall’anelito della rivelazione in luogo della ragione, per scoprire i segreti dell’universo. Tali culti, prosegue l’autore, incominciarono ad affermarsi fino alla morte di Nerone, acquistando una importanza maggiore nell’età dei Flavi e degli Antonini. Con l’età degli Antonini ci fu un movimento di trasformazione sociale, per cui la classe dominante era reclutata in tutto l’impero sia in Oriente che in Occidente: “troviamo uomini nati nella provincia d’Asia che ricoprono venerande cariche sacerdotali nella stessa Roma”. Con la dinastia dei Severi si assiste a un processo di orientalizzazione. Le testimonianze di Dione Cassio sono significative: “Dione Cassio, che aveva trascorso l’infanzia sotto il regno assai diverso di Marc’Aurelio, pur non essendo un razionalista né uno spregiatore dei sogni e dei prodigi, parla con amara ostilità di Iside e di Serapide, e senza simpatia del tempio dell’africano Libero e di Ercole”
Diversamente dai Severi che avevano ben tollerato il fenomeno del cristianesimo, Decio Traiano intraprese la persecuzione contro i cristiani, accompagnata da “una rinascita positiva del sentimento religioso romano, che continua sotto Diocleziano e i suoi colleghi, malgrado la loro devozione a Mitra come protettore del loro regno (307 d.C.)”. Nel periodo intermedio (120-260) ci fu una relativa importanza delle religioni orientali, nonché dei culti più antichi e un’assenza di teologia e di organizzazione gerarchica. Ne fa fede la testimonianza di Apuleio che, narrando la conversione di Lucio, mostra come venga diffusamente invocata la dea Iside. La fase finale di questo periodo si conclude con le riconversioni al paganesimo da parte dei cristiani. Basti pensare a Porfirio che “secondo una tradizione che non può essere messa in dubbio, era stato cristiano per un certo periodo, e che fece ritorno alla fede dei padri, attaccando il cristianesimo con l’ardore di un convertito”. Della stessa tempra ne è Giuliano: la sua conversione al paganesimo da cristiano fervente “fu dovuta a un ideale culturale vivificato dal sentimento di una missione personale e nello stesso tempo ereditaria; questo sentimento era il risultato di un’esperienza religiosa. Era una ricerca di natura sentimentale e non intellettuale”. Con l’ascesa di Roma venne infatti accentuata la tendenza alla conservazione, in quanto veniva glorificata la saggezza degli antichi e i costumi degli antenati, tanto che “Tacito narra di Agricola, che da giovane aveva mostrato interesse per la filosofia: sua madre, impensierita, si preoccupò che non seguisse quegli studi troppo a fondo. Naturalmente, tutto quanto sapesse di conversione sarebbe stato un’infrazione dell’etichetta: si sarebbe trattato di superstitio, dell’irragionevole entusiasmo caratteristico degli strati inferiori”.
Nel capitolo undicesimo l’autore illustra l’origine e il ruolo della filosofia nella Grecia antica il tema della conversione alla filosofia. Parte dal fatto che la filosofia greca nel mondo antico svolse un proprio ruolo, dovuto “alla particolare natura della religione greca”. Riferendosi ai seguaci di Pitagora, mostra come “la religione e la filosofia erano assai vicine nelle colonie greche dell’Italia meridionale alla fine del VI secolo”. Infatti i seguaci di Pitagora aprirono determinate associazioni allo scopo di reclutare nuovi adepti, dove l’elemento vincolante per questi era l’adesione alle pratiche ascetiche e alle dottrine proprie di Pitagora. Ciò spiega che nel mondo antico l’elemento religioso era unito a quello dottrinale, per cui non era possibile far parte di un movimento filosofico senza “convertirsi” alla pratica e alla dottrina di questo. La caratteristica che contraddistingue il movimento filosofico in genere durante il V secolo è che esso “rimase un movimento didattico, pronto a comunicare le proprie conclusioni ai discepoli, mai tuttavia infiammato dal desiderio di liberare l’umanità dall’errore o di guidarla verso la verità”.
Una vera e propria rivoluzione copernicana si ebbe, invece, con la figura di Socrate che, per amore della sapienza, seguì il suo daimon per raggiungere la Verità nel senso pieno della parola, accettando per questa il martirio: “la sua consapevolezza di una missione che lo portò al finale martirio, il suo costante interesse per la personalità umana e per la ricerca di un fondamento della giusta condotta, la sua capacità di attirare e di influenzare discepoli, tutte queste cose, grazie all’impressione prodotta sui suoi allievi, costituirono il modello degli amanti della saggezza e dell’amore della saggezza, dei filosofi e della filosofia”. Da semplice disciplina didattica, la filosofia acquisì con Socrate prima e con Platone dopo un volto pedagogico di tipo religioso, perché volta a guidare l’uomo verso la Verità. Con questo intento vennero scritti i dialoghi da parte di Platone: “i dialoghi vennero scritti per lo più per dare a cerchie più ampie qualche idea della direzione in cui andava ricercata la verità, per stimolare l’intelletto e mettere in grado gli sparsi individui che si sentivano attratti dalla filosofia di realizzare la loro vocazione”. La stessa accademia fondata da Platone, sebbene presenti una qualche affinità con il pitagorismo – per il fatto che palesa un senso di solidarietà e di profondità religiosa, dall’altra si discosta da quello, perché il fine di questa era la ricerca della verità. Nel mondo antico ci fu una proliferazione di scuole filosofiche e tutte queste occuparono un posto importante ai posteri perché esse da un lato proponevano “interpretazioni comprensibili dei fenomeni”, mentre dall’altro “offrivano una vita ordinata entro uno schema”. La vita pitagorica, come quella orfica, aveva fatto come sua teoria e ideale di vita l’ascetismo religioso. Vediamo quindi, da una parte, come la filosofia è interconnessa con l’ideale religioso e, dall’altra, come il suo ideale religioso si fondi sulla conversione, ossia sul cambiamento della precedente esistenza. Anche lo stoicismo, prosegue l’autore, “aveva motivato la necessità della vita austera e del dominio sulle passioni con la sua dottrina della legge di natura, cui l’uomo deve adeguarsi, e ponendo l’accento sul fatto che questa legge è scritta nella ragione umana, sui valori dei suoi paradossi circa il saggio e (nella sua forma più tarda) sulle buone azioni e, sempre, sulla docile accettazione dell’ordine dell’universo”.
Aristotele nel suo Protrettico esorta alla filosofia, perché per lui il fine dell’uomo è la contemplazione di Dio, per cui “una simile vita sarebbe superiore a quella umana: perché chi vive così, vivrà non in virtù della sua umanità, bensì in virtù dell’elemento divino che è in lui. Se la mente paragonata all’uomo è divina, così è divina una vita simile paragonata a quella dell’uomo; nella Metafisica la contemplazione è l’unica attività di Dio. Questo entusiasmo percorre dopo di lui tutta l’antichità”. Questo è un classico esempio di simbiosi dell’elemento razionale con quello religioso, perché essa nell’uomo sta al fondamento sia del suo ideale di vita filosofico che di quello religioso. Tale motivo ricorre in tutti gli altri filosofi posteriori ad Aristotele, costituendone così il filo di Arianna. Basti pensare a Virgilio, Properzio, Ovidio e Agostino che ne fu particolarmente influenzato dalla imitazione ciceroniana di Aristotele nell’Ortensio. Alla luce di quanto abbiamo detto, la parola conversione quindi è da intendersi, secondo l’autore, anche come liberazione da tutto ciò che impedisce all’uomo una vita di contemplazione. Inoltre, giovandosi dell’influenza dell’insegnamento diretto del maestro, il filosofo era ispirato al pentimento e alla conversione.
Nel capitolo dodicesimo l’autore affronta il tema della diffusione del cristianesimo come fenomeno sociale. Dopo aver accennato alle origini della chiesa l’autore si sofferma in particolar modo sulla figura dei martiri che, per analogie filosofiche – basti pensare a Socrate, Epitteto e ad Apollonio che vengono annoverati tra i martiri perché fedeli ai propri principi e alle proprie azioni – potevano destare interesse nell’immaginazione popolare. Dopo l’autore si appresta a descrivere la visione del cristianesimo proposta da Celso: il cristianesimo viene considerato da Celso non solo come un movimento di massa che non ha legami con la tradizione perché nuovo, ma anche come una società che garantiva la soddisfazione di tutte le esigenze a coloro che ne erano simpatizzanti. Causa del suo successo fu la capacità di soddisfare tali esigenze e non la persona umana di Gesù come viene presentata dai vangeli sinottici. Nel capitolo tredicesimo l’autore tratteggia le dottrine cristiane viste da un pagano. A proposito delle prescrizioni morali cristiane, queste non erano più severe di quelle formulate dalla filosofia popolare, ma erano basate su altre motivazioni ed erano rafforzate dalla promessa “di infondere la forza necessaria per ottemperare alle sue prescrizioni”. Per quanto riguarda il ripudio dell’idolatria, questo era accettabile in minor misura ma in sintonia con il pensiero speculativo. Anche la dottrina riguardante il monoteismo non era estranea agli occhi dei pagani, dal momento che il loro sistema speculativo tendeva a esso. Era accessibile all’ellenismo non solo la storia neotestamentaria della nascita e della morte di Cristo, ma anche la concezione di una potenza divina mediatrice tra Dio e il mondo. Invece una certa opposizione da parte loro incontrava sia l’idea dell’incarnazione di Dio nell’uomo Gesù che quella della risurrezione dei corpi, mentre l’argomento scritturistico delle profezie era largamente accettato per dimostrare le affermazioni di Gesù alla luce dell’unità di tutta la Sacra Scrittura.
Nell’ultimo capitolo l’autore tratta tre tipi di conversioni diverse. Partendo dagli Atti degli Apostoli, dove la conversione è addebitata al concetto del compimento delle profezie e ai miracoli, l’autore passa prima a Giustino, noto apologista del II secolo d.C., per il quale la conversione al cristianesimo rappresenta il culmine di un iter di ricerca intellettuale che si svelò deludente, poi a Arnobio, per cui il riconoscimento della divinità di Gesù lo svincola dagli errori del paganesimo. Mentre in Giustino il tono della narrazione è di tipo difensivo, in Arnobio è di tipo polemico, nel senso che denuncia e al contempo combatte gli errori del paganesimo. Infine per Agostino la conversione al cristianesimo arrivò dopo un lungo processo di introspezione, per cui egli “giunse alla conclusione che il cristianesimo poteva essere intellettualmente rispettabile”.
Cinzia Randazzo
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Note:
(1) Cfr. A.D. NOCK, Early Gentile Christianity and its Hellenistic Background, Oxford 1928; si veda anche A.D. NOCK, Essays on the Trinity and the Incarnation, Oxford 1928.
Articolo coinvolgente.. E soprattutto devo dire che mi piace il look di questa pagina!
Ottima recensione! Sto leggendo proprio questo libro nell’edizione italiana (Laterza, 1973) con prefazione dotta, proliferante e un po’ confusa (specie nel finale) di Mario Mazza. Un pregio di questi scholar inglesi quali Nock, è di affrontate tematiche complesse e intricate come le religioni antiche con grande capacità discorsiva e tenendo in evidenza il lettore medio (quando invece i nostri storici perlopiù hanno in mente i loro pari). Nasce da questa impostazione la scelta di non appesantire con note a piè pagina il testo – che si beve tutto di un fiato – se non corredandolo di alcuni rimandi di note e riferimenti bibliografici alla fine del libro. Eppure il trentenne Nock era ferratissimo in letture latine e greche…. Buon lavoro alla redazione.