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(Gli argomenti di Jorge contro il riso ne Il nome della Rosa di Umberto Eco)
Leggevo recentemente un libro di Walter Burket, “Homo Necans”. Si sta parlando del “rituale” e della sua valenza conservativa. Cito letteralmente:
Forte dell’usanza religiosa è il costume dei padri. E’ dal tempo dei presocratici che si dibatte ostinatamente la questione di come l’umanità sia giunta alle prorpie rappresentazioni religiose, mentre tutti gli individui dell’epoca storica e certamente innumerevoli generazioni dell’età preistorica si lasciarono imprimere la loro credenza religiosa dalla generazione anziana. […] evidentemente, l’importanza dei riti per la perpetuazione delle società umane è stata così grande che, da innumerrevoli generazioni, è diventata essa stessa un fattore di selezione. Chi non vuole o non può sottrarsi ai riti della società non ha alcuna chance al suo interno: soltanto chi è integrato vi agisce ed influisce. Il carattere di serietà dei rituali religiosi diventa qui una reale minaccia: una defaillance psichica di fronte a essi significa la catastrofe personale. Per esempio, un bambino che reagisca alla solennità con la voglia di ridere non sopravviverà in una comunità religiosa. Apollonio di Tiana smascherò d’un colpo un siffatto giovane come posseduto dal demonio; fortunatamente lo spirito cattivo abbandonò subito il giovane atterrito… Abati medievali combattevano il diavolo a veri e propri colpi di bastone, e del resto sino in epoca moderna invalse l’uso della “frusta del diavolo”.
Leggendo queste righe mi sono venuti in mente due elementi. Il primo è un dato personale. Il ricordo di un prete, durante una catechesi, nella mia infanzia. Mi misi a ridere mentre parlava, lui mi guardò come volesse strangolarmi, e disse a tutti in tono perentorio: “Ragazzi, cercate di non ridere mentre parlo. Un po’ è perchè mi mancate di rispetto – non a me, ma all’abito che porto – e poi perchè mentre siamo così in preghiera, il riso non viene da Dio”. Ho un po’ ricostruito, ma queste furono le sue parole lapidarie. Parole che mi ricordano un libro che si è capito poco, un best seller triller-medievale: “Il Nome della Rosa” di Umberto Eco. Qui, Guglielmo di Baskervill (chiamato così anche in onore di Guglielmo d’Ockam, il più radicale nominalista antitomistico del medioevo) ha una discussione con il frate anziano dell’abazia, il venerabile Jorge sul riso. Guglielmo gli dimostra, citando la poetica di Aristotele ed i Vangeli, che il riso non è peccato. L’anziano frate obietta, non sa rispondere, e lancia improperi su Aristotele e sul rivale citando rabbiosamente altri passi della Bibbia. Il libro che poi l’anziano benedettino nasconde, e per il quale uccide, non è altro che il libro perduto dello Stagirita dedicato al “RISO”.
Il riso è critica, e ironia, è decostruzione (vedi Nietzsche e Bataille), magari per costruire meglio, alle volte solo per il gusto di distruggere. Il riso è profondamente diabolico, quindi umano. Come dice l’anziano benedettino: il RISO cancella la paura, ed è sulla paura che si basa il timor di Dio e perciò la fede. Scrive Ortega: “quando insegni, insegna allo stesso tempo a dubitare di ciò che insegni “. Un clima di paura è reazionario, perciò non fa altro che conservare, inalterato, lo stato delle cose. Un ultimo riferimento libresco. Un importante studio di Le Goff sul medioevo, Il rito, il tempo, il riso è utile per mostrare il cambiamento della mentalità medievale all’origine della cultura moderna proprio facendo riferimento al mondo del gioco e del riso, sia nei conventi che nel mondo urbano e contadino.
Condivido: vedi anche il saggio sul Riso di Henri Bergson e l’Umorismo di Pirandello con cui ci sono molte affinità.
grazie! non ho mai letto il saggio di Bergson, quali argomentazioni usa?
19 febbraio 2016
Il Nome della Rosa
Umberto Eco ha affrontato, con palese ridondanza, come tutti i pennivendoli, il tema principale della vita: prenderla a ridere, o rassegnarsi a tutto e allinearsi con una sorta di ottusa rassegnazione? Gli scrittori di professione complicano tutto, per esigenze commerciali, così ciò che dovrebbe concentrarsi in una pagina diviene un romanzo, un trattato, un macigno, perché dalla cultura ebraica proviene ogni forma e sorta di prolissità; cultura ebraica, che, molto più di quanto si dice e si pensi, domina il mondo occidentale con un aumento inesorabile degli zeri.
Il contenuto di un argomento, ridotto ai minimi termini, non si vende perché è troppo comprensibile, mentre un libro è fatto per essere venduto e il suo contenuto è diluito all’eccesso, pur di costituire il “volume”. Il libro così è concepito per essere inserito nei programmi di studio e l’insegnamento diviene un affare, o business. E se qualcuno vuole dire qualcosa di diverso e di più immediato, non può, perché deve “citare le fonti”, essere titolato, oppure presentare una tesi nella quale è da escludersi che possa metterci del proprio. Così ogni insegnamento e ogni letteratura sono distorti, perché chi si esprime deve rendere conto ai canoni dominanti. Il mondo della letteratura e del pensiero è il più reazionario che possa esistere, primo perché chi ha un suo modo di esprimersi non ha vita facile e deve rendere conto a chi pretende che gli autori rispettino “le strutture narrative” e il formato omologato. Secondo perché le idee non possono essere trasmesse, ma soltanto imposte.
Nella natura, umana, la componente femminile, anche degli uomini, vuole che si complichi tutto. Gesù, Nietzsche, Marx, Freud e Umberto Eco hanno detto veramente poche cose, omettendo una visione più sintetica e organica, mentre per volontà del sistema oligopolio, che ha trovato conveniente glorificarli più del necessario, vogliono dominare i nostri pensieri. Mentre soltanto noi dobbiamo costruire i nostri pensieri e la nostra religione.
Gli scrittori affermati, anche di cose scientifiche, mediche e giuridiche, debbono creare inutili neologismi, pur di apparire eruditi, dominare e complicare le cose, per ergersi come professionisti e precedere sempre chi sta socialmente più in basso e non ha bisogno delle loro lezioni. Così nel mondo della fisica s’inventano sempre nuove onde e particelle, affinché gli scopritori e divulgatori possano esserne gratificati e gli spettatori e lettori divengano sempre più delle passive comparse, ovvero dei semplici consumatori di prodotti di cui non si sentiva la mancanza.
Questa permanente minaccia (vedi ad esempio il termine “giuslavorista”), descritta ampiamente da Orwell, accettata dal collettivo per non curanza, blinda la possibilità che chi non è d’accordo ne possa scardinare le fondamenta.
Prendiamo quello che io considero uno dei più grandi palloni gonfiati: Van Gogh: lui appartiene ad un periodo storico figurativo definito “impressionismo”, ma non sarebbe divenuto un fenomeno commerciale ed estimativo se non gli veniva assegnato un genere nuovo: l’espressionismo. Quando qualcuno introduce qualcosa di nuovo può essere definito eretico e bandito, oppure essere definito “innovativo” ed essere premiato da qui ai secoli a venire. E’ stato conveniente assegnare a Van Gogh, che io definisco un pessimo pittore, e non soltanto lui, il secondo titolo, perché chi ha voluto che ciò avvenisse, lo ha reputato conveniente.
Il vero effetto che modifica in meglio la salute anche mentale non è la suggestione indotta, ma l’autosuggestione. Infatti il placebo collettivo non migliora niente, mentre quello individuale può ottenere risultati positivi, perfino imprevedibili.
L’effetto placebo non è circoscritto solo ad alcune patologie, ma si può manifestare nel corso di terapie sia di malattie mentali che di psicosomatiche e somatiche, potendo coinvolgere quindi ogni sistema o organo del paziente.
C’è un particolare che non è mai stato chiarito, neppure dall’autore in oggetto. Un conto è ridere per convenzione, un conto è avere il senso dell’umorismo.
Riferisce un tale che gli torna in mente il ricordo di un prete, durante una catechesi, nella sua infanzia. Si mise a ridere mentre il religioso parlava. L’altro lo guardò, come volesse strangolarlo e avrebbe detto a tutti, in tono perentorio: “Ragazzi, cercate di non ridere mentre parlo. Un po’ è perché mi mancate di rispetto – non a me, ma all’abito che porto – e poi perché mentre siamo così in preghiera, il riso non viene da Dio”. Il prete avrebbe benissimo potuto dire che in tali circostanze il riso è a sproposito e segno di maleducazione, mentre è anche indice di stoltezza. Infatti il riso abbonda sulla bocca degli stolti se è gratuito.
Guglielmo di Baskervill (chiamato così anche in onore di Guglielmo d’Ockam, il più radicale nominalista antitomistico del medioevo) ha una discussione con il frate anziano dell’abazia, il venerabile Jorge, sul riso. Guglielmo postula, citando la poetica di Aristotele ed i Vangeli, che il ridere non è peccato.
Invece il senso dell’umorismo, non dovutamente connesso ala non necessaria risata, se è intelligente è creativo e liberatorio, perché può cambiare le cose, fino a sdrammatizzarle, rendendole meno tragiche, fino a stravolgerle. A questo punto appare semplificato tutto il contorto e confuso percorso di Umberto Eco, il quale doveva esportare un naturale assioma fuori dalle mura del tempio, richiamando l’attenzione del mondo laico a prendere tutto il contesto sociale meno sul serioso. Infatti non c’è cosa più seria dell’umorismo e c’è assai poco di serio e di vero in chi non sa ridere. Ancor peggio è il ridere stoltamente, o il ridere indotto e quindi non spontaneo.
Il riso intelligente è critica, satira, decostruzione (qualcuno cita a sproposito Nietzsche e Bataille), magari per costruire meglio, alle volte solo per il gusto di distruggere. Il riso positivo è profondamente rivoluzionario, quindi umano. Come dice l’anziano benedettino: il RISO cancella la paura, ed è sulla paura che si basa il timor di Dio e perciò la fede. Scrive Ortega: “quando insegni, insegna allo stesso tempo a dubitare di ciò che insegni “. Un clima di paura è reazionario, perché limitativo, perciò non fa altro che conservare, inalterato, lo stato delle cose.
L’umorismo supera la mentalità medievale e concede respiro, evasione e alternative, mentre l’assenza di esso limita la visione delle cose, fino alla più assoluta miopia, come quella dei veristi come Verga e Zola.
L’effetto Placebo di medicinali e battute spiritose e intelligenti è ammesso dalla scienza. Perché la religione vuole essere da meno? Perché persone e trovate spiritose rompono gli argini e la ristrettezza di vedute, aprendo varchi al dubbio. L’umorismo umanizza tutto e amplia la visione delle cose e spesso con i suoi sofismi crea nuove realtà, al servizio di nuovi spazi, che le religioni non vogliono ammettere!
Michele Bettini