Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Saggezza straniera. L’ellenismo e altre culture (Piccola biblioteca Einaudi)
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Nella precedente produzione letteraria dell’autore relativa alla storiografia delle culture, erano già presenti alcuni temi afferenti all’ellenismo. Momigliano tratta questo argomento con l’intento di chiarire il rapporto tra l’ellenismo e le altre culture antiche: la questione di capitale importanza, e così poco affrontata da altri storiografi, di come la Grecia e la sua espansione culturale (non disgiunta da quella politico-militare) fosse recepita dalle altre culture dell’area mediterranea; ma anche il problema contrario: come la Grecia recepisse le altre. Una storia di fraintendimenti, idealizzazioni, osmosi reciproche, contrasti e fascinazioni, tipiche di quella prima grande “globalizzazione” europeo-asiatica che fu l’ellenismo. Il tutto, risalendo a un arco di tempo ben preciso: dal quarto secolo a.C. fino al I a.C. L’immagine di un ellenismo omogeneo fornito da Droysen (il creatore del termine “ellenismo”), come insegna bene Momigliano, è tutta da smitizzare. L’autore ne spiega, con metodo, le dinamiche complesse, mostrando l’intelaiatura fra filosofia, cultura ed eventi socio-politici fra dominanti e dominati. Nella breve prefazione l’autore motiva lo scopo della presente ricerca; scopo che “era quello di stimolare la discussione su di un importante argomento senza indulgere in congetture”. Questo lavoro risponde quindi all’intenzione dell’autore di cogliere, da un lato, l’atteggiamento dei greci nel loro impatto con quattro particolari civiltà (i Celti, gli Ebrei, i Romani, gli Iranici) proprio nel periodo della loro decadenza politica, e, dall’altro, le conseguenti acquisizioni culturali che si generarono in questi tre secoli sotto la spinta della potenza romana, che ereditò la “sapienza greca” dopo averla inizialmente combattuta.
Nel primo capitolo l’autore si prefigge di studiare l’ambito dei rapporti che si crearono tra i Greci e i loro vicini nel mondo ellenistico, proponendosi di verificare “in che modo i Greci giunsero a conoscere e valutare questi gruppi etnici a loro estranei in rapporto con la loro propria civiltà”. Partendo dal fatto che la civiltà ellenistica conobbe la propria egemonia culturale negli anni precedenti al III sec. a.C, mentre invece durante il III e il II secolo a.C. piano piano decadde tale egemonia, l’autore sottolinea che questa decadenza è dovuta al fatto che i popoli vicini, quali Ebrei, Romani, Egiziani, Fenici, Babilonesi e persino Indiani “sfruttarono a un grado senza precedenti l’opportunità di fornire ai Greci, in greco, informazioni sulla propria storia e le proprie tradizioni religiose. Ciò significò che Ebrei, Romani, Egiziani, Fenici, Babilonesi e perfino Indiani (gli editti di Asoka) fecero il loro ingresso nella letteratura greca con contributi loro propri”. L’influenza di questi popoli sull’ellenismo generò un vero e proprio processo di osmosi: da un lato, secondo l’autore, “il pantheon greco accolse più divinità straniere che in qualsiasi altro periodo”, mentre dall’altro “i barbari, dal canto loro, non si limitarono ad accettare le divinità greche, ma rimodellarono a loro immagine molte delle proprie. Si trattò di un sincretismo asistematico che ebbe una riuscita particolarmente brillante in Italia (Etruria e Roma), lasciò un’impronta a Cartagine, in Siria e in Egitto”. Nel corso di questo primo capitolo l’autore passa inoltre in rassegna le popolazioni indigene, rilevando per ognuno, i legami culturali con la civiltà greca: “L’idea di una sapienza barbarica guadagnò consistenza e consenso tra quanti si consideravano Greci. Già nel V e IV secolo a.C., i filosofi e storici greci avevano manifestato un profondo interesse per le dottrine e i costumi stranieri, mostrandosi inclini a riconoscere ad essi un certo valore. La storia degli studi compiuti da Pitagora sotto la guida di maestri barbari si trova già in fonti del IV secolo, e forse più antiche.”
Nel secondo capitolo l’autore, soffermandosi sulle figure di Polibio e Posidonio, mostra come ambedue riflettono affinità naturali con i greci “Se volete capire cos’era la Grecia sotto i Romani, leggete Polibio e tutto ciò che crediate sia Posidonio; se volete capire cos’era la Roma che dominava la Grecia, leggete Plauto, Catone e Mommsen”. Nel terzo capitolo l’autore analizza i rapporti tra i Celti e i Greci, facendo emergere dei punti di contatto tra le due popolazioni, in quanto i Celti subirono il processo di ellenizzazione e i Greci seppero coesistere con le popolazioni celtiche: “i celti si recavano a Massalia per esservi educati nella lingua e nei costumi greci (…) i barbari appresero dai greci anche lezioni di urbanistica. Glanum è divenuto un esempio da manuale di un insediamento celtico in base a criteri greci (…). Gli abitanti di Massalia, dal canto loro, non potevano rimanere insensibili alla civiltà che li attorniava. Secondo Polibio (III,41), essi impiegavano mercenari celtici per la propria difesa, e, secondo quanto afferma Cesare (De bello civili I,34,4) giunsero ad annettere una piccola tribù confinante in funzione di milizia ausiliaria permanente. Sembra che Varrone abbia affermato che al suo tempo Massalia era una città trilingue; le due lingue straniere erano naturalmente il celtico e il latino.
Sempre nel terzo capitolo, Momigliano sottolinea che “i Greci sapevano poco sui Celti. Geografia, istituzioni, economia dei Celti venivano studiate solo da lontano e superficialmente (…). Scarsa conoscenza dei Celti non significava, da parte greca, indifferenza verso di essi”. L’impatto dei greci con le popolazioni straniere provocò, secondo l’autore, il sentimento del patriottismo e della difesa della propria religione: “Patriottismo e religione si combinarono in quella che fu sicuramente una delle reazioni più emotive opposte dai Greci all’impatto di una società straniera. Anche se il sacco di Delfi da parte celtica appartiene alla leggenda, la città di Apollo aveva seriamente corso il pericolo di venire saccheggiata. L’emotività religiosa condusse all’Istituzione dei Soteria, una delle più importanti festività del mondo ellenistico. Un’iscrizione di Cos (Sylloge3 398) esprime l’entusiasmo spontaneo degli abitanti dell’isola nell’apprendere la notizia della ritirata dei Galli da Delfi nel 278; quello fu un giorno di vittoria e di liberazione per l’intero mondo ellenico”. Passando ai Romani, l’autore rileva che se, da un lato, questi avevano dato il “via ad una politica di occupazione del territorio gallico, occupazione (…) che equivalse inizialmente a uno sterminio di tribù celtiche,” dall’altra fu grazie ai romani che i greci intrapresero lo studio dei territori e della civiltà celtica: “lo studio sistematico dei territori celtici fu compiuto dai Greci al tempo dell’egemonia di Roma, e dietro incoraggiamento di quest’ultimo: i risultati possiamo vederli. L’importanza dei nomi coinvolti – Polibio, Artemidoro, Posidonio – corrisponde alla dimensione dell’obiettivo (…). I druidi riapparvero nelle nostalgie dei Galli aristocratici del IV secolo e nelle inattendibili fantasie degli Scriptores Historiae Augustae”.
Nel quarto capitolo l’autore illustra i contatti dei Greci con Gerusalemme, risalendo in parte ai reperti antichi e letterari. Il rapporto fu, a quanto pare, più drammatico rispetto a quello stabilitosi con altre popolazioni. Dai reperti si evince che ci furono “prove dirette dei contatti tra Greci ed Ebrei prima di Alessandro”. Infatti “prima di Alessandro, gli Ebrei sapevano sui Greci qualcosa di più di quanto questi ultimi sapessero su di loro. Dopotutto, i Greci commerciavano in Palestina, ma nessun ebreo commerciava, a quanto pare, in Grecia. Questa differenza non favorì alcuna assimilazione di elementi della cultura greca da parte degli Ebrei”. Passando in rassegna le principali tappe storiche, l’autore evidenzia che mentre nel periodo classico i Greci vissero felicemente senza riconoscere l’esistenza degli Ebrei, “nei primi trenta o quarant’anni successivi alla distruzione dell’impero persiano, filosofi e storici greci scoprirono gli Ebrei. Li descrissero, sia in opere di storia che di fantasia, come saggi investiti di dignità sacerdotale del tipo che ci si aspettava fosse prodotto dall’Oriente. Coloro che scrivevano erano personaggi importanti e credibili”. L’autore conclude che con l’arrivo del terzo secolo a.C. la sapienza ebraica riceve un volto greco: “Verso il 300 a.C. Gli intellettuali greci presentarono gli Ebrei al loro mondo come filosofi, legislatori e sapienti. Pochi decenni più tardi i presunti filosofi e legislatori rivelarono pubblicamente, in greco, la loro filosofia e legislazione”.
Nel quinto capitolo l’autore, continuando ad affrontare la “questione ebraica”, affronta il periodo che va da Antioco II a Pompeo, cioè dal II fino al I sec a.C. Soprattutto con Antioco IV, dopo la dominazione siriana di Antioco III, i rapporti tra Ebrei e Greci si incrinarono fortemente, dal momento che egli “mirava a rafforzare l’esistenza delle città greche e ad accrescere l’ellenizzazione dei suoi sudditi”. Infatti egli proibì agli Ebrei l’osservanza del sabato e la pratica della circoncisione, avendo dedicato il tempio di Gerusalemme a Zeus Olimpio. Con i Maccabei, secondo l’autore, “avvertiamo di trovarci sulla soglia di una nuova epoca, quella della fine della tolleranza e dell’inizio della persecuzione”. Tale mutamento di prospettiva è dovuto a fattori che furono responsabili di questo mutamento. La difficoltà a porre luce sulla situazione è dovuta in larga parte alla povertà e contraddittorietà dei documenti, ma la versione del II Maccabei “costituì la base di una ricostruzione degli avvenimenti ad opera di V. Tcherikover ed E. Bickermann”. Inoltre l’autore volge la sua attenzione “ai soli documenti autentici che si possono far risalire al 167-164 a.C. e che mostrano la dinamica della persecuzione: la petizione dei Samaritani di Sichem ad Antioco IV, riportata da Flavio Giuseppe (Antichità giudaiche XII, 258 sgg.), e il libro di Daniele”. In seguito l’autore, esaminando il periodo post-maccabeo, afferma che gli Ebrei alessandrini interpretarono la Bibbia in senso allegorico, sostenendo che la sapienza greca era scaturita da quella ebraica: “Come rivelano tanto Aristobulo che lo pseudo-Aristea, gli Ebrei alessandrini erano tutto sommato devoti al loro sovrano tolemaico e dispiegavano una specie di patriottismo egiziano. Sappiamo che un altro storico ebreo-egiziano del II sec. a.C., Artapano, presentò Mosè come l’iniziatore del culto egiziano degli animali”
Nel quinto e ultimo capitolo l’autore, a proposito degli Iranici e dei Greci, afferma che “i Greci furono presto coinvolti, praticamente ad ogni livello, nel processo espansionistico dello stato persiano (…). L’ateniese Milziade, quale governatore del Chersoneso Tracio, si trovò ad essere un vassallo del gran re e uno dei comandanti dei contingenti greci nella spedizione contro gli Sciti”. Inoltre l’autore aggiunge che il pensiero filosofico greco possa essere stato influenzato da quello persiano proprio tra il 550 e il 500 a.C. L’autore ricorda che anche quando i Greci vinsero i Persiani, l’impero persiano continuò ad esistere, perché la Grecia aveva acquisito la propria saggezza e rettitudine dai magi: “Erodoto ricorda la scelta di Ciro il grande: «di vivere in una terra povera ed esservi padroni, piuttosto che coltivare terre fertili ed essere schiavi altrui»: si suppone che il lettore ricordi come Demarato avesse spiegato a Serse che la Grecia, grazie alla sua costante miseria, aveva acquisito saggezza e rettitudine, evitando così di essere guidata dispoticamente. Per quanto memorabile fosse stata la vittoria dei Greci, non solo l’impero persiano continuò ad esistere, ma mantenne una forza morale che Erodoto sentì di dover spiegare”. Più avanti l’autore, rifacendosi al periodo in cui la Persia riebbe le redini del potere, afferma che questa deteneva la propria supremazia sulla Grecia e che questa sua priorità rimase indelebile nella fantasia dell’uomo ellenistico. Basti pensare a Platone “che rese la sapienza persiana un genere in voga (…). L’ironico Colote, un epicureo vissuto due generazioni più tardi di Platone, si prese gioco del debito che si diceva egli avesse verso Zoroastro (Proclo, Commento alla Repubblica II,109 Kroll), il che indica che l’esistenza di questo legame era opinione largamente consolidata intorno agli anni 280-250a.C. Si accresceva allora l’interesse dell’Accademia per la sapienza orientale”.
Cinzia Randazzo
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