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Recensire l’ultimo piccolo lavoro di Giovanni Agosti non è semplice; primo perché racconta di fatti e personaggi di un passato recente di cui chi non ho fatto parte, di quegli anni Ottanta che mi sono stati raccontati perché ero troppo piccola per ricordarli. Il testo è tutto incentrato su Milano, una città che a detta dell’autore, vive da parecchi anni una crisi culturale dalla quale non è in grado di uscire. “Questo breve feuilleton critico è stato scritto, di settimana in settimana e a rotta di collo, tra giugno e luglio 2011” ed è comparso in più parti su “Alias”, il supplemento culturale del “Manifesto”, prima di trasformarsi in libello ed essere pubblicato da Feltrinelli nell’Ottobre dello scorso anno.
Il pretesto, se così lo si vuole chiamare, è il sentimento (di stupore ma anche di speranza per un cambiamento di tendenza, per un riaprirsi di certi discorsi, per un ritorno a una Milano capitale vera della cultura) suscitato nell’autore dalla vincita, alle elezioni comunali di Milano, di Pisapia, candidato del PD e il ritorno della sinistra alla guida della città meneghina dopo circa vent’anni di dominio della destra. L’indagine che Agosti compie è prevalentemente rivolta al campo dell’arte, non senza citare e ricordare alcuni tra i maggiori esponenti di cinema e teatro che hanno dato lustro alla città, che ora versa in uno stato di crisi culturale non indifferente. Premessa che mi sento di fare: l’autore parla di fatti di cui è stato protagonista, di cose vissute, rinunciando a tutti i sentito dire del caso. È il suo personale punto di vista, ci vorrebbe forse una risposta da coloro che sono stati citati quali cause di questa disfatta culturale.
Per Giovanni Agosti, tutto ha inizio negli anni Ottanta, quando le cose per Milano hanno cominciato ad andare male: “i nomi dei responsabili della situazione in cui ci troviamo io li so: spesso ne stilo gli elenchi, meccanicamente: qualcuno è morto e qualcuno è vivo, qualcuno ha agito male consapevolmente e qualcuno no; e c’è anche chi si è ravveduto in corso d’opera e ha cambiato cavallo”. Il primo esempio di decadenza è quello delle mostre d’arte: fino agli anni Ottanta, Milano vantava scelte eccellenti, sia per quanto riguardava le tematiche scelte sia per i soggetti esposti. Il Comune di Milano forniva un modello di politica espositiva che poche altre città, non solo italiane, a reggere il confronto. La sede principale, il Palazzo Storico della città che si affaccia su Piazza Duomo, era garanzia di qualità. Si trattava di manifestazioni preparate con un certo margine di anticipo, frutto di studi e di ricerche. Per Agosti è con la prima giunta leghista (1993-1997), e con Philippe Daverio (ricordato per essere un gallerista che in quegli anni aveva chiuso il suo negozio.) nel ruolo di assessore alla Cultura, che a Palazzo Reale si assiste alle prime mostre fatte male e in fretta e furia (anche gli altri assessori, con Sgarbi in testa, vengono più volte criticati per le loro scelte). Uno stacco consistente rispetto alla tradizione anche per i soggetti scelti: da mostre dedicata all’arte antica si passa a mostre di artisti viventi. In quegli anni chi fa cultura vera a Milano è la casa di moda Prada che organizzava, gratuitamente, nelle sue strutture, mostre davvero ben fatte. Anche la fondazione Trussardi, in tempi più recenti, interviene in questo panorama e organizza mostre ed eventi che fanno discutere (come il caso dell’opera di Maurizio Catellan con i bambini in vetroresina impiccati all’altero più antico delle città). Uno scambio di funzioni che dovrebbe far riflettere. Agosti non le manda a dire neanche alle case editrici che si occupano di cataloghi di musei e mostre d’arte: Electa e Skira vengono a più riprese tacciate di essere mediocri, i volumi pieni di errori e di privilegiare gli aspetti di vendita a quelli di un buon lavoro scientifico.
Critico è anche verso il teatro: l’unica opera degna di nota degli ultimi anni è il debutto a La Scala, il 7 dicembre 2007, del Tristano e Isotta di Wagner, diretto da Daniel Barenboim e messo in scena da Patrice Chéreau: “l’eccellenza del Tritano stava nella forza del pensiero dietro lo spettacolo, nella cura di ogni dettaglio, nella moralità che aveva sorretto il lavoro della messinscena, nella preparazione meticolosa, durata anni”. Vano è ricercare qualcosa che sia all’altezza in tutto il panorama teatrale degli ultimi anni, non c’è nulla che possa anche solo vagamente ricordare la Milano brillante e culturalmente attenta di Strehler, di Gadda. Anche nel 2010 si è potuto cogliere un sentore di ritorno al passato, al grande teatro milanese con Dalla casa dei morti di Janàček per la regia di Chéreau (di nuovo), ma “che la platea non fosse strapiena esorta a qualche riflessione sui reali interessi culturali nella Milano di oggi”.
E qui si inserisce un altro aspetto che emerge a più riprese in tutto il libro: il fatto che mostre ed eventi raffazzonati all’ultimo momento, che puntano su nomi famosi ma che non hanno alle spalle un serio lavoro scientifico attirino tanto pubblico mentre teatri e musei seri, che si prodigano per far crescere la vera cultura, restino vuoti, è testimone di un cambio di mentalità non indifferente. Nel testo molte sono le citazioni di mostre d’arte ricordate per aver “fregato” il pubblico proponendo opere di Leonardo, Caravaggio e altri artisti dal nome fortemente risonante, con tanto di pubblicità pressante, che in realtà non erano opere originali, opere che la critica aveva attribuito al suo reale esecutore. Molte sono le mostre anche che, con titoli impropri, attirano molti visitatori e vedono solo il giubilo degli amministratori locali. Perché, purtroppo, oggi è di soldi che si parla, non più di veridicità e scientificità di una mostra o di un evento. Ma in incassi, di numero di visitatori. Un peccato per chi l’arte la ama davvero e vorrebbe trovare davanti ai propri occhi qualcosa che lo sconvolga per la potenza del suo messaggio.
La Milano di oggi è un miscuglio di gente incompetente, vogliosa di farsi ricordare per qualche pubblicazione scontata e di poco conto; i funzionari sono sempre più vecchi e disillusi, sempre pi privi di entusiasmo e di mezzi e, spesso, inclini alla ricerca del quieto vivere. Forse è la descrizione più triste che si possa fare di chi deve saper investire in cultura. Dopo il capitolo sulla favola triste di Brera, il più grande museo della città, gestito da poco validi funzionali, Agosti si concentra sull’ultima grande opera milanese: il Museo del Novecento in Palazzo dell’Arengario, che chiama “L’albergo del Novecento” per la sua grande somiglianza con un noto albergo nelle vicinanze (che lo faccia assomigliare a un albergo è anche la presenza di numerosi dispenser per igienizzare le mani, quasi come i dispensatori di ghiaccio nei corridoi di alberghi con qualche stellina). Inaugurato in pompa magna, il museo è brutto, per l’allestimento, per l’inadeguatezza degli spazi, in risposta a quei visitatori frettolosi e alla moda di oggi di un consumismo rapido.
Non si può certo dire che tutto ciò che Agosti scrive sia accettabile, ognuno ha un proprio modo di vedere le cose, alcune opere teatrali, cinema o mostre d’arte possono piacere al di là della preparazione veloce o del catalogo incompleto. Ciò che colpisce è osservare come una città del calibro di Milano non riesca a risalire la china e riportarsi in quella situazione di prestigio che in passato ha assunto, osservata speciale da tutta Europa e invidiata da non poche altre città. Non è facile leggere il testo, il susseguirsi di eventi e di nomi a volte è così veloce da perdere il filo. Sarebbe bello se coloro che vengono citati per le loro discutibili scelte provassero a rispondere, un dibattito sulla situazione in cui versa la città non farebbe male a nessuno. A patto che sia alla base ci sia la volontà di riportare in alto Milano.
PS: non tutti quelli che sono stati criticati e giudicati da Agosti risultano essere citati direttamente nel testo. Se osservate l’indice dei nomi troverete che ci sono molti più nomi di quelli che avete letto nel testo; basta osservare il numero posto accanto al nome per capire a quale pagina fanno riferimento e poterli collocare sulle rovine di Milano.
Molto interessante il punto di vista di Giovanni Agosti. Una critica costruttiva che deve essere presa in considerazione se si vuole ripensare e riportare a tutti la cultura nella società odierna
Interessanti osservazioni su Milano.
Sto facendo una cronologia su un’Opera ‘La Sacra Famiglia con San Giovannino, S.Anna e san Giuseppe’ e sto riscontrando innumerevoli contraddizioni. Attribuita dall’Ambrosiana a BERNARDINO Luini da donazione di Federico Borromeo nel 1618, sequestrata dai Francesi nel 1796 ed esposta al Louvre e restituita dagli dagli stessi all’Ambrosiana nel 1823.
Nel frattempo nella cronologia di Milano 1821-1830 abbiamo ‘La Sacra Famiglia’ di AURELIO Luini che si trovava nel già’ Ospizio dei Certosini venduta a certo Giacomo Melzi il 31 Gennaio 1792.
Parallelamente a questa cronologia di avvenimenti in Italia abbiamo una cronologia di avvenimenti parallela in Francia e Germania.
tra il 1780-1797 abbiamo l’acquisto da parte del Museo Galleria di Kassel (Germania) di due opere La Leda e il Cigno del Giampietrino e la Sacra Famiglia del Luini dal Museo allora attribuiti al Leonardo da Vinci. Le due opere La Sacra Famiglia e la Leda furono sequestrata dalle truppe Napoleoniche nel 1806 e la Sacra Famiglia donata alla moglie di Napoleone Giuseppina e riapparse nel 1825.
Dal 1825 al 1850 entro’ in possesso al Re d’Olanda e fu tramandata per via ereditaria ai suoi discendenti fino al 1967. Per ricomparire un decennio fa ad un’asta Sotheby a Milano.
L’opera che circolava tra la Francia e la Germania e’ oggi classificata di seguace del Luini e si basa in scala 1:1 al Cartone del Leonardo attualmente presso la National Gallery di Londra.
Abbiamo quindi due opere identiche con due storie parallele completamente differenti in quattro paesi diversi. Con tre autori diversi: Bernardino, Aurelio e Seguace.