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Amartya Sen, filosofo e premio Nobel per l’economia (conseguito nel 1998 per i suoi studi sull’economia del benessere e per il suo impegno ad una economia etica) presenta in questo libro il suo particolare approccio alla giustizia, che potrebbe essere definito una “teoria della scelta sociale della giustizia”. Questo approccio sfida il modo stesso in cui la filosofia politica tende tradizionalmente ad affrontare il problema. Giustizia, per Sen, è una valutazione comparativa piuttosto che la costruzione di sogni idealistici. L’autore dichiara: “la domanda ‘cos’è una società giusta?’ non è un buon punto di partenza per una utile teoria della giustizia”. Il libro ha quindi un titolo piuttosto ironico, se l’approccio di Sen è ben lungi dall’esporre una “idea” di giustizia. L’obiettivo dichiarato della teoria di Sen è l’effettiva riparazione all’ in-giustizia, piuttosto che la costruzione di una teoria di ciò che la giustizia esige. Sen descrive il suo lavoro come “una teoria della giustizia in senso molto ampio“. Il libro, uno dei capisaldi dell’attuale discussione sui massimi sistemi socio-politici, è enorme, non comprende solo una teoria della scelta sociale della giustizia, ma anche la razionalità economica, il ragionamento del pubblico, i limiti dell’ oggettività etica, la democrazia, i diritti umani, le capacità dell’uomo, il benessere umano e la necessità di una giustizia globale. Questa forza è nello stesso tempo una debolezza, perché alcune sezioni non sono sufficientemente sviluppate. In particolare, la sua teoria della scelta sociale della giustizia – il suo contributo più importante – si limita ad un unico capitolo, e richiederebbe un’ ulteriore elaborazione (che, comunque, è avvenuta in altri libri del maestro indiano). Criticherò i capisaldi della sua teoria e ne mostrerò i principali punti deboli. Nonostante i limiti che mostrerò, questo libro è meravigliosamente lucido e leggibile, ed è molto accessibile ad un pubblico già abituato a simili questioni. Sen scrive amabilmente, con un tocco di storia e una prospettiva umanista veramente globale. Aneddoti di storia e di letteratura indiana forniscono illustrazioni di punti di vista accanto a quelli di Shakespeare, Dickens e altri campioni letterari. Sen crede che la missione di economisti e filosofi sia quella di migliorare il mondo, e il focus sul progetto reale di migliorare l’umanità è evidente in tutto il lavoro. Il suo approccio richiama l’attenzione sulla effettiva capacità di tutti gli esseri umani di condurre una vita appagante, e il suo umanitarismo laico è evidente in tutte le pagine.
Sen contrappone due modi di pensare sulla giustizia: l’ “istituzionalismo trascendentale”, che comprende la maggior parte della filosofia politica contemporanea, e “la realizzazione incentrata sul confronto”, che caratterizza il suo approccio. Per far risaltare questo contrasto, Sen richiama una vecchia distinzione dalla letteratura sanscrita che riguarda l’etica e la giurisprudenza. In sanscrito classico, la parola “giustizia” ha due forme: “niti”, che si riferisce alla appropriatezza organizzativa e alla correttezza del comportamento, e “nyaya”, che delinea invece un concetto globale di giustizia che si è realizzata. Mentre Rawls e altri si concentrano su “niti”, Sen richiama la nostra attenzione su “nyaya”. Tesi centrale di Sen è che la giustizia riguarda le scelte reali per migliorare le vite umane. L’approccio di Sen alla giustizia sembra indirizzarci alla pratica e alle valutazioni comparative, piuttosto che essere un filosofeggiare astratto, e ricorda l’undicesima tesi di Marx su Feuerbach, “i filosofi hanno solo interpretato il mondo, il problema è di cambiarlo”. Ciò che alimenta la comune percezione di ingiustizia, egli osserva, non è il fatto che il mondo sia lungi dall’essere giusto, ma piuttosto il fatto che esistono ingiustizie evidenti e rimediabili, che vogliamo eliminare. Quindi, “giustizia” per Sen è di tipo comparativo, non trascendentale.
Tuttavia, anche se questo tema è ripetuto in tutto il libro, vi è una certa ironia nel fatto che questo lavoro rimane un saggio di filosofia politica, poco indirizzato alla politica o al mondo reale, a cui Sen vorrebbe tuttavia guidarci. Da un lato, la sua teoria della giustizia non dà nessun ideale, nessune alternative. Dall’altro lato, Sen ha poco da dire su come le ingiustizie potrebbero essere sanate, nonostante le sue pretese metodologiche di incentrarsi sulle ingiustizie vere e proprie. Sen non fornisce alcuna indicazione di come la giustizia possa essere raggiunta; lascia quindi la riduzione delle ingiustizie all’esercizio della ragione pubblica. Giustizia, a quanto pare, è ciò che emerge dall’esercizio della “ragione pubblica”, anche se questo non darà alcun risultato finale positivo. Mentre Rawls accetta che l’unanimità possa essere impossibile, tuttavia offre comunque le sue ragioni per pensare che la giustizia come equità sia la migliore teoria finora elaborata. Sen invece sembra non avere nulla da dire sui meriti relativi alle diverse concezioni di giustizia, o su come la giustizia possa progredire nel mondo. Per un lavoro che si concentra su una teoria pratica di giustizia, questo è a tratti un po’ frustrante.
Sen mostra la pluralità delle ragioni sulla giustizia con un esempio. Consideriamo tre bambini che litigano per un flauto. Anne sostiene che dovrebbe avere lei il flauto perché è l’unica capace di suonarlo. Bob dice che dovrebbe essere dato a lui, perché è povero e non ha giocattoli. Carla ha trascorso molti mesi lavorando per farlo, e sostiene che dovrebbe esser dato a lei come frutto del suo lavoro. Come facciamo a decidere tra queste affermazioni? Sen risponde che non potremo mai ottenere una gerarchia finale di valori plurali. Di conseguenza, non vi può essere una soluzione chiaramente identificabile e perfettamente giusta, sulla quale far convergere un ragionamento imparziale.
Come allora decidere tra rivendicazioni diverse? Sen sostiene che possiamo fare valutazioni comparative senza un metro fisso. Per scegliere tra un Picasso e Dalì, egli scrive, è di scarso aiuto che il quadro ideale sia la Monna Lisa. Come Sen riconosce all’interno del libro, il confronto con l’estetica potrebbe essere difficile, data la sua soggettività intrinseca e indeterminatezza. Il confronto con l’arte viene così sostituito con l’altezza: per realizzare che il Monte Everest sia il monte più alto non è utile confrontarlo col Monte Kilimanjaro e il Monte McKinley. Ma anche qui il paragone è difficile: l’altezza è di natura relativa, e non è un concetto contestato. La giustizia lo è. Mentre è inutile avere uno standard definitivo di altezza per valutare altezze relative, può ancora essere necessario disporre di uno standard definitivo di giustizia per giudicare le ingiustizie relative. Gli argomenti di Sen contrari a questa idea, a mio avviso, non riescono a persuadere quelli che propendono per la teoria trascendentale. Anche se le classifiche e le gerarchie di valori saranno sempre solo parziali e limitate, è fondamentale per l’approccio di Sen che qualche classifica parziale sia possibile. Tuttavia, questo è più affermato che dimostrato, e Sen non offre alcun suggerimento su come queste classifiche parziali potrebbero essere realizzate.
La teoria della scelta sociale della giustizia ci orienta a porre rimedio a evidenti ingiustizie (es: la criminalità), ma ci offre poche indicazioni nel caso di altri tipi di ingiustizia. Questa non è necessariamente una critica: la messa a fuoco sull’ “ingiustizia di base” nel lavoro di Sen è in grado di fornire un programma politico radicale, e non è affatto un compito banale rimediare a molte ingiustizie di base che egli cita, come l’assenza di garanzia di cure mediche, la denutrizione dei bambini, la sottomissione delle donne, le carestie continue (di cui lui è un esperto) contro un mondo occidentale opulento e in preda al consumismo. Tuttavia, mentre una teoria puramente comparativa di giustizia è sufficiente in casi estremi di ingiustizia, sembra di poco aiuto quando ci troviamo di fronte a tante ingiustizie che sono meno evidenti, ma altrettanto basilari. La sua tesi che l’idea trascendente di giustizia non sia sufficiente è ben giustificata, ma l’argomento che non sia necessaria sembra problematico e non è sufficientemente difeso. Il pluralismo ha dei limiti: se ammettiamo e distinguiamo una pluralità di ragioni e la loro relatività, potremmo voler dire che, sebbene il pluralismo è un fatto della vita, forse ci sono ancora ragioni che hanno più peso di altre. Nel suo esempio dei tre ragazzi che litigano per il flauto, si accontenta di dire che questo dimostra la pluralità di ragioni, piuttosto che sostenere che alcune particolari classifiche di valori potrebbero essere preferibili ad altre.
Per esempio, i tre bambini, cresciuti, potrebbero concludere che la ricompensa per il lavoro svolto, il divertimento e l’uguaglianza sono valori tutti e tre importanti, ma per risolvere il problema potrebbero anche decidere che la ricompensa per il lavoro è meno importante degli altri, dato che la gente può prendersi il merito solo per una parte di quel lavoro, poiché la genetica, l’educazione e le altre contingenze di nascita determinano in maniera considerevole le possibilità di vita di una grande quantità di persone. L’obiettività è cruciale per una teoria della giustizia: per Sen essa si ottiene da uno scrutinio motivato di prospettive diverse. Su questo punto, Sen offre un eccellente argomento che prende dall’idea di “imparzialità” di Adam Smith. Distingue un’imparzialità “chiusa” da una “aperta” e sostiene che la cernita delle ragioni plurali richiede una particolare sensibilità verso gli altri: richiede il prendere atto dei punti di vista diversi altrui, al dilà del nostro “quartiere”, delle nostre stratificazioni sociali e di classe. Abbiamo bisogno di estendere il nostro “senso di quartiere” al di là dei suoi confini attuali. La giustizia deve quindi essere globale.
La teoria di Rawls sulla giustizia figura quasi ovunque, di solito, come il punto di partenza rispetto al quale Sen contrappone il proprio approccio. Nella sua critica di Rawls, tuttavia, Sen sottolinea un po’ troppo il contrasto. Critica prima il “trascendentalismo” di Rawls, per poi scrivere che nei suoi ultimi scritti Rawls ammetta che il contenuto della ragione pubblica non è dato da una concezione unica di giustizia, ma da molte. Sen poi sostiene che l’ammissione di Rawls mini il grande progetto in cui Rawls era impegnato. Ma qui l’argomento di Sen è piuttosto debole. Egli non chiarisce il perché il “progetto rawlsiano” sarebbe distrutto con l’ammissione di un’incertezza sulla realizzazione di un accordo unanime. Non è chiaro perché la giustizia come equità debba essere abbandonata una volta che accettiamo la presunta ritrattazione di Rawls. Anche se Sen non è assolutamente reticente dal mostrare il suo debito intellettuale verso l’amico Rawls, la sua critica spesso sembra essere incentrata sull’ abbattere, come si direbbe nei paesi anglosassoni, un “uomo di paglia”, enfatizzando i contrasti. Il capitolo del libro dedicato a Rawls è, per chi scrive, il più deludente del libro.
Francesco Lorenzi