“Ho sostenuto che una concezione del compito della filosofia legata alla medicina, volta ad alleviare le sofferenze umane, porta a concepire in modo nuovo il metodo e la procedura filosofica; e che le scelte del metodo e della procedura non sono, come alcuni potrebbero supporre, neutre rispetto al contenuto, ma strettamente connesse con una diagnosi delle difficoltà umane e con una concezione intuitiva di cosa sia la fioritura dell’umano. Ho tentato di dimostrare che in ogni caso le procedure incarnano concezioni complesse di cosa sia salutare e cosa sia malattia, nonché dell’amicizia e della struttura della comunità […] Ma, per scendere nello specifico, quali penso che siano stati i guadagni metodologici di queste scuole, sia rispetto al loro contesto storico che al nostro modo di intendere le modalità in cui dovrebbe funzionare una filosofia morale?” (Martha Nussbaum, Terapia del desiderio)
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La filosofia torna a parlare della vita. E lo fa con una voce femminile. Ripercorrendo ed ampliando il percorso straordinario di Pierre Hadot, questo è infatti uno studio insolito di filosofia greca, scritto da un essere umano, sugli esseri umani, per servire agli esseri umani. Quando la professoressa Martha Nussbaum scrive “Lo scrittore e docente di filosofia è una persona fortunata, fortunata come possono esserlo pochi esseri umani, per essere in grado di spendere la sua vita esprimendo i suoi pensieri più gravi e sentimenti”, sta parlando di un privilegio che spetta a molti umanisti di professione, ma che generalmente non è esercitato. Forse per il sospetto che la filosofia possa abbassarsi alla vita, comunicando e spiegando con un linguaggio quanto più possibile chiaro (ma non per questo semplice) problemi e forme di vita che fanno parte della nostra esperienza quotidiana. Le sue convinzioni, la sua missione filosofica forniscono una prospettiva entro la quale le più profonde perplessità non sono mere astrazioni teoriche, ma dei tentativi di vivere. La Naussbaum riprende in questo libro un concetto antico quanto dimenticato, la filosofia come terapia e medicina dell’anima, messa in paradigma da un famoso passaggio di Epicuro: “E’ vuoto l’argomento di quel filosofo che non riesca a guarire alcuna sofferenza dell’uomo: come non abbiamo alcun bisogno della medicina se essa non riesca a espellere dal nostro corpo le malattie, così non abbiamo alcuna utilità della filosofia se essa non riesce a scacciare le sofferenze dell’anima”. Il suo coinvolgimento personale in questa “missione” filosofica la rende un esponente di quel gruppo di intellettuali (ancora esiguo) che imbarazzano la maggior parte di noi con la pretesa di “fare del bene”. I filosofi ellenici ed ellenistici che lei con tanta competenza riaffronta hanno fatto appello alla pura curiosità intellettuale e alla teoria pura molto meno rispetto al più autentico desiderio di prendere la vita in mano e scappare, resistere al dolore di cui è erede la condizione umana. L’obiettivo generale della filosofia greca non erano i piaceri mentali dell’uomo democratico di Platone, figuriamoci l’estasi intellettuale del suo vero filosofo, ma la liberazione dalle passioni doloroseche distorcono la nostra percezione nel mondo e rovinano il nostro equilibrio con gli altri e con l’ambiente in cui viviamo.
Come la Nussbaum spiega bene, è una caratteristica della “filosofia come terapia” quella di adattarsi alla personalità del destinatario. Seneca scrive le sue epistole non ad ogni uomo, ma a “Lucilio”, un personaggio forse immaginario al quale dà degli specifici consigli; Seneca indirizza pure il suo saggio sulla rabbia a suo fratello, “un uomo pubblico, non filosofo” al quale lo stoico “distacco” potrebbe sembrare una negazione dei valori romani di impegno pubblico e civile. Nussbaum si presenta romanzescamente come una novella “Nikidion“, la giovane donna che, fra le altre, faceva parte della scuola di Epicuro e che, molto probabilmente, non sarebbe mai potuta entrare in quella di Aristotele, creata per i giovani rampolli greci. Oltre ad essere una donna (certo un handicap per alcune scuole), la novella Nikidion-Nussbaum assume camaleonticamente diverse caratteristiche mentali per diventare una allieva adatta per ogni scuola che visita. Passa anche fra gli Scettici, sperimentando l’assenza di discriminazioni di genere e al contempo una coscienza di classe, ma anche, purtroppo, l’indifferenza politica. Coinvolgendo riflessivamente se stessa, e mostrando come questi filosofi si siano impegnati con gli individuie si siano rivolti a degli individui, Nussbaum ci coinvolge in discussioni umane e filologicamente motivate. Diviene, assieme a Nikidion, sua alter ego, una oratrice tra i filosofi e le scuole dell’antichità.
Con una sensibilità pari solo alla sua capacità di entrare nello specifico delle questioni, Nussbaum ci regala tre capitoli dedicati al grande poema filosofico di Lucrezio (sull’amore, la morte, la violenza), e alcuni capitoli separati dedicati al pensiero di Seneca sulla rabbia, in particolare uno dedicato alla famosa tragedia senechiana di Medea. Con un linguaggio abbastanza comprensibile anche da coloro che non sono avvezzi agli inutili tecnicismi lessicali dei filosofi di professione, Naussbaum si rammarica della tendenza al dogmatismo paternalista degli epicurei, e comprende il perché le stoico Crisippo, esasperando Galeno, concretizzi le sue dotte analisi facendo ricorso a cliché e aneddoti: ha preferito, esattamente come lei, uno stile di esposizione che avrebbe portato il lettore comune a famigliarizzare con lui. Proprio lo stile della Nussbaum è sempre eloquente e colorito, variabilmente elegante. La frase “si può dubitare che una donna nelle posizioni bizzarre spesso raffigurate sulle pitture vascolari potesse fare esperienza di un piacere diverso da quello della realizzazione atletica” è di per sé compiuta e chiara. Al contrario, ”l’amante, per la disperazione della sua passività, si costruisce la falsa credenza che attraverso il sesso si possa mettere fine al desiderio che lo mina, ottenendo il controllo completo sulla sua origine smisuratamente separata e incontrollata” è già più complicata. Nello stile e contenuto, Nussbaum è infatti proteiforme e varia come Nikidion. La passione si alterna alla ragione anche all’interno di una singola pagina. Eppure, un correttore di bozze nel suo caso potrebbe causare solo una perdita, mai un guadagno: il suo è uno stile variegato che rivela un volto umano, molto meglio di una prosa senza volto che rispecchia la maschera di un accademico.
Il pensiero dell’autrice riguardo le emozioni si dispiega in un ampio contrasto: la falsa visione è che esse siano “picchi di ciechi affetti, agitazioni o sensazioni”, identiche a “reazioni corporee”. La rappresentazione più aderente ai fatti è invece che esse siano “un elemento conoscitivo importante” che incarna “modi di interpretare il mondo”, forme di consapevolezza intenzionale intimamente legate alle credenze e in questo modo correttamente valutabili come razionali o irrazionali, e come vere o false. Questo può aiutare a distinguere diversi livelli di “conoscenza”: (1) una capacità non-linguistica di investigare gli oggetti e di reagire differentemente rispetto a loro; (2) la capacità linguistica di sussumere oggetti sotto concetti, (3) credere che un oggetto cada sotto un concetto, (4) riconoscere che un oggetto cada sotto un concetto. Alla prima capacità (secondo gli stoici) apparterrebbero gli animali, alla seconda, terza e talvolta alla quarta, gli uomini.
Una delle fonti principali del lavoro della studiosa è Galeno (De placitis Hippocratis et Platonis). Egli opponeva a ciò che riconosceva come le vecchie verità di Platone e Aristotele le “perversioni” dello stoico Crisippo. Contro l’affermazione stoica che le emozioni siano perversioni della ragione, Galeno riafferma lo schema Platonico secondo il quale la maggior parte delle quali appartengono all’anima irrazionale, ulteriormente suddivisa tra spirito e l’appetito. E lei scrive: “Non possiamo comprendere fino in fondo l’agonia complessa di questi conflitti, se minimizziamo il loro contenuto cognitivo, pensando in termini di forze contendenti. Devono essere visti come lotte urgenti della ragione con se stessa”. Ma la figura cruciale non è Galeno, ma Posidonio, uno stoico tardo che ha tentato di conciliare le visioni dei diversi contendenti, insegnando a sospettare delle semplicistiche riduzioni. Galeno testimonia che questo “strano stoico” permise alla ragione di conversare con lo spirito, attribuendo allo spirito e all’appetito dei propri oggetti del desiderio, dunque, ammettendo come “ragionevole” l’irragionevolezza umana. Nussbaum scrive: “Si avvicina più di ogni altro ad una visione non-cognitiva delle emozioni”, e corregge il tiro dicendo “ritiene che le emozioni possano essere modificate da una terapia cognitiva”. Le sue emozioni hanno un duplice aspetto: come movimenti fisiologici, sono particolarmente influenzati dalla musica, ma, come degli stati mentali, possono anche rispondere alle rappresentazioni razionali.
Nussbaum ha difficoltà anche con Aristotele, che è davvero ambivalente. Anche se molto sbrigativo nel De anima, segue Platone nel suddividere il desiderio. Nussbaum ritiene incoerente che l’Etica Nicomachea chiami le emozioni “irrazionali”, e trova “un po’ sorprendente” che sia disposto a creare una divisione dell’anima tra ragione e irrazionalità. L’autrice spiega che “irrazionale” può significare due cose: (a) che non prevede il pensiero, o (b) che coinvolge quel pensiero che è sempre inaffidabile e falso. Ma Aristotele non può essere coerente: non lo è (a) perché definisce le emozioni come implicate col le credenze. E non lo è perché (b), queste emozioni potrebbero essere corrette. Lo stesso discorso deve essere fatto per Platone e Posidonio. Sono tutti incoerenti? Le emozioni possono essere allenate a seguire la ragione, ma non seguono automaticamente i nostri migliori giudizi razionali. Sono quindi nel campo dell’akrasia (l’aristotelica mancanza di autocontrollo o debolezza della volontà): posso perdere il mio autocontrollo anche se so che non dovrei. Anche le emozioni “educate” ed “allenate” non appartengono alla ragione, nella maniera in cui i loro obiettivi e le loro soddisfazioni sono spesso slegati da essa. La Nussbaum rivela così quel conflitto così diffuso nell’antichità, fra l’intellettualismo etico (lo sbaglio dipende dall’ignoranza) e quelle scuole che coinvolgevano invece la debolezza della volontà. Un dissido che riesploderà in epoca cristiana.
Per la Naussbaum, anche se la schematica tripartizione dell’anima non sembra abbia funzionato bene, il quadro generale delle emozioni che essa struttura sembra adeguatamente complesso. Una volta che concediamo agli Stoici più ortodossi un avversario che non sia un uomo di paglia, è meno facile, ma anche più interessante, riflettere sulla loro motivazione di fare, del nocciolo di ogni passione, un atto di assenso della ragione. Essi spiegano i fenomeni di akrasia in un modo o nell’altro. La ragione trionfa sulle passioni, ma alle volte può essere incostante. Essa oscilla troppo rapidamente per una analisi. La ragione, collidendo con le passioni, si ritrae da un’emozione all’altra. La Nussbaum afferma che la tripartizione dell’anima non può spiegare il ritmo delle “collisioni”, e la sua spiegazione (“La bassa marea è seguita inesorabilmente dal diluvio”) sembra aperta a differenti anatomie della mente. E stanno fluttuando davvero atti di assenso della ragione più di quanto fluttui una teoria per capire l’animo umano?
In ultima analisi, che differenza pratica c’è fra questi modelli dell’anima? Forse nessuna. E’ vero che gli Stoici ortodossi credevano nell’estirpazione delle passioni (dato che si basano sempre sulla menzogna), mentre i Peripatetici desideravano solo la loro moderazione. Eppure l’uomo magnanimo di Aristotele si differenzia poco dal saggio stoico nel carattere e nel comportamento. La Nussbaum suppone che Aristotele si differenzi dagli Scettici prediligendo l’analisi sulla “intensità” delle passioni , non badando tanto alle loro conseguente, ai “disturbi”. Ma egli prescrive emozioni senza emotività: anche nella paura e nella rabbia, dobbiamo essere “imperturbabili”.
Anna De Paolis (Anna De Paolis è laureata in filosofia morale all’università La Sapienza di Roma)
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