(il bambino delle stelle, un fotogramma del film “2001 Odissea nello spazio”)
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Siamo delle macchine, e non in senso metaforico, ma letterale. Siamo macchine fatte di altre macchine. Le proteine di cui siamo composti sono esse stesse delle macchine, dei meccanismi. E il cervello è a sua volta una immensa macchina (Daniel Dennet)
Se siete interessati ad un manuale geniale, completo e specifico dedicato al dibattito sulla crisi dell’umanesimo e dell’antropocentrismo, sulla natura e l’identità umana dopo la rivoluzione darwiniana e l’evoluzione della tecnosfera, sui risvolti filosofici ed etici del postumanesimo e sulla ridefinizione scientifica su ciò che accomuna in chiave coevolutiva l’essere umano ad una macchina o da un altro animale, Post Human di Roberto Marchesini è il classico da non perdere. Oltre a ciò, Marchesini si inserisce nel prezioso dibattito su mente, coscienza e intelligenza artificiale, da sempre nel mirino di filosofi e neuroscienziati sempre in lite fra di loro. Ho letto molta letteratura di questo genere, ma posso tranquillamente dire che è un libro che svetta tranquillamente, nel panorama italiano, su tutti quelli dedicati ai medesimi argomenti di frontiera, specie se si è neofiti del campo e si cerca un libro che sia in grado di presentare l’intera questione con chiarezza senza tralasciare l’innegabile complessità degli argomenti. Temi dove la filosofia si sposa con antropologia, zooantropologia, scienza e tecnica, non senza uno sguardo critico e bioetico su alcuni risvolti di questo connubio (come l’iperumanesimo e il tecnognosticimo, gli “estropiani”, i transumanisti ed i risvolti etici sulle nuove biotecnologie). E soprattutto, questo prezioso connubio avviene sfruttando il paradigma della complessità ed evitando quegli odiosi riduzionismi che fanno spesso torcere il naso agli umanisti ed ai filosofi di formazione scientifica.
Marchesini attacca il paradigma della purezza umana, costruendo pian piano una nuova ontologia dell’essere umano. La nuova ontologia non ha niente di puro, ma è un ibrido “mostruoso” che ha in sé tutte le alterità che gli umanisti avevano allontanato dall’antropopoiesi, e cioè gli altri animali e le macchine. L’uomo non è un universo isolato, tutt’altro. Non è qualcosa di speciale e sostanzialmente differente da tutto il resto. Al contrario, è un ibrido (da “hybris”, parola che “stranamente” per i Greci celava in sé un delitto, una colpa, una mostruosità): “Questo fa sì che la cultura umana non sia il marchio che condanna l’uomo alla solipsia ontologica, ma il più grandioso progetto partecipativo che, per quanto ne sappiamo, la natura ha saputo mettere in atto”. La filosofia classica e l’umanesimo seguente, nonché la scienza moderna, avevano parlato dell’uomo come di un essere debole e inadatto al mondo, che si affranca da questa sua debolezza tramite un bagaglio unico e irripetibile, la cultura. E’ il classico paradigma dell’incompletezza: l’uomo, incompleto per natura, si redime tramite la cultura. E’ il mito di Prometeo, che ruba il fuoco a Zeus, e cioè la tecnica, per aiutare gli uomini, deboli e schiavi della natura. Un mito a cui hanno fatto eco, per citare qualche nome, Platone, Tommaso, Pico della Mirandola, Montaigne, Cartesio (in chiave natura = meccanicismo, uomo = libertà). Nel Settecento, Herder, nel Novecento, da Arnold Gehlen. Un mito che domina anche al giorno d’oggi. Per fare un altro esempio (fra i mille possibili), Marchesini cita Galimberti: “la tecnica è nata non come espressione dello spirito umano, ma come rimedio alla sua insufficienza biologica” (Psiche e techne, p. 34) ma anche gli antropologi Clifford Geertz e Francesco Remotti. Ci si potrebbe chiedere: perché questo attacco ad un paradigma così fondante dell’Occidente? Marchesini confuta il mito dell’incompletezza da un punto di vista scientifico ed evolutivo, parlando più propriamente non di incompletezza, ma della “percezione dell’incompletezza”:
“E’ corretto dire che nella restante morfologia e fisiologia [“restante” rispetto alle prestazioni celebrali] siamo carenti rispetto alle altre specie? Mi sembra proprio di no. L’uomo possiede una capacità di coordinazione muscolare che non ha pari in natura e che gli permette un repertorio di prestazioni che farebbero impallidire qualunque specie: può nuotare, arrampicarsi, correre, strisciare, compiere balzi di notevole portata. Ma quello che è più incredibile è la precisione dei suoi movimenti: è in grado di scagliare un sasso o un bastone con una correlazione sull’obiettivo quasi millimetrica, l’opponibilità del pollice gli conferisce una proprietà manipolatoria che non ha confronti in natura, ha la capacità di integrare i percetti cognitivi in modo istantaneo, cosicché può ottenere performance di assetto e virtuosismi spettacolari. La struttura laringea gli consente un repertorio di vocalizzazioni pressoché infinito: l’uomo è teoricamente in grado di imitare il verso di quasi tutti gli animali, può dar vita ad un repertorio di fenomeni discreti, qualità indispensabile per realizzare il linguaggio, riesce a scansionare il tempo con elevata precisione per cui può imitare la struttura armonica di qualsiasi verso d’uccello. Anche l’apparato scheletrico dell’uomo è tutt’altro che imperfetto; consente infatti l’andatura bipede, fondamentale per indirizzare gli arti anteriori a funzioni non locomotorie, permettendo quella performatività muscolare sopraricordata. Anche la dotazione sensoriale è di buon livello: abbiamo occhi che vedono una banda cromatica sufficientemente ampia – la maggior parte degli altri mammiferi ha una struttura retinica ben più povera di coni e quindi meno funzionale nella distinzione dei colori – e cavità orbitali posizionate in modo da consentirci una discreta visione binoculare, indispensabile per operare corrette valutazioni sulla profondità di campo. Il nostro udito non è certo scadente, non eccelliamo nell’olfatto ma d’altro canto non siamo completamente anestetici, come capita invece ad altre specie. Il gusto dell’uomo è molto più sviluppato di quello dei cani e dei gatti, per non parlare del tatto, che nella nostra specie arriva a una precisione davvero strabiliante” (p.34)
Ma tanto accanimento contro questo dogma dell’incompletezza umana non sarebbe giustificato se non ci accorgessimo che esso presuppone il considerare la natura come qualcosa di estraneo all’uomo, e l’uomo qualcosa di gnosticamente estraneo ad essa: “non è ignorando la biologia che si arriverà a comprendere quel complesso di manifestazioni che caratterizzano l’espressione umana. Purtroppo è uno sbaglio che si continua a perpetuare: per sfuggire il rischio di facili e odiosi riduzionismi, si tende a credere che prescindendo dal sostrato biologico e ignorando la storia evolutiva si possano ugualmente costruire delle scienze umane. Ma non è così” (p.23).
Per queste ragioni (ma molte di più, ampiamente argomentate nel libro), l’evento culturale è per Marchesini un evento di ibridazione, non di separazione natura/cultura. E’ la creazione di un monstrum, non di un essere puro e unico. Di qui l’idea principale del libro: “in altri termini, l’idea principale di questo saggio è che ogni tecnologia umana, e più in generale ogni acquisizione culturale, è in un certo senso una biotecnologia”. Eravamo già, molto prima delle nanotecnologie o delle protesi biomeccaniche, degli ibridi. Eventi culturali-tecnologici come l’uso della pietra, come una ruota, o più recentemente come gli antibiotici, hanno creato uno “slittamento della pressione selettiva” verso nuove prestazioni: “uno dei temi centrali di questo libro è proprio relativo ai feedback che ogni tecnologia produce nel sostrato biologico” (p.30). L’uomo cioè si è evoluto costantemente integrato alle sue capacità di ibridarsi con l’alterità. Pietra, ruota e antibiotico sono già entrati nel codice genetico della nostra specie. La capacità di sopravvivenza si è esternalizzata nella tecnica, cambiando, per esempio, le nostre mani, la nostra andatura, la nostra pelle priva di pelliccia (adatta alla tecnica “vestito”), e tanti nostri comportamenti. Seguendo Heinrich Popitz, Marchesini rovescia il paradigma umanista, per cui succede che “l’uomo si rende incompleto tramite la cultura”. Infatti, la protesi tecnologica-culturale spinge ed ha spinto la pressione selettiva sulla creazione di nuove performances con l’alterità, le quali sono diventante un nostro bagaglio genetico e fisiologico, creando nuovi bisogni rispetto ad altre specie animali. Proprio queste acquisizioni ed i correlati slittamenti di pressione selettiva a creare la sensazione di imperfezione dell’uomo, ed il corpo assume nuovi confini, ibridi e sconcertanti per una visione classica. Seguendo Popitz, Leroi-Gourhan, Gregory Bateson, Marshall McLuhan, de Kerckhove, e come Giuseppe Longo, Marchesi può affermare:
“sia nel processo proiettivo di fabbricazione del manufatto sia nella successiva esternalizzazione performativa è necessario aver acquisito la capacità di sincronizzare non solo il proprio corpo ma il complesso corpo-strumento […] non è facile dire dove termini il corpo: affermare che esso è racchiuso nei suoi limiti topologici, segnati dalla pelle, è – sotto il profilo comunicativo ed effettivo – arbitrario e sostanzialmente inesatto” (p. 254. 256).
L’uomo è cioè “una sorta di cyborg inconsapevole” (261). Tutte riflessioni che in effetti aprono ad una nuova interpretazione di quella galassia filosofica che è il cyberpunk, che Marchesini analizza in maniera compiuta ed originale nei capitoli centrali del libro. La sindrome di Frankenstein, o quella di Pigmalione, che ha caratterizzato la purezza umanistico-greca della civiltà occidentale, finisce col scomparire di fronte all’evidenza di una ibridazione fra vita (umana e non umana) e macchine, che ridefinisce lo stesso concetto di vita e natura umana. Ci si potrebbe domandare infatti perché definire vita un virus biologico e non uno informatico, un batterio e non una nanomacchina, un alveare e non un ecosistema. La separazione tra artificiale e naturale collassa e nuovi sistemi complessi (quali intelligenze artificiali, il “cyberspazio”, o un ecosistema stesso – come l’ipotesi Gaia ricorda) divengo oggetto di definizioni al limite o oltre quella di “vivente”.
Insieme all’alterità non biologica, l’uomo è diventato ciò che è anche grazie all’alterità animale: per Marchesini l’alterità animale ha mediato e promosso buona parte delle espressioni culturali. Proprio per una delle caratteristiche più sorprendenti dell’uomo, e cioè la prolungata immaturità infantile, il mondo animale si è offerto insomma come un “immenso dizionario di modelli da assumere” (p. 109). La specializzazione dell’uomo sarebbe stata nella sua capacità di ibridarsi con il mondo esterno e soprattutto con gli animali, una capacità che chiama “zoomimesi”: l’uomo è quell’animale che impara anche dalle altre specie e che le utilizza come prolungamenti, siano essi percettivi, cognitivi, tassonominci, estetici, operativi, funzionali e via dicendo. Sulle orme di Konrad Lorenz, James Serpell, Hubert Montagner e Paul Shepard (insomma, in linea con la zooantropologia), studiosi che hanno analizzato l’interazione uomo-animale in chiave evolutiva, Marchesini mostra, al pari della tecnica, della stampa, dei media, dei computer, quanto anche il mondo animale sia una componente essenziale della nostra specie, del nostro corpo, della nostra storia biologia e della nostra ontologia genetica. Distruggendo con dati scientifici quel mito dell’unicità e integrità, della purezza della cosmopoli umana e attaccando l’antropocentrismo epistemologico.
Marchesini però smitizza anche altre forme di purezza culturali, come il dualismo mente-corpo, una versione epistemologica e storia-culturale di quella software-hardware: “tutto il corpo si trova a ruotare intorno a questa strana emergenza chiamata coscienza che si illude di dominare la situazione dalle alte vette corticali, ma che in realtà è profondamente dominata da un coacervo di funzioni che si svolgono in altre sedi” (p. 224). Ma anche il mito heidegerriano e non solo della tecnica come dominio dell’uomo. Preso di mira da Marchesini è anche il “cartesianesimo” delle scienze cognitive (separare la mente dal corpo) e quel riduzionismo di alcuni campi di studi dell’ Intelligenza Artificiale. Il “cyberspazio”, similmente, è analizzato nei suo risvolti problematici ed inquietanti come nuova frontiera ibrida e volano di una nuova intelligenza collettiva, potenziata dalla realtà virtuale e dalla continua digitalizzazione di ogni oggetto-soggetto reale. Come la coppia dicotomica naturale-artificiale diventa una costruzione illusoria, lo diventa anche reale-virtuale. Rievocando il filosofo Jean Baudrillard, ma anche James Ballard, Philip Dick e William Burroughs si potrebbe dire che il virtuale sostituisce il reale e lo ridefinisce.
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– Sull’epistemologia evuluzionistica e Konrad Lorenz, vedi qui
– Sull’epistemologia evuluzionistica e Jacques Monod, vedi qui
Una recensione magistrale per un libro fantastico! Finalmente la verità che solo un approccio Umanistico-Scientifico ci può dare. Quanti secoli ancora dovranno passare, e quanti poteri fondati sui miti metafisici dovranno cadere, perché tutto questo diventi patrimonio di tutti? E come farà la povera Italia, con i suoi umanisti all’amatriciana, che occupano ancora le accademie con le loro sterili elucubrazioni sull’essenza-dell’essere-essente… impedendo alle nuove generazioni di divenire scientificamente consapevoli?
Davvero un grande testo quello di Marchesini. La sua disamina dell’evoluzione umana pre e post tecnologia è di altissimo livello e la sua analisi del trend evolutivo è molto acuta. Le facoltà di Sociologia dovrebbero insegnare queste cose e non basarsi solo su testi “classici”.
Talmente “scientifico” questo libro da basarsi appunto su una teoria non provata come il darwinismo.
A quanto pare Marchesini spiega se stesso attraverso il pensiero…. mai vista infatti una teoria che soddisfi un animale.
Un libro sul delirio ipertecnogico in cui è caduto l’uomo post moderno che ora assimila il mondo in se. Un buco nero. Pazzesco.