“In balia di una sorte avversa”, di B. S. Johnson. Per una “strana” recensione…

"Viandante su mare di nebbia", Caspar David Friedrich

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Una bella serata di fine Novembre. Bella per essere una serata di fine Novembre, in Città. La temperatura non è ancora precipitata e si riesce ad avere le mani scoperte senza il pericolo che la pelle si rompa in cento stigmate laiche. Il cielo è ancora tagliato da una o due nuvole che, durante il mattino, hanno lasciato cadere qualche goccia di pioggia. E’ un chiaroscuro affascinante tra l’oscurità della notte, illuminata timidamente dalle luci gialle di periferia, e le differenti tonalità di grigio che caricano le nuvole. Il vialetto che porta alla fermata del bus è ricoperto di foglie ingiallite che si mischiano al terriccio bagnato. Cerco un guado sicuro mentre sistemo l’auricolare ed alzo il colletto della mia giacca marrone. Cercando di non cadere su quell’intingolo di foglie e terra, le mando un messaggio. Farò qualche minuto di ritardo. La fermata del bus ha il solito aspetto tranquillo. La Chiesa lì davanti sovrasta una piccola Edicola verde. Accanto c’è la segnaletica, la mia segnaletica. Un divieto di sosta. Un appoggio su cui sostare, aspettando di vedere più avanti il mio bus. Una canzone finisce e ne comincia un’altra. Così per altre due o tre volte. Io mi spingo in avanti per cercare di avere una visuale migliore, come se la vista avesse il potere di far accadere le cose. Come se il destino si sentisse spiato e potesse cedere ai miei bisogni. Faccio un giro intorno a me stesso e ritorno a posare la schiena sulla segnaletica. Intano finisce un’altra canzone ed un’altra ancora comincia. Decido di prendere dalla mia borsa nera il libro che sto leggendo. Acquistato qualche giorno prima su consiglio di una brava banditrice letteraria. B. S. Johnson, “In balìa di una sorte avversa“. Prefazione di Jonathan Coe. Di Jonathan Coe non ho letto molto e ricordo a stento qualche titolo, però quel poco che ho letto mi è piaciuto. Un tipo di cui ci si può fidare. Perchè con i libri, ormai, è come con le persone. Costano troppo ed è meglio andare sul sicuro. Meglio non rischiare. L’autore del libro non lo conosco per niente. Ma questa lettura, questo B. S. Johnson, mi provoca ad affrontare un’esperienza nuova. Mi piacciono le provocazioni. E’ come uno sbirro che ti fissa per farti reagire e tu devi essere così bravo da non rispondere. Mi piace rispondere alla provocazioni, o non rispondere. A seconda della provocazione. Ad ogni modo questa provocazione si presenta come un cofanetto che contiene 27 sezioni non rilegate. Un libro fatto razionalmente a brandelli e dato in pasto al lettore che, seguendo una indicazione di massima, può leggere e creare altro dopo aver letto. Non è la solita banalità della conclusione “a scelta” di chi legge. Che idiozia. Le conclusioni sono come la coda di un topo. Troppo lunghe. Troppo insignificanti. Quello che conta è il corpo. La possibilità di modificare la composizione degli organi. Mettere un rene dove Dio ha visto un pene. Sbeffeggiare in questo modo la santità dell’opera d’Arte. Che bella provocazione. Mi mancano poche sezioni. Quattro, o forse tre. Comincio a leggere, ma prima mi guardo intorno provocando il destino. Il numero, il mio numero, non si vede ancora. Ma c’è una ragazza. Comincia un’altra canzone. Comincia un’altra sezione.

Mi spingo in avanti, ancora una volta. Mi guardo intorno. C’è sempre la stessa ragazza. Anche lei ha l’auricolare e muove la testa al ritmo di chissà quale musica “pop”. Capelli ondulati, forse castani, cadono su un cappotto scuro che l’avvolge completamente fino a mezza gamba. Mezzo stivale, per essere pignoli. Nero. Lancio lo sguardo verso il mio bus fantasma. Non c’è niente. Ancora. Allargo le braccia e forse dico qualcosa. Casualmente, senza pensarci troppo. Mi volto verso la ragazza e mi accorgo che mi sta guardando e muove le labbra anche lei. Rimango qualche secondo interdetto. Ma che vorrà mai. Mi avrà detto qualcosa. Io scuoto il capo in maniera indignata, per condividere la sua rabbia. Sicuramente si sarà lamentata dei tempi del bus. Faceva segno “due” con le dita. Proiettandolo due o tre volte prima verso di me e poi verso di lei. Ondeggiando. Quasi a voler sottolineare quelle dita. Non credo volesse andare al bagno, oppure fosse un giovane lupetto. Nello scoutismo il “due” è un segno sacro. Sono le orecchie del lupo che devono essere tese per ascoltare. In silenzio. Basta alzare due dita per mettere in riga una mandria di adolescenti scatenati. Divertente questa confusione simbolica. Ma credo che la ragazza si riferisse ai due bus che andavano nella direzione opposta e per i quali non ci fosse stato ancora nessun ricambio. Finisce l’ennesima canzone, forse la sesta. Ormai rendiconto il tempo che passa moltiplicandolo per una media di quattro minuti per ogni canzone. Dovevano essere passati circa 24 minuti. Le mando un altro messaggio. Perdonami, sono stato uno sciocco. Invece di prendere la metro sto aspettando questo stupido bus. E non chiedermi di rinunciarci, proprio ora, dopo circa 24 minuti. Perchè sarebbe una sconfitta. Il bus deve passare a prendermi. Ma forse è solo una scusa per continuare a leggere. Perchè questa provocazione, con l’andare delle sezioni, ha cominciato a coinvolgermi davvero. A metà dell’ottava canzone vedo quel numero avvicinarsi. E’ il mio bus. Guardo la ragazza che mi sorride. E’ finita.

Lei mi aspetta ormai da un pezzo. Ha i nostri dolci in mano, impachettati come si deve. Non è arrabbiata. Anzi, mi accoglie con un sorriso. Ha già preso il caffè. Non si arrabbia quasi mai con me. E’ capitato solo una volta, ma è durata pochi secondi. Niente. Troppo poco. Io mi arrabbierei spesso con me stesso. Però non ci vediamo da un po’ di tempo e la gioia di stare insieme vale di più. Ma forse me ne convinco solo per trovare una giustificazione. Poco importa. Prendiamo la metro, finalmente. Arriviamo al capolinea. Poi un altro bus. Questa volta non mi faccio accompagnare dalle canzoni, o dalle sezioni. C’è lei. C’è la sua storia. Andiamo verso i margini della Città, da una periferia all’altra passando per il centro. L’attraversamento ci permette di parlare, di aggiornarci. Di confrontarci. Gli argomenti sono sempre gli stessi eppure sempre diversi. Perchè c’è sempre qualcosa da raccontare. Lui ha organizzato questa cena per avere l’occasione di rivederci tutti. In realtà non ci siamo tutti, ma quel che conta è che vogliamo stare insieme. In cinque o sei. Quelli che contano, forse. Una birra per cominciare ed una torta salata da assaggiare. Ne approfitto. Iniziamo ad aggiornare i file delle nostre memorie. Riprendiamo i back up fatti durante il nostro ultimo incontro e ripartiamo da quelli. E’ bello condividere la propria vita con altre persone. Si incrocia la tranquillità e la rabbia. Qualche volta prevale la rabbia, perchè ci sarebbe davvero di che essere arrabbiati. Per il Lavoro, soprattutto. Ma un mezzo bicchiere di vino riporta la tranquillità. Ed un sorriso. Ma la rabbia rimane. Per fortuna.

Lui comincia a tagliare il guanciale. Quello di maiale, non il cuscino. Ma forse avrebbe fatto a brandelli anche il cuscino per com’è avido di coltello. Vedere quel maiale fatto a pezzi mi ha fatto ritornare alla mente il libro di B. S. Johnson. Tutte quelle sezioni che, prima ordinate, poi potrebbero essere sparse sulla padella a piacere. Cominciamo a parlarne. Racconto di questa provocazione che ho quasi terminato, ormai mi manca solo l’Ultima sezione, e che mi è piaciuta. Soprattutto per il dopo perchè il dopo potrei continuare a crearlo io. Un altro libro, un’altra successione degli Eventi. Tranne la Prima e l’Ultima sezione che, per indicazione dell’autore, devono essere necessariamente poste all’inizio ed alla fine della ricomposizione. Ma questa ricomposizione, da un certo punto di vista, potrebbe rivelarci per come siamo realmente. Magari si potrebbe anche decidere di elminare qualche sezione, per renderlo più scorrevole. Perchè, ogni tanto, la sua scrittura potrebbe appesantire. Loro sono tutti ricettivi rispetto a questi argomenti ed il discorso ci prende la mano, mentre il guanciale fatto a brandelli ed affogato nell’olio comincia a prendere odore di aglio, cipolla e pepe. Il protagonista, per qualche minuto, sono io. E’ il libro che sto leggendo. E sono io. Ma solo per qualche minuto. B. S. Johnson. Vita incasinata, la sua. Innovatore poi caduto nel dimenticatoio. Morto presto, a quarant’anni o giù di lì. Non ha neanche una pagina in italiano su Wikipedia, c’è solo qualcosa nella versione inglese. Però il libro è bello. Di Jonathan Coe posso fidarmi, lo sapevo. Non è un’opera d’arte, di questo ne sono abbastanza certo. Però ti investe pienamente e le modalità con cui viene presentato sono decisamente attraenti. C’è sicuramente molto marketing in questa scelta, però il prodotto è riuscito. E questo vale. Ti fa entrare nelle situazioni, quasi vivendole. C’è un “core” della narrazione che invade ogni sezione e si rende evidente perchè tutto il resto viene descritto come incerto, probabile. Viene solo ipotizzato. E’ senza sicurezza. Come una tela dove i contorni sono indefiniti ma le forme sono chiare. Surrealismo. La certezza è quel “core”, quell’amicizia interrotta da una morte. Ed il tema della morte è centrale. In realtà non tanto il tema della morte quanto quello della fine. Del nostro approccio verso la fine di una persona che non avremmo mai pensato potesse finire prima di noi. La morte è solo una delle espressioni di questa fine. Anche una storia d’amore potrebbe finire, come accade nel libro. C’è molto egoismo in ogni sezione. Ogni sensazione viene rapportata alle necessità del narratore. Ai suoi problemi, ai suoi tempi. Perchè il sofferente, nonostante la sua sofferenza, non è stato all’altezza delle mie aspettative. Ed il martire sono io, non è lui. Non è una giustificazione il fatto che stia male. Questo è l’egoismo narrato nel libro. Una negazione. Loro mi ascoltano ed intervengono. Ognuno esprime le proprie idee su questo argomento. In realtà sono io a condurre, forse con un po’ di violenza, i loro discorsi attraverso questi campi pseudo-filosofici. Probabilmente il libro parla di altro ed io sono riuscito a leggerlo solo in questo modo, passando in modo distratto da una sezione all’altra. Magari leggendo con attenzione solo l’ultima pagina. Barando un poco. Ed in realtà non è neanche l’elemento che mi abbia affascinato in misura maggiore. Mi sono avidamente appassionato alla descrizione della vita di tutti i giorni. Lavoro, Casa, Famiglia. Come dice anche il protagonista. Senza un ordine di priorità particolare ma come tre binari lanciati nella stessa direzione e senza direzione. Come locomotive che possono avere tempi differenti, a seconda delle difficoltà del percorso. Ma il progetto di ognuno si riduce a questo. Lavoro, Casa, Famiglia. E non è solo un sogno borghese ma una necessità popolare. Lavoro, Casa, Famiglia. Non sono la santissima trinità del male ma un punto di transito che si concretizza in luoghi e modalità differenti perchè differenti sono le condizioni che si presentano alla nostra vita.

Finisce anche la terza bottiglia di vino. Non ci resta che ripercorrere tutto il tragitto al contrario. Con l’Ultima sezione da leggere.

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