La Terra resiste ancora!
Mille conflitti illuminano il cielo dell’attualità come fuochi d’artificio in the dark side della politica, tra processi di espropriazione e messa_in_rendita del Comune (ormai il profitto è lettera morta sulle pagine della storia) e creazione costante di forme alternative di “democrazia” (Comitati territoriali, spazi “liberati” e via dicendo) in dichiarata opposizione alla governance neoliberale. La Vita, ogni singola Esistenza terrestre, si biforca materialmente tra l’essere-Capitale Umano (sotto il comando dispotico della governance, secondo le teorie di Gary S. Becker) ed il divenire-Singolarità (nella condensazione di forme di Vita “comune”). Il concetto dell’Esodo dai processi del comando, come costantemente proposto nella narrazione hardtnegriana (ed approfondito nella trilogia di “Impero”, “Moltitudine” e “Comune”), sembra essere solo vuota retorica se rapportato alla realtà. Nella materialità della Vita ogni Esistenza terrestre si presenta, allo stesso tempo ed in ogni momento in un presente aeternum, come Capitale Umano e Singolarità. Non è un dispositivo da risolvere, una schizofrenia da curare, ma sono scelte concrete da compiere in ordine sparso ed a seconda del momento e del contesto. È una biforcazione, non una contraddizione, da praticare pienamente come opportunità. Il conflitto, in questo caso, non sta tanto nel campo dell’Etica (o, peggio ancora, in quello della morale) quanto in quello dell’organizzazione complessiva della Vita. L’organizzazione complessiva della Vita, infatti, si pone direttamente il problema delle Istituzioni del governo e delle forme della governance. È in questo spazio “materiale” che si situa realmente il conflitto, con tutte le sue potenzialità esplosive, ovvero nella ristrutturazione delle modalità di controllo ed esproprio del valore prodotto dalla cooperazione.
Che il Comune sia con tutt@.
“Il capitale non ha limiti interni al proprio sviluppo”. Lo scrive Mario Tronti in una breve introduzione al libro di Gigi Roggero simpaticamente intitolato “La misteriosa curva della retta di Lenin” (La Casa Usher, 2011). Storia interessante quella della curva di Lenin che, secondo le stesse parole del leader comunista al Comitato Centrale del POSDR nel 1917, descrive la Rivoluzione bolscevica come un “movimento aggirante” rispetto alle note indicazioni marxiane sui necessari sviluppi storici dell’emancipazione industriale e dell’organizzazione proletaria. D’altronde accade spesso che i fanciulli, dopo aver rubato le caramelle, si giustificano raccontando il dramma della fame nel mondo nell’affannoso tentativo di sottrarsi alle mani violente dei propri genitori. E spesso ci riescono. “Il capitale non ha limiti interni al proprio sviluppo”, quindi. Non che fosse necessario ricordarlo (come un mantra automotivante se pronunciato all’infinito) ma non fa mai male evidenziarlo, anche molto chiaramente, perchè questa semplice considerazione mette in discussione quasi nella totalità i dogmi della pratica critica che, fino a qualche secondo fa, hanno segnato le nostre ricerche teoriche e le attività concrete.
Farebbe bene ricordarlo anche agli artefici delle violenze del 15 ottobre 2011, alle macchine bruciate, alle vetrine frantumate, a via Merulana e Piazza San Giovanni in fiamme. Roma, 15 Ottobre. Pianeta Terra! Perchè, anche in questo caso, si potrebbero ipotizzare tutte le magnifiche curve di questo mondo e della storia per giustificare quanto accaduto, ma il dramma è cadere un’altra volta nelle solite teorie sulla palingenesi rivoluzionaria o, peggio, sulla violenza “utile” e legittimata. Da cosa non si riesce bene a capire. La creazione dell’Evento necessario è utile solo a chi vuole creare consenso attorno alle proprie pratiche. Il 15 ottobre 2011, alla luce del giorno dopo (e davanti alle fiamme del giorno stesso), racconta di un conflitto egemonico di avanguardia, per utilizzare una grammatica “vetero”, che tiene disperatamente fuori la maggior parte delle singolarità interessate alla trasformazione. Che piaccia o meno, accade questo. “Ai capitalisti fa paura la storia degli operai, non fa paura la politica delle sinistre. La prima l’hanno spedita tra i demoni dell’inferno, la seconda l’hanno accolta nei palazzi di governo”, scrive sempre Mario Tronti. Il 15 ottobre 2011 è storia. Al di là dell’enfasi e delle frasi ad effetto, il 15 ottobre 2011 è storia del “movimento” (non solo operaio, ma questa è cosa nota da almeno vent’anni) ed in quanto tale non può essere negata o derubricata a cronaca, neanche tanto politica (come fanno i grandi spazi editoriali di massa). Per questa ragione il 15 ottobre 2011 sta pienamente nelle dinamiche di “creazione” e nei ragionamenti che stiamo per fare e si presenta come elemento concreto di analisi ed elaborazione. Non possiamo dimenticarlo. Il 15 ottobre 2011 pone il problema delle pratiche e si interroga sulla questione della narrazione.
Marx non è stato il cantore della Rivoluzione. Tutt’altro. La vecchia talpa del pensiero critico ci ha raccontato innanzitutto di una separazione violenta ed indotta, quella tra l’Essere umano e la “Natura”. Tralasciamo, almeno per qualche pagina, la complessità che questi termini si portano dietro, il fardello dell’Occidente, della Filosofia classica e del Cristianesimo che puntualmente si abbatte su di noi quando utilizziamo una certa “grammatica”. Assumiamoli non come buchi neri da riempire o come spazi da confinare in qualche modo. Prendiamoli semplicemente per quello che sono. Essere umano e Natura. Non tanto perchè la Filosofia sia creazione di concetti (come affermerebbero Gilles Deleuze e Felix Guattari) e non stantia discussione intorno ad essi, ma solo per non complicarci l’Esistenza. Perchè c’è qualcuno che si impunterebbe per non togliere l’accento all’Essere parmenideo, incurante se nel fiume del ragionamento cominci a galleggiare il feretro dell’attualità. Perchè la Filosofia, con Foucault, è politica della verità e la verità è fin troppo intrecciata con l’attualità. Ed allora Essere umano e Natura, da questo momento in avanti, sono bicchieri di vino. Di nessuna marca per non generare competizione. Di nessun colore per non creare preferenza. Di nessuna tipologia per non far nascere astio tra le piantagioni ed i territori. Sono due bicchieri di vino. Ottimi. Da bere. Non vanno riempiti. Sono già colmi di benessere. Anche perchè nell’acqua c’è troppo calcare, visto che la casa è vecchia e le tubature con essa, e la birra costa troppo per le nostre possibilità. Quindi sono rimasti solo questi due bicchieri di vino. Essere umano e Natura. Beviamoli insieme.
Da circa un paio di anni, con lo strutturarsi dell’interesse verso la scoperta delle radici del “Comune” (intendiamolo qui, per il momento, in tutte le sue accezioni comunitarie e collettive, “artificiali” e “naturali”), si stanno rileggendo anche i Grundisse marxiani (ovvero i prolegomeni del Capitale). Pubblicati tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento (precisamente alla fine del 1939 e una settimana dopo l’invasione dell’Unione Sovietica da parte di Hitler) dall’Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca, cominciarono a riscuotere un certo consenso solo negli anni Sessanta e Settanta, quando la “cattura” dell’Internazionale cominciava a sciogliersi e nei Paesi, soprattutto europei, fiorivano discussioni anche critiche nei confronti del “dogma” e dell’imprimatur sovietico. Una delle eresie più interessanti è stata sicuramente quella dell’operaismo italiano che, ancora oggi, torna a dirci qualcosa (si potrebbe considerare la teoria hardtnegriana come un conato di operaismo). Ad ogni modo, tornando al tema di nostro interesse, la parte attualmente più dibattuta dei Grudisse è quella relativa alle “Forme che precedono l’accumulazione capitalistica“. Finalmente ci si approccia a questo testo liberi e liberati dall’ansia del materialismo teleologico. Dalla necessità di incastonare ogni descrizione in una corsa ad una sola direzione e con un obiettivo unico. I lavori di Walter Benjamin sul concetto di Storia (in modo particolare le “Tesi”, di cui l’immagine dell’Angelus Novus rappresenta solo una piccola parte), che avrebbero dovuto introdurre il Passagen-Werk, sono stati determinanti nel costribuire a mettere in crisi l’impianto teorico dell’evoluzionismo rivoluzionario. Attraverso questa lettura “liberata” viene fuori un Marx decisamente diverso. Oltre Marx a tutti gli effetti. La descrizione delle differenti forme di Comunità, e di appropriazione delle eccedenze, non vengono più necessariamente lette come uno sviluppo sistematico che precede il grande moloch del Capitale nell’epoca liberale. Non sono genitori mangiati dai propri figli sulla via della trasformazione incontrovertibile verso il socialismo ma si presentano, molto più semplicemente, come letture critiche della realtà e di organizzazioni sociali che hanno caratterizzato i sistemi di relazione tra Esseri umani in alcuni momenti storici. Quello che viene fuori dalle Forme, assumendoci la libertà di banalizzare un tantino il discorso, è la stretta compartecipazione tra l’Essere umano e la Natura, intesa come spazio ampio (fisico e sociale) dove si svolge la produzione e la distribuzione di tutto quello che viene prodotto. È questa condivisione con la Terra, all’interno di dinamiche pienamente comunitarie, che lentamente si perde nei meccanismi dell’accumulazione originaria del Capitale. E, allo stesso tempo, si potrebbe dire che è proprio la rottura di questa unità che alimenta l’accumulazione e lo sviluppo dell’economia politica.
Anche in questo caso, nulla di nuovo sotto il Sole dell’Occidente. Già Karl Polanyi, nel “lontano” 1944, ha descritto con precisione gli effetti della “Grande Trasformazione” provocata dal processo di enclosures e di recinzione dei terreni comuni che, a partire dall’Ottocento inglese, ha cominciato a definire gli ambienti sociali ed economici della modernità. Non bisogna ricorrere necessariamente alle pagine del Capitale o dei Lineamenti, quindi. È storia. Le recinzioni, nell’interpretazione di Polanyi, hanno “derubato” i poveri della loro parte di terreno comune annientando, con questa espropriazione, anche il tessuto sociale che si era creato attraverso l’utilizzo di metodologie di produzione e distribuzione “collettiva” del profitto. Peter Linebaugh e Marcus Rediker, con il bellissimo libro “I ribelli dell’Atlantico”, hanno descritto la parabola “atlantica” di molti Esseri umani che, in esubero dalle terre comuni e di difficile collocazione nel sistema manufatturiero cittadino, sono stati destinati alle piantagioni oltreoceano. È questa la separazione tra “forza lavoro” (il Proletariato, l’Essere umano e via dicendo) e “mezzi di produzione” (la Natura, non solo gli strumenti tecnici della produttività) che viene imputata alla fondazione dell’economia politica liberale. È sempre Linebaugh, in un recente articolo, a descrivere il “commoning” essenzialmente come una pratica comunitaria di controllo e governo del territorio. Ed è questa la separazione tra Essere umano e Natura che ci interessa indagare. I due bicchieri di vino che stiamo sorseggiando.
Una delle pubblicazioni più recenti ed interessanti sulle questioni poste dal Comune è quella curata da Anna Curcio per UniNomade dal titolo “Comune, comunità, comunismo”. In realtà il libro si presenta come un articolato dibattito tra le posizioni “operaiste” sul Comune e quelle del “marxismo althusseriano” sulla Comunità (e il confronto-intervista tra Antonio Negri e Etienne Balibar ne è la prova). Il tentativo è fare conricerca tra queste due sponde filosofiche, con lo scopo di generare qualcosa di materialmente avanzato. Leggendo il libro, e pensando all’ampio dibattito, sembra che Comune e Comunità si giochino su piani di immanenza che si incrociano continuamente e, per certi versi, si confondono senza però trovare elementi di contatto che mettano “a terra” la teoresi. È lo stesso rimosso che si potrebbe riscontrare nell’ultimo lavoro di Hardt e Negri intitolato, non a caso, “Comune”. I temi ricorrenti in questo tipo di approccio sono, in stile operaista, quelli dell’organizzazione e dell’autonomia. Il Comune è presentato come uno spazio di produzione estenuante di eccedenze (produttive e sociali) che permetterebbe di superare il rapporto tra Capitale e Lavoro attraverso l’organizzazione autonoma di una “nuova” Soggettività politica “comune”. La tendenza “produttiva” di questa eccedenza è il Lavoro immateriale (o cognitivo), sono le relazioni sociali che generano continuamente “commons” e si mettono sotto attacco e cattura del Capitale in quanto ne rappresentano, oggi, l’unico concreto modello di rendita. E si parla di rendita perchè, anche considerando la nascita di nuove figure nel campo del marketing strategico, l’interesse non è più quello di generare bisogni ma di raccogliere i valori aggiunti mettendoli a valore. Lo sforzo, quindi, dovrebbe essere quello di organizzare il Comune per farlo divenire eccedenza reale rispetto allo sfruttamento della governance neoliberale. Lo “sdoganamento” della Comunità oltre le definizioni economicistiche, in questo caso, serve a dare sostanza ad un contesto fisico-spaziale che, al contrario, non avrebbe assolutamente alcuna concretezza (un po’ come la presunta “Moltitudine” hardtnegriana). A questo proposito gli innesti teorici ereditati dai lavori di Jean-Luc Nancy diventano essenziali in questo tipo di costruzione. “La Comunità inoperosa”, la ricerca sull’Essere-in-Comune come processo che faccia realmente Comunità attraverso la riappropriazione delle Singolarità decisamente contrapposte all’uomo senza ombra del Capitale umano, si presta benissimo alla maturazione “operaista” (senza prefissi o suffissi, anche in questo caso proviamo ad utilizzare i termini per quelli che sono).
L’elemento mancante, il nodo che metterebbe a terra tutto questo impianto teorico facendolo vivere direttamente sui Corpi magnificamente devastati dalle biforcazioni quotidiane subite dagli Esseri umani tra Singolarità e Capitale umano, potrebbe essere il Territorio. La Terra. La Natura. Un contesto fisico spazialmente determinato, tracciato, confinato. Perchè accanto alla discussione sulla Comunità e sui Beni comuni (o Comune o commons che dir si voglia) se ne sta svolgendo un’altra, probabilmente anche più dilaniante, sullo sradicamento, sulla “cattura” dei luoghi e sulla spoliazione delle risorse naturali, sulla distruzione degli equilibri ecosistemici non solo (e non tanto) su larga scala ma soprattutto sulle piccole dimensioni. Alberto Magnaghi ed il territorialismo hanno il merito di aver detto e fatto molto su queste tematiche, cercando di condensare esperienze teoriche ed attività pratiche (la Rete del Nuovo Municipio è stata importante in questo senso). “Progetto locale” ne è il Manifesto. Questa prospettiva potremmo farla cominciare addirittura con Ernesto De Martino (“La fine del Mondo” è un contributo straordinario da questo punto di vista) attraverso Marc Augè, Franco La Cecla e la “mente locale”, Mike Davis, Paul Virilio ed anche Carl Schmitt (e Martin Heidegger, ma senza alzare troppo la voce), solo per citarne qualcuno. È la prospettiva del “confine”, del nomos inteso come camera di creazione e sottrazione dei luoghi. Di divisione tra gli Abitanti e di qualità dell’Abitare. Nomos inteso come strutturazione del Governo e della vitalità cittadina. Questo è il campo della Natura, ovvero il confine dove si svolge la Vita, si organizzano le relazioni sociali e si costituisce la produttività.
Comune e Natura. Comunità e Territorio. Si tratta, in ultima istanza, di ricomporre la scissione originaria tra forza lavoro e mezzi di produzione. Tra Essere umano e Terra. Si tratta di mettere nuovamente al centro della discussione il tema della proprietà e, in particolare, della riappropriazione.
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eccellente! lo posto in N.O.I.
Grazie
Grazie per la fiducia 🙂