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Ma soprattutto, sono sempre stato grato a Pascal, almeno come lo leggo io, della sua sollecitudine, lontana da ogni ingenuità populista, per “la gente comune” e le “sane opinioni del popolo”, come pure della volontà, da tale sollecitudine inseparabile, di cercare sempre la “ragione degli effetti”, la ragion d’essere delle condotte umane in apparenza più gratuite e ridicole – come “correr tutto il giorno dietro una lepre” – invece di indignarsi o di prendere gioco, a guisa dei “mezzo addottrinati”, sempre pronti a “fare i filosofi” e a tentare di stupire con i loro stupori fuori misura circa la vanità delle opinioni di senso comune. (Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane)
L’intellettuale è uno di casta, non vuol essere storicizzato, calato in un contesto di forze biografiche, materiali e di mercato. Rifiuta inconsciamente e probabilmente anche consapevolmente di appartenere ad una nicchia ecologica, usando una metafora presa dalla zoologia. In un “campo”, direbbe Pierre Bourdieu. E lo studioso francese usa il termine “campo” anziché il più abusato “apparato” poiché il primo termine “coinvolge la gente che in un apparato è innocente, mentre in un campo lotta, gioca. […] Il campo è questo spazio. Per osservarlo sono costretto a immobilizzare a un certo momento la situazione e a mostrare la posizione di tutti gli agenti, posizione che è il risultato delle lotte all’interno del campo”. Bourdieu cerca di capire, usando un termine che potremmo prendere in prestito da von Neumann, il “gioco” dell’intellettuale: “per capire il suo gioco, devo conoscere tutti questi elementi [il campo] e sapere quel che l’agente ha vinto nella lotta anteriore. Le sue strategie dipenderanno da quel che aveva. Se aveva molto e si trova di fronte qualcuno che non aveva molto, avrà delle strategie di dominante: lo schiaccerà, lo snobberà, lo colpirà con disprezzo, gli dirà povero giovanetto, eccetera. Se invece ha ottenuto poco, dirà: “sporco stronzo”, “hai tradito”, “sei uno sporco intellettuale”, “parvenu”. […] Nel campo universitario, dovrò parlare dei titoli, dell’agregation, del Capes, dell’anzianità”.
Proprio questo straordinario intellettuale francese, Pierre Bourdieu, ha cercato attraverso le sue monumentali analisi a cavallo fra sociologia e filosofia (e fra lo strutturalismo e Sartre, nel tentativo, secondo me riuscitissimo, di non far sparire l’individuo nella struttura e al contempo, di dare alla struttura la forza che le compete) di smitizzare l’incrollabile mito dell’intellettuale greco separato dal mondo, dell’intellettuale-artista romantico, e diciamolo, dell’intellettuale “libero da catene” di ogni tempo, dell’intellettuale in sé per sé. Bourdieu però non si è fermato all’intellettuale, ma a qualsiasi “agente” in un “campo” di forze e relazioni, “agenti” come un professore universitario, un dipendente di un ministero, un poeta, uno scrittore, un fotografo, un architetto, un operario, un disoccupato. Il suo primario obiettivo decostruttivo e critico è però sempre stato l’intellettuale, questo sconosciuto. Uno sconosciuto che parla sempre degli altri e di altro, raramente ha la freddezza di parlare di se stesso. Le scelte, adesioni e produzioni estetiche, culturali e politiche dell’intellettuale sono analizzate da Bourdieu criticando il mito kantiano (e non solo) dell’irriducibilità della creazione e dell’autonomia assoluta delle scelte estetiche, e del proverbiale “disinteresse” del creatore artistico.
Di qui quello che forse è il suo studio più famoso, ormai annoverato fra i classici della sociologia del Novecento: “La distinzione. Critica sociale del gusto”. In questo imponente studio, del resto non solo filosofico ma suffragato da dati empirici (test ad gentes sui gusti estetici e indagini statistiche), fra le altre cose, Bourdieu parla del gusto anche come un particolare tipo di “arma” che alcuni gruppi usano su di altri (lo snobismo è una di queste, ma Bourdieu annovera tutte le nostre classificazioni mentali, che per la maggior parte non appartengono al campo delle operazioni intellettuali consapevoli). Marxianamente afferma che è la più o meno distanza dalle necessità materiali a determinare il modo di essere della borghesia: di qui nasce un “mondo” comune di sentire (a sua volta ben suddiviso, come bene sanno i pubblicitari quando studiano e applicano schemi della sociologia dei consumi e della sociologia della produzione culturale) che ingloba non solo il mondo delle arti ufficiali, ma anche l’abbigliamento, l’arredamento, lo sport il cinema e quel sotto-mondo ora così criticato e vituperato, la politica e le scelte politiche. Sul “gusto puro”, per esempio, Bourdieu scrive:
Così, la teoria del gusto puro, nonostante continui a negare al gusto tutto ciò che può somigliare ad una genesi empirica, psicologica e soprattutto sociale, ricorrendo ogni volta alla scissione magica tra il trascendentale e l’empirico, trova però le sue basi – come attestano la contrapposizione che essa instaura tra il piacevole, che “non rende colti” ed è solo un godimento, e la cultura, oppure le allusioni all’apprendimento ed all’educazione del gusto – nell’empiria di un rapporto sociale: l’antitesi tra la cultura ed il piacere fisico (o, se preferiamo, la natura) si radica nella contrapposizione tra la borghesia colta ed il popolo, sede fantasmagorica della natura incolta, della barbarie dedita al puro godimento
In fin dei conti, in questo studio Bourdieu si occupa anche e soprattutto del pre-giudizio, di quella particolare “scelta” estetica che dipende dall’ introiezione della nostra realtà sociale nel nostro corpo e nella nostra mente, dalla quale scaturiscono i nostri interessi: sulla base di questo habitus ed del nostro “campo” diamo giudizi estetici, veicolati dal nostro capitale educativo e dal nostro interesse a lottare, a giocare nel campo. Si dirà che questa particolare sociologia che si dedica agli intellettuali è stata storicamente un campo di studi di destra; Bourdieu, che gli si può dire tutto ma non è mai appartenuto alla destra, fa il lavoro “sporco” che pochi intellettuali onesti farebbero. Un lavoro che parla spesso del “campo” e degli interessi (non solo economici, ma ogni interesse culturale, come il “riconoscimento”) dei colletti bianchi. Egli cioè analizza, fra le altre cose, il rapporto fra l’intellettuale ed il potere che essi esercitano su classi o “frazioni” di classi che hanno meno tempo da dedicare alla dea Atena e non sono del settore. Altri studi, condotti con lo stesso metodo rigoroso, Bourdieu li ha sviluppati sul potere maschile (e sui gusti maschili introiettati dalle donne) nella società postmoderna. Un vero vademecum nel dibattito di questi giorni è il suo “Il dominio maschile”. Per chi non conosca Pierre Bourdieu e voglia avvicinarsi progressivamente alle sue opere e alle sue straordinarie analisi, consiglio il libretto a cura di Marco d’Eramo, Campo del potere e campo dell’intellettuale, Manifesto libri, 2002. In rete potete trovare tutto il libro delle sue memorabili Meditazioni pascaliane. Buona lettura, carissimi intellettuali…
Da condividere, soprattutto se con la lettura dei “Miti d’oggi” di Roland Barthes.
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