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Simone Weil (1909-1943) visse, nei primi decenni del XX secolo, un’esistenza breve, ma così intensa da fornire lo spunto a letture e interpretazioni diverse, talvolta addirittura opposte. Nello sviluppo delle proprie analisi, nel corso delle quali prende in considerazione gli esseri umani calandosi tra gli uomini e rifiutando qualunque tipo di prospettiva distaccata o privilegiata, avverte la necessità di ridefinire la nozione di persona: a suo avviso, soltanto chiarendone gli aspetti davvero essenziali, sarà possibile gettare le premesse di una società nuova, in grado di superare definitivamente il periodo di crisi che l’attraversa; quando parla di crisi, non allude a situazioni generiche, ma ha ben in mente il quadro a lei contemporaneo e, proprio di fronte alle contraddizioni e agli interrogativi che esso solleva, si muove alla ricerca di risposte e soluzioni. Lo dimostra chiaramente il saggio La prima radice (1), composto nel 1943 e pubblicato postumo nel ’49. L’opera nasce in un contesto molto particolare, quello del Commissariato per gli Interni e il Lavoro di “France Libre”, l’organizzazione politica in esilio capeggiata da Charles De Gaulle, presso cui Weil era stata assunta come redattrice addetta ai servizi civili.
Suo compito sarebbe stato quello di esaminare e selezionare i documenti provenienti dalla Francia occupata, però la sua attività si spinge oltre; le annotazioni e i commenti si trasformano, infatti, in veri e propri trattati nei quali, pur affrontando tematiche differenti, mostra di tener sempre presente, in modo più o meno esplicito a seconda dei casi, l’essere umano e le irrinunciabili esigenze che lo caratterizzano. Il titolo originario assegnato allo scritto consente di cogliere un primo aspetto importante: parlare di Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano ha il preciso significato di porsi all’interno di una prospettiva che privilegia i doveri anziché i diritti. Non è un caso, dunque, che venga problematizzata proprio la nozione posta a fondamento della celebre Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, elaborata nel 1789. Gli uomini di quel tempo hanno considerato i diritti come princìpi assoluti, commettendo un duplice errore.
Innanzitutto, argomenta Simone Weil, «un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa. Il diritto è efficace allorché viene riconosciuto. L’obbligo, anche se non fosse riconosciuto da nessuno, non perderebbe nulla della pienezza del suo essere. Un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto». Il secondo sbaglio, strettamente connesso al primo, è stato quello di non aver capito che, a differenza dei diritti, gli obblighi non si fondano «su nessuna situazione di fatto, né sulla giurisprudenza, né sui costumi, né sulla struttura sociale, né sui rapporti di forza, né sull’eredità del passato, né sul supposto orientamento della storia. Perché nessuna situazione di fatto può suscitare un obbligo». Per comprendere pienamente queste parole, è opportuno ricordare che, nella prospettiva weiliana, la superiorità degli obblighi si basa e richiede, in ultima analisi, il riferimento ad una realtà altra che si trova al di sopra di questo mondo e di cui, peraltro, nello scritto in esame non viene fornita alcuna specifica trattazione. La filosofa francese ne parla in modo più esplicito nel saggio composto tra il 1942 e il 1943, pubblicato poi in Francia sette anni più tardi con il titolo La personnalité humaine, le juste et l’injuste (2): «C’è una realtà collocata fuori del mondo, vale a dire fuori dello spazio e del tempo, fuori dall’universo mentale dell’uomo, fuori da tutto l’ambito che le facoltà mentali possono cogliere. A questa realtà corrisponde al centro del cuore dell’uomo l’esigenza di un bene assoluto che sempre vi risiede e che non trova mai alcun oggetto in questo mondo».
A partire da simile consapevolezza, Weil afferma che ciò che contraddistingue davvero l’uomo non dipende dal possesso di particolari diritti da esercitare per far valere la sua individualità. Piuttosto, l’elemento essenziale è costituito dall’apertura a qualcosa che è estraneo, nella misura in cui è inafferrabile nella sua totalità, ma che trova origine nel bisogno di bene e giustizia racchiuso nel cuore di tutti. Quindi, il rifiuto di servirsi della nozione di diritto nasce da una chiara convinzione del nostro autore: sono gli obblighi, che si trovano in stretta relazione con l’essere umano, e in particolare con quella che viene definita la parte più segreta della sua anima, i soli ad aprire il campo all’incondizionato, all’assoluto. Più precisamente, il punto di contatto tra obbligo ed essere umano risiede nel fatto che quest’ultimo sia oggetto del primo: «C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia ad intervenire; e persino quando non gliene si riconoscesse alcuno». Tale obbligo, benché ‘avvertito’ da tutti, non dispone di uno specifico fondamento; ciò non significa che sia privo di valore, al contrario: evidenziando come esso abbia «una verifica nell’accordo della coscienza universale», Weil sembra alludere ad un’innata attitudine o predisposizione che, a suo avviso, si manifesta nell’attenzione verso gli altri.
Infatti, se il riconoscimento del rispetto dovuto ad ogni individuo non è sempre suscettibile di una chiara formulazione a parole, può comunque trovare concreta realizzazione attraverso i bisogni terrestri dell’uomo, la cui soddisfazione è indispensabile e che vengono divisi in due gruppi fondamentali: fisici e morali. I primi, più facili da individuare, includono la fame, la protezione contro la violenza, il vestiario, l’igiene, il caldo, l’abitazione e le cure in caso di malattia. Diverso è il caso dei bisogni morali che, pur non essendo in rapporto con la vita fisica dell’uomo, sono però ritenuti ugualmente irrinunciabili: «Se non sono soddisfatti, l’uomo cade a poco a poco in uno stato più o meno analogo alla morte, più o meno simile a una vita puramente vegetativa». Nel saggio La prima radice, ne sono elencati quattordici, riconducibili a coppie di contrari: libertà e ubbidienza, onore e punizione, ordine e responsabilità, uguaglianza e gerarchia, verità e libertà di opinione, proprietà privata e proprietà collettiva, sicurezza e rischio.
Parlare di bisogni contrari non significa doverne poi ricercare una giusta via intermedia che, in realtà, renderebbe impossibile la soddisfazione di entrambi. Piuttosto, si tratta di combinarli in un equilibrio all’interno del quale figurino come irrinunciabili esigenze umane e non come capricci individuali: «Il primo criterio di distinzione dei bisogni dai desideri, dalle fantasie e dai vizi, dei cibi dalle ghiottonerie e dai veleni è che i bisogni sono limitati quanto i cibi corrispondenti. Un avaro non ha mai abbastanza oro, ma per ogni uomo, cui venga dato pane a volontà, verrà il momento della sazietà. Il nutrimento porta alla sazietà. Avviene lo stesso col nutrimento dell’anima. Il secondo criterio, legato al primo, è che i bisogni si dispongono per coppie di contrari e devono combinarsi in un equilibrio. L’uomo ha bisogno di nutrimento, ma anche di un intervallo fra i pasti […] ciò che si chiama la giusta via di mezzo consiste in realtà nel non soddisfare né l’uno né l’altro dei bisogni contrari. È una caricatura del vero equilibrio, nel quale invece i bisogni contrari sono, l’uno e l’altro, pienamente soddisfatti». Ai bisogni sopra individuati, se ne aggiunge un altro alla cui analisi è dedicata gran parte del saggio in esame: il radicamento. L’importanza di questo concetto, a cui peraltro non corrisponde alcun bisogno contrario, è testimoniata dal fatto che ella si soffermi a lungo sulle pericolose conseguenze che si verificano qualora esso venga a mancare, generando lo s-radicamento, considerato una vera e propria malattia.
Il termine indica, letteralmente, ‘la mancanza di radici’ e, nella prospettiva weiliana, la perdita della capacità di sentirsi parte della società in cui si vive, il venir meno di ogni punto di riferimento. La filosofa francese è convinta che questa malattia possa assumere forme differenti, a seconda dei contesti e delle circostanze, ma che si manifesti nel modo più allarmante attraverso lo sradicamento della cultura. La perdita di contatto col contesto di tradizioni da cui si proviene, e in cui pertanto si è inevitabilmente inseriti, non può che generare individui sradicati, incapaci di pensare e di agire. La posizione di Simone Weil è ben lontana sia da un vuoto attaccamento al passato sia da un orientamento politico di tipo reazionario; ciò a cui davvero si riferisce emerge con chiarezza quando scrive: «Per dare bisogna possedere, e noi non possediamo altra vita, altra linfa che i tesori ereditati dal passato e digeriti, assimilati, ricreati da noi. Fra tutte le esigenze dell’anima nessuna è più vitale di quella del passato». Soltanto la profonda e reale conoscenza dei tesori del pensiero umano consente la possibilità sia di accettarli facendoli propri sia di rifiutarli prendendone le distanze ma, in entrambi i casi, in modo del tutto consapevole. Un atteggiamento critico di questo tipo andrebbe diffuso attraverso l’insegnamento scolastico: «Si parlerebbe del dogma come di qualcosa che nel nostro paese ha avuto una funzione di primaria importanza e al quale uomini di altissimo valore hanno sempre creduto con tutta l’anima loro; non si dovrebbe nemmeno dissimulare che quei dogmi sono stati pretesto di innumerevoli crudeltà; […] se gli scolari domandano: “È vero?”, bisogna rispondere: “Ѐ così bello che certo deve contenere molta parte di verità. In quanto al sapere se sia assolutamente vero o no, cercate di diventare capaci di rendervene conto quando sarete grandi”».
Il compito assegnato al sistema scolastico, ossia quello di assicurare un legame tra passato e futuro attraverso il presente, viene poi idealmente trasferito alla nazione. Eppure, proprio nel momento in cui tale funzione è stata interamente rimessa allo stato, Weil evidenzia come esso si stia decomponendo; e, poiché all’idea di nazione è associata la memoria di un passato storico che in qualche modo si conserva nella coscienza di ciascun essere umano, lo sradicamento comporta ad un tempo una perdita di identità individuale e collettiva. La riflessione del nostro autore si concentra su entrambi gli aspetti, sviluppandosi a partire dall’analisi della condizione di alcune categorie di lavoratori (3). In particolare, lo sradicamento raggiunge la massima gravità presso la classe operaia: questi lavoratori, infatti, «non si sentono in casa propria né in fabbrica, né nelle loro abitazioni, né nei partiti e sindacati che si dicono fatti per loro, né nei luoghi di divertimento, né nella cultura intellettuale, qualora tentino di assimilarla». Weil, che sperimenta su se stessa la condizione di operaia (4), affronta il problema ‘dall’interno’, ossia a partire dalla constatazione diretta dell’infelicità e del disagio che affliggono questi lavoratori. La necessità di prestar loro attenzione non come astratta e generica categoria sociale, ma come creature profondamente sradicate, le permette sia di elaborare una riflessione profonda e originale sia di acquisire consapevolezza che nessun tipo di provvedimento, né rivoluzionario né riformista, è di per sé sufficiente a garantire un miglioramento finché non è accompagnato da un tentativo reale di comprendere le cause della loro sofferenza.
Sulla base di questa convinzione, Simone Weil traccia poi le linee guida di un piano completo che possa consentire un’effettiva trasformazione; un piano che, a suo avviso, richiede necessariamente un intervento su più fronti. Osserva infatti: «Che cosa giova agli operai ottenere con le loro lotte un aumento dei salari ed una disciplina meno dura se contemporaneamente, in qualche ufficio studi, gli ingegneri, senza alcuna intenzione malvagia, inventano macchine destinate ad esaurirli corpo ed anima o ad aggravare le difficoltà economiche? Che cosa servirebbe loro la nazionalizzazione parziale o totale dell’economia, se lo spirito di quegli uffici studi non mutasse?». Dunque, il cambiamento richiede non solo un nuovo modo di concepire la produzione industriale, ma anche e soprattutto la formulazione di una cultura spirituale che i lavoratori possano avvertire come propria e nella quale si sentano a proprio agio. La filosofa francese, convinta che un ruolo di primo piano spetti alla cultura, cerca di mettere a fuoco le difficoltà che tale questione solleva: «Due sono gli ostacoli che rendono difficile al popolo l’accesso alla cultura. Uno è la mancanza di tempo e di forze […] Quest’ultimo ostacolo non ha nessuna importanza. O almeno non ne avrebbe se non si commettesse l’errore di attribuirgliene. La verità illumina l’anima in proporzione della sua purezza e non già in proporzione di una qualsiasi quantità. Non è la quantità di metallo che conta, bensì il grado della lega. In questo campo, un po’ d’oro puro vale molto oro puro […] l’altro ostacolo ad una cultura operaia consiste nel fatto che alla condizione operaia […] corrisponde una particolare disposizione della sensibilità. E quindi v’è qualcosa di estraneo in quel che è stato elaborato da altri e per altri».
Occorre allora ricercare modalità adatte a trasmettere la cultura al popolo in modo che diventi effettivamente anche cultura del popolo, una forma di sapere che sia il frutto di un’elaborazione personale e il risultato di un’altrettanto personale disposizione della sensibilità, non certo un prodotto da offrire alle masse di lavoratori dopo aver operato una serie di semplificazioni. Del resto, proprio la ricerca incessante di un movente, di un’ispirazione, costituisce un tratto distintivo della filosofia weiliana che emerge in modo molto chiaro attraverso una similitudine presente nell’opera La prima radice: «Una giovane donna felice, incinta per la prima volta, che sta cucendo un corredino, pensa a cucire bene. Ma non dimentica nemmeno un momento il bambino che porta dentro di sé. Nello stesso momento, in qualche laboratorio carcerario, una condannata cuce pensando anch’essa a cucire bene perché teme altrimenti di venir punita. Potremmo immaginare che le due donne facciano nello stesso momento lo stesso lavoro e che siano attente alla stessa difficoltà tecnica. E nondimeno esiste un abisso di differenza fra l’uno e l’altro lavoro. Tutto il problema sociale consiste nel far passare i lavoratori dall’una all’altra di queste due situazioni». Ciò è possibile solo attraverso il radicamento, concetto fondamentale sul quale Weil si esprime in questi termini: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale, all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente».
Simone Weil si dedica all’analisi del radicamento a partire da una considerazione di carattere generale: se l’indagine critica condotta sulla società ha evidenziato la perdita di qualunque riferimento in termini di valori, coerentemente si impegna nel tentativo di individuare un criterio in grado di ispirare i popoli e sottolinea come, affinché una scelta di questo tipo si riveli efficace, «non basta aver intuito quella nozione, avervi rivolto la propria attenzione, averla compresa; bisogna fissarla permanentemente nell’anima in modo che sia presente persino quando l’attenzione si rivolge ad altro». Infatti: «Voler condurre creature umane – si tratti di altri o di se stessi – verso il bene indicando soltanto la direzione, senza essersi assicurati della presenza dei moventi necessari, equivale a voler mettere in moto un’automobile senza benzina, premendo sull’accelerazione. O è come se si volesse accendere una lampada a olio senza aver messo l’olio. Quest’errore è stato denunciato […] eppure si continua a commetterlo». Il riferimento ad un modello di bene, che dovrebbe costituire la molla delle azioni e delle intenzioni umane, non equivale affatto alla definizione precisa di un presunto bene assoluto, poiché la sua comprensione si colloca in una sfera che è inafferrabile dal linguaggio degli uomini. L’esigenza di individuare criteri di questo tipo nasce dal bisogno di ricostruire la società francese nel caso di un’eventuale sconfitta tedesca. In Francia, la futura società dovrà dunque assumere come riferimento un metodo nuovo, capace di tener conto di piani operativi differenti (religioso, economico, sociale e politico) ed intervenire sulla realtà mediante iniziative basate sull’idea di bene, la sola in grado di tutelare la comunità umana dalla minaccia del totalitarismo, l’esempio più lampante di sradicamento della nazione. Impresa non facile, riconosce Weil, ma che vale la pena sperimentare: «Il metodo di azione politica qui accennato supera le possibilità dell’intelligenza umana, almeno per quanto se ne sa. Ma proprio questo ne fonda il valore. Non bisogna chiedersi se si è capaci o no di applicarlo. La risposta sarebbe sempre negativa. Bisogna concepirlo in un modo assolutamente chiaro; affissarlo a lungo e spesso; affondarlo per sempre in quella parte dell’anima dove i pensieri si radicano; e tenerlo presente in ogni decisione. È forse possibile, in questo caso, che le decisioni, benché imperfette, siano buone. Chi scrive versi desiderando fare dei versi belli come quelli di Racine non farà mai un bel verso. Ma ne farà ancor meno se non avrà neppure quella speranza».
Simone Weil, in sostanza, considera il bene come un’idea limite irrinunciabile, di cui non ritiene necessario dimostrare l’esistenza; un tentativo del genere appare ai suoi occhi del tutto irrilevante e ciò emerge con chiarezza quando, nelle pagine del saggio La prima radice, scrive: «Se la giustizia è incancellabile nel cuore dell’uomo, vuol dire che essa ha, in questo mondo, una sua realtà». Il fatto che sia in qualche modo percepibile costituisce una condizione di per sé sufficiente, che non viene messa in discussione nemmeno di fronte alla riconosciuta impossibilità di parlarne attraverso discorsi definiti. Il linguaggio è sì limitato, ma questo non rappresenta necessariamente un limite: infatti, il desiderio di bene radicato nel cuore degli uomini che rivolgono all’ ‘altra realtà’ la propria attenzione resta tale anche laddove non sia suscettibile di una precisa formulazione a parole purché, tuttavia, sia realmente presente; e la presenza, nella prospettiva weiliana, si manifesta indirettamente attraverso il rispetto per l’essere umano, chiunque egli sia, e i suoi bisogni, fisici e morali.
NOTE:
(1) Il titolo assegnato da Simone al saggio è in realtà Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano; quello con cui venne pubblicato da Gallimard, nel 1949, è editoriale.
(2) Trad.it. «La persona e il sacro», in Simone Weil. Pagine scelte, Marietti, 2009, pp. 177-204
(3) La filosofa francese, in particolare, analizza il caso dei contadini e degli operai.
(4) Nel dicembre 1934, dopo aver chiesto al ministero della Pubblica Istruzione un congedo dall’insegnamento al fine di maturare un’esperienza diretta in fabbrica, era entrata come operaia addetta alle presse in una società di costruzioni elettriche e meccaniche, trascorrendo mesi intensi, segnati dalla sofferenza e dalla fatica.
Oggi che milioni di persone hanno abbandonato il loro paese, probabilmente il concetto di radicamento dovrebbe essere rivisto e ridimensionato. Inoltre un confronto con il mondo anglosassone avrebbe forse potuto mostrare come non sia tanto il bene l’antitesi del totalitarismo, quanto la società aperta, che riconosce uno spazio di autonomia all’individuo.