Come uscire dalla caverna. La filosofia di Westworld

 

Sotto l’onnipresente musica del Debussy di “Reverie”, che contribuisce a creare un paesaggio onirico in cui si ridefinisce il concetto stesso di realtà, gli sceneggiatori/divinità Jonathan Nolan e Lisa Joy costruiscono un palcoscenico teatrale in cui uomini e macchine si scambiano i propri copioni/programmazioni, ed in cui si riedificano, come da buona tradizione della letteratura classica e fantascientifica, l’identità, il concetto di soglia, quello di autocoscienza e di libertà. Westworld è uno dei più meravigliosi prodotti di letteratura cinematografica degli ultimi anni,  travalicando l’etichetta di “fantascienza” per approdare ad un racconto esistenziale sui confini dell’umano: e come ben si sa, vivere ai confini significa rendersi conto dei vari “interregni” tra una zona e l’altra. Per guardarsi finalmente con occhi diversi.   (ATTENZIONE, SEGUE SPOILER)
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Melancholia, di Lars von Trier. Una recensione

La famosa "Ofelia" di Millais

Nelle depressioni l’annientamento presenta una tonalità diversa da quella della fine nelle schizofrenie. Non si tratta di angoscia per quanto sopravviene, di esperire una catastrofe  cosmica che si sta producendo; si tratta piuttosto del raccapriccio davanti a ciò che già è, il terrore davanti al vuoto, alla consumazione, all’annientamento. Un caratteristico senso di isolamento, che incontriamo come carattere della fine del mondo schizofrenica, lo ritroviamo talora anche presso tali depressi“. (de Martino, La fine del mondo, p.34)

La pura depressione è caratterizzata da un profondo immotivato cordoglio, da un impedimento di ogni divenire psichico, sentito soggettivamente come doloroso e tenuto al tempo stesso per obiettivo. Tutti gli stimoli cadono, il malato non prende piacere di nulla, la mobilità e attività diminuite si trasformano in assoluta mmobilità. Nessuna decisione può esser presa, nessuna attività esser presa in considerazione. Le associazioni non sono più disponibili. I malati si lamentano del loro vuoto, della loro insufficienza, della loro mancanza di affetti, della loro incapacità, della loro memoria confusa. Il mondo appare grigio, indifferente. Il passato è pieno di colpa, il presente miserabile, il futuro non ha orizzonte. Nella sindrome melancolica la depressione si sviluppa in senso delirante: i malati sono responsabili della infelicità di tutto il mondo” (Jasper).  Proprio per questa onnipresente colpevolezza sottolineata da Jasper nelle sindromi depressive, il mondo “merita la distruzione” e un depresso cronico, come sottolineava Freud, diviene facilmente irritabile. La causa del suo malessere (e l’allucinatoria soluzione del malessere) può divenire spesso quel mondo stesso, che merita una condanna. Il quadro si ritrova nelle parole di Justine, una delle due protaginiste del film: “l’umanità non merita di sopravvivere”.

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Perché la guerra? Carteggio Einstein-Freud. Una recensione

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La reazione di Sigmund Freud di fronte agli avvenimenti della Prima guerra mondiale è quella di un uomo in cui l’iniziale slancio patriottico, avvertito allo scoppio del conflitto, lascia spazio ad un profondo senso di smarrimento di cui il saggio Perché la guerra? costituisce una chiara testimonianza. Del resto, la drammaticità degli eventi – sostiene lo studioso austriaco – costringe tutti gli individui a fare i conti con la perdita di (apparentemente) solidi punti di riferimento, e la gravità di tale perdita è tanto maggiore quanto più elevato è il (presunto) livello di civiltà dei popoli coinvolti. La guerra, però, non ha stravolto soltanto la vita degli uomini: persino il tradizionale modo di concepire la morte è stato investito dal cambiamento; Freud nota che, sebbene l’inconscio spinga da sempre il singolo ad allontanarne il pensiero e a rifiutarne l’indissolubile legame con la realtà, è chiaro che “la morte non può più oggi essere negata; siamo costretti a crederci. Gli uomini muoiono veramente; e non più uno alla volta, ma in gran numero, spesso a decine di migliaia al giorno”.

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Martin Hengel, Ebrei, Greci e Barbari. Una recensione

Tempio di Oropos (Attica). Di qui proviene l'iscrizione del più antico ebreo ellenizzato della storia: "Mosco, figlio di Moschione, giudeo, in seguito a un sogno su ordine del dio Anfiarao e di Igea"

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Il presente studio, editato dall’autore nel 1981, è la meta a cui egli è arrivato dopo anni di intense ricerche compiute sulla storia giudaica; ricerche che hanno trovato forma di espressione nella rivista che da anni accoglie i più importanti studi sul versante storico del giudaismo, la Cambridge History of Judaism. Tale opera dunque non è altro che la riproposizione in forma più vasta, aggiornata e compita dei precedenti contributi che egli pubblicò su tale rivista. Erudito in discipline storiche e filosofiche, l’autore riprende un tema tanto caro nella sua precedente produzione letteraria: l’incontro-scontro culturale del giudaismo con l’ellenismo con particolare riferimento alla Palestina fino alla seconda metà del II sec. a.C. L’autore stesso afferma: “questo lavoro rappresenta in molti punti una continuazione della ricerca svoltavi. I nuovi reperti archeologici che continuano a venire alla luce, come pure i continui progressi della ricerca, forniscono un ricco materiale a questo scopo”. Il presente contributo si colloca perciò nella stessa prospettiva dei precedenti: il tema preso costantemente in questione dall’autore è “l’incontro tra il giudaismo e la cultura ellenistica” in tutti i suoi aspetti, anche filosofici. L’autore, professore di N.T. all’Università di Tubinga, tratta questo argomento con l’intento di chiarire questo tema limitatamente a “quel periodo della storia giudaica tuttora oscuro per la precarietà delle fonti, in quanto egualmente lontano per gli studiosi dell’Antico Testamento come per quelli del Nuovo“, dal momento che proprio in tale periodo “vennero posti i fondamenti decisivi per l’autocoscienza del popolo giudaico dell’«epoca neotestamentaria» e non solo della diaspora nell’area di lingua greca, ma anche della madrepatria, la Palestina”.

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