Paradigma gerarchico – prima parte

Introduzione

Oggi l’idea stessa che il riflettere e il pensare in filosofia possano dare origine a un sistema di pensiero appare quasi anacronistica. Eppure un testo filosofico è comunque l’esito di un percorso di esperienze e riflessioni dove, pur provvisoriamente, vengono organizzati e esposti gli esiti a cui quelle riflessioni sono approdate. Questo testo si occupa di paradigmi. Cosa sono i Paradigmi? Schemi? Strutture a priori? Aperture? Orizzonti? Forse il termine migliore per caratterizzarli è “organizzazione”, anche se l’ambito semantico di questo termine è troppo ampio e impreciso. Del resto, se si dovesse caratterizzare la differenza tra corpo e pensiero, tra spirito e materia, il discorso più appropriato sarebbe proprio centrato su quella vasta area semantica coperta dal termine “organizzazione”. Insensato sarebbe ora cercare una maggior precisione e forse altrettanto insensato sperare di pervenire ad una definizione esplicita.Ogni trattato, ogni teoria ha una visione parziale dell’oggetto teorizzato; Teorizzando si conquista e si perde. Questa conquista e questa perdita assumono un significato profondamente diverso all’interno delle varie concettualità che organizzano i vari paradigmi. All’interno di quel paradigma “vincente”, qui battezzato “gerarchico”, è l’uomo a costruire le teorie e, con esse, la conquista e la perdita, mentre questa semantica risulta del tutto inesprimibile all’interno di un altro paradigma “quello destinale” dove l’attore dell’agire teorico è l’Essere, un termine molto usato da Heidegger e dai filosofi che in qualche modo si richiamano al suo pensiero, che ha però in questo scritto senso molto differente. Del resto l’argomento scelto come strumento e filo conduttore sono le teorie in generale e quelle scientifiche in particolare. Proprio quel tipo di sapere a cui Heidegger non attribuiva neppure lo statuto di aperture di verità. Il nostro vivere e interpretare il mondo, non avviene secondo un unico paradigma ma è indubbio che uno di questi si è costituito come paradigma egemone nell’addivenire della storia biologica e culturale dell’uomo, prefigurando per noi un destino di vissuti dalle teorie. La prima parte si occupa appunto di questo paradigma egemone che, per motivi inerenti al suo funzionamento è stato denominato “paradigma verticale”.

Vengono analizzate successivamente tre forme paradigmatiche: quella gerarchica dell’agire-patire, del soggetto-oggetto, (paradigma vincente), quella circolare e quella destinale. All’interno di ognuna assumono forma, connessioni e significati diversi, concetti quali verità, architettura, complesso, ecc. Nessuno di questi paradigmi è presentato come superiore agli altri: è però evidente la loro diversa efficacia e la diversa maniera di mappare il nostro aggirarci nel mondo, come è altrettanto evidente che, i gli altri paradigmi, agevolando un suo parziale superamento, consentono una diversa apertura verso il mondo. Il nostro accesso al mondo avviene secondo coacervi personalizzati di paradigmi, ma in ogni caso nuove aperture non rinnegano necessariamente le precedenti neppure quando le correggono o le negano.

Il discorso sulle teorie è più ampio rispetto alle normali indagini epistemologiche. Purtroppo si è sempre guardato alle teorie con un atteggiamento asettico e aristocratico. Si è sempre pensato ad esse come a organizzazioni di pensiero spirituali e passive che venivano scoperte o inventate, illustrate o imparate, approvate o smentite ma sempre secondo processi più o meno tranquilli più o meno e incruenti. Il pensiero sulle teorie è sempre stato troppo schizzinoso ignorando proprio la dimensione delle teorie come “soggetti” attivi.
In un certo senso si è pensato alle teorie conformemente a moduli Lamarckiani, secondo i quali le teorie vengono apprese, elaborate, collaudate, trasmesse e non secondo moduli Darwiniani dove le teorie vengono selezionate e ci selezionano. Ma se questo atteggiamento è apparentemente sensato in relazione alle teorie ‘nobili’ nate in un ambiente culturalmente sviluppato, non lo è per nulla in relazione a comportamenti e abitudini di vita sopravvenute nel nostro passato, in forme che solo in tempi successivi e ‘più nobili’, sono state lette e riconosciute come teorie.
Questo atteggiamento, se da una parte ha allontanato le teorie stesse dalla carnalità dell’uomo, dall’altra ha contribuito a vedere l’uomo teorizzante un uomo disincarnato, spirituale, intellettuale.

Ma è chiaro che le teorie non sono solo quelle nobili e istituzionalizzate come la fisica ed è pure chiaro che, se si vuole comprendere l’agire teorico, si debba riflettere anche su quei comportamenti, quelle abitudini, quelle organizzazioni, con cui i nostri progenitori si orizzontavano nel mondo che emersero e si svilupparono molto prima che esistesse la parola “teoria”.  Con questo allargamento si risale ben oltre la cosiddetta “storia” di cui sono sopravvissute testimonianze o manufatti culturali, che ha imposto un confine, indefinito, ma concettualmente significativo, fra storia dell’uomo storico e storia dell’uomo biologico.  Così intese le teorie perdono quell’alone intellettuale di spiritualità che le ha sempre accompagnate e si presentano come quei soggetti che nel lontano passato sono emersi come soggetti agenti e sopravviventi sul dolore e sulla morte dei singoli individui, prefigurando per l’uomo un destino schizofrenico di conquista e di perdita.  Nel saggio si adotta spesso il termine “preteoria”, volendo significare con esso teorie con pochi vincoli ed ampi gradi di libertà. Preteoria ad esempio, è la concezione di un mondo formato da oggetti e fatti, preteoria è l’istintiva fiducia condizionata nei sensi, preteorie sono i linguaggi.

L’esistenza di queste preteorie mette in luce l’esistenza di configurazioni generali di comportamento con ampi gradi di libertà che, presenti ed attive nel nostro modo di vivere come organizzazioni del nostro agire, vengono a costituire un più o meno amalgamato coacervo di linee d’interpretazione che costituiscono l’organizzazione del nostro interagire. Entro le configurazioni di questi paradigmi preteorici si esprimono le teorie, così come entro i sistemi operativi degli elaboratori si esprimono i programmi. Questa similitudine che ha poco dell’analogia e molto della metafora riesce comunque a dare almeno una vaga idea dei rapporti fra teorie e preteorie.  Molte filosofie interpretano il nostro rapporto col mondo come una rappresentazione. Una rappresentazione sensibile o intellettuale, fedele o deformata, ma comunque pur sempre come una rappresentazione, in cui noi, abitando nel mondo, lo guardiamo asetticamente e senza reciproche contaminazioni. In sostanza si è spesso voluto isolare ciò che è il nostro vivere nel mondo carnalmente, un vivere in cui noi respiriamo, lavoriamo, ci nutriamo ecc. da ciò che è il nostro rappresentare il mondo. Ma anche volendo isolare artificialmente questo fantomatico momento di rappresentazione e questa altrettanto fantomatica facoltà rappresentativa, stranamente la si è sempre interpretata e descritta come se il mondo fosse lì di fronte a noi e i nostri sensi in qualche modo lo rispecchiassero e non con un processo dal tutto simile a quello della nutrizione e digestione.  Di fatto noi agiamo nel mondo orientandoci ed agendo su esso, non come osservatori ma come assimilatori che rendono simile il dissimile, ed espellono ciò che non può essere assimilato. L’atto di percepire il mondo è già una colonizzazione del mondo stesso in cui convergono il mondo, gli oggetti, i fatti, i termini, le proposizioni, il pensiero e il linguaggio. Questo è un processo vincente e consolidato, una preteoria stabile e strutturalmente costitutiva del nostro essere: per noi è quasi un binario su cui scorre il treno del nostro guardare/ vivere/ esperire. Un binario di cui abbiamo dimenticato l’esistenza proprio perché è entrato a far parte del nostro mondo colonizzato.

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