Vittorio Sgarbi, Piene di Grazia. I volti della donna nell’arte, recensione di Erica Trabucchi

 

Giaele e Sisara, di Artemisia Gentileschi

Giaele e Sisara. Artemisia Gentileschi, che subì una violenza sessuale, realizza in quest'opera del 1620 un tema che l'accompagnerà per tutta la vita, e cioè quello di una donna energica e libera dal dominio maschile

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Vittorio Sgarbi non ha mai nascosto la sua passione per le donne. Spesso negli show televisivi si è divertito con provocazioni ed eccessive confidenze sulla sua vita, anche sessuale. Eppure, quando Sgarbi si ricorda delle sue origini, della sua vasta cultura artistica, vedono la luce opere letterarie di grande spessore. La sua ultima fatica, “Piene di grazia. I volti della donna nell’arte”, si concentra proprio sulla figura della donna nelle opere d’arte, secondo un andamento cronologico, a partire dal Medioevo sino alle opere di artisti a noi contemporanei. “Il mondo femminile nell’arte consente riflessioni, discussioni, e questo libro lo documenta, con una serie di esempi che indicano l’arte, il mistero e la seduzione che dalla donna escono”, potrebbe essere il sunto del testo, l’obiettivo che spinge l’autore nella ricerca. Perché se la storia dell’arte è una fonte immensa di opere a cui fare riferimento, una scelta ben ponderata e metodologicamente precisa come quella di Sgarbi non può essere sminuita.

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Martha Nussbaum, Terapia del desiderio. Una recensione (di Anna De Paolis)

“Ho sostenuto che una concezione del compito della filosofia legata alla medicina, volta ad alleviare le sofferenze umane, porta a concepire in modo nuovo il metodo e la procedura filosofica; e che le scelte del metodo e della procedura non sono, come alcuni potrebbero supporre, neutre rispetto al contenuto, ma strettamente connesse con una diagnosi delle difficoltà umane e con una concezione intuitiva di cosa sia la fioritura dell’umano. Ho tentato di dimostrare che in ogni caso le procedure incarnano concezioni complesse di cosa sia salutare e cosa sia malattia, nonché dell’amicizia e della struttura della comunità […] Ma, per scendere nello specifico, quali penso che siano stati i guadagni metodologici di queste scuole, sia rispetto al loro contesto storico che al nostro modo di intendere le modalità in cui dovrebbe funzionare una filosofia morale?” (Martha Nussbaum, Terapia del desiderio)

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La filosofia torna a parlare della vita. E lo fa con una voce femminile. Ripercorrendo ed ampliando il percorso straordinario di Pierre Hadot, questo è infatti uno studio insolito di filosofia greca, scritto da un essere umano, sugli esseri umani, per servire agli esseri umani. Quando la professoressa Martha Nussbaum scrive “Lo scrittore e docente di filosofia è una persona fortunata, fortunata come possono esserlo pochi esseri umani, per essere in grado di spendere la sua vita esprimendo i suoi pensieri più gravi e sentimenti”, sta parlando di un privilegio che spetta a molti umanisti di professione, ma che generalmente non è esercitato. Forse per il sospetto che la filosofia possa abbassarsi alla vita, comunicando e spiegando con un linguaggio quanto più possibile chiaro (ma non per questo semplice) problemi e forme di vita che fanno parte della nostra esperienza quotidiana. Le sue convinzioni, la sua missione filosofica forniscono una prospettiva entro la quale le più profonde perplessità non sono mere astrazioni teoriche, ma dei tentativi di vivere. La Naussbaum riprende in questo libro un concetto antico quanto dimenticato, la filosofia come terapia e medicina dell’anima, messa in paradigma da un famoso passaggio di Epicuro: “E’ vuoto l’argomento di quel filosofo che non riesca a guarire alcuna sofferenza dell’uomo: come non abbiamo alcun bisogno della medicina se essa non riesca a espellere dal nostro corpo le malattie, così non abbiamo alcuna utilità della filosofia se essa non riesce a scacciare le sofferenze dell’anima”. Il suo coinvolgimento personale in questa “missione” filosofica la rende un esponente di quel gruppo di intellettuali (ancora esiguo) che imbarazzano la maggior parte di noi con la pretesa di “fare del bene”. I filosofi ellenici ed ellenistici che lei con tanta competenza riaffronta hanno fatto appello alla pura curiosità intellettuale e alla teoria pura molto meno rispetto al più autentico desiderio di prendere la vita in mano e scappare, resistere al dolore di cui è erede la condizione umana. L’obiettivo generale della filosofia greca non erano i piaceri mentali dell’uomo democratico di Platone, figuriamoci l’estasi intellettuale del suo vero filosofo, ma la liberazione dalle passioni doloroseche distorcono la nostra percezione nel mondo e rovinano il nostro equilibrio con gli altri e con l’ambiente in cui viviamo.

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Eric Dodds, I Greci e l’irrazionale. Una recensione (di Francesco Di Matteo)

Gli uomini che hanno creato il primo razionalismo europeo non sono mai stati – fino all’età ellenistica – “semplici” razionalisti: vale a dire, erano profondamente e mentalmente consapevoli del potere, della meraviglia e del pericolo dell’irrazionale. Ma potevano descrivere quello che succedeva sotto la soglia della coscienza solo nel linguaggio mitologico o simbolico; non avevano nessuno strumento per capirla, ancora meno per controllarla” (Dodds, I Greci e l’irrazionale)

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Dionisio e Apollo erano così rivali in Grecia? Razionalità greca, un mito o un modello per i “moderni”? Qual è stata la vera mentalità degli antichi Greci? Differiva dalla nostra? Abbiamo ricevuto un’idea distorta dei Greci da generazioni di studiosi classici? La filosofia greca si basava davvero (come ci è stato insegnato) sulla netta divisione fra mito e storia, razionale/irrazionale? E qual è il significato di queste domande per la nostra società? Queste sono le questioni a cui tenta di rispondere Dodds in questo libro, pubblicato mezzo secolo fa, ma ancora attuale, fresco e pieno di rilevanze per noi postmoderni, storiograficamente meno ingenui rispetto a qualche anno fa. Dodds però non opera in un contesto di valorizzazione del mito e di qualificazione, come per esempio ha fatto un certo filone irrazionalisitico o come ha fatto Károly Kerényi nei suoi lavori sulla mitologia greca e sulla religiosità classica. Il suo scopo è più propriamente rivalutare una grecità costruita a tavolino dagli storiografi, e mostrarne contraddizioni e complessità.

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John Rawls, Una teoria della giustizia. Una recensione (di Michela Rossi)

Le diseguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due condizioni: devono essere legate a funzioni ed a posizioni aperte a tutti, in condizioni di parità equa delle opportunità; devono procurare il più grande vantaggio ai membri più svantaggiati della società”. (John Rawls, Il principio di differenza, par. 46 di “Una teoria della giustizia”, 1971)

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Contro l’utilitarismo classico di Bentham, Mill e seguaci postmoderni, John Rawls propone una nuova soluzione per coniugare giustizia sociale e liberalismo in una nuova, celebre, teoria della giustizia. Teorico del contratto, lo studioso è considerato oggi nel mondo come il massimo esperto della “terza via” tra liberismo e socialismo, e il suo libro è ormai un classico della filosofia politica. Rawls rilegge Aristotele e i classici della filosofia politica inglese (Locke, Hume, Hobbes). Il suo contrattualismo è in parte ispirato a Rousseau, ma senza una teoria dello stato di natura. La sua concezione della morale affonda le sue radici in Kant. Il libro, pubblicato nel 1971, genererò molte critiche ed un dibattito vastissimo: dagli ultra-liberali era ritenuto troppo di sinistra, e dai socialisti troppo di destra. Dal 1971 al 2002, anno della sua morte, Rawls ha pubblicato molti articoli e altri libri per spiegare, ampliare e difendere la sua teoria, diventata nel frattempo un pilastro delle teorizzazioni sociopolitiche del Ventesimo secolo.

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