Frans de Waal, Primati e Filosofi: evoluzione e moralità

 

uno dei libri più venduti dell’autore

Chi è Frans de Waal? Qui il suo canale facebook, continuamente aggiornato sulle sue osservazioni  in “pillole”, naturalmente secondo quello strano linguaggio rapido, visivo e immediato che veicola la rete. In due parole, de Waal è un eminente primatologo che ha dato un’ importante svolta a questi studi, con tutte le conseguenze del caso. Non esiste migliore introduzione dei suoi  lavori di questo video (sub. Ita), dove soprattutto i filosofi troveranno pane per i loro denti. Nella parte finale del video, de Waal afferma, riferendosi implicitamente a quella distinzione sempre viva (o ancora viva) tra “moderni” e “postmoderni”: […] questo studio divenne molto famoso, ricevemmo molti commenti, soprattutto da antropologi, economisti e filosofi. I filosofi non lo apprezzarono per niente. Perché credo si fossero convinti che l’imparzialità fosse un argomento complesso e che gli animali non potessero concepirla. Un filosofo arrivò a scriverci che era impossibile che le scimmie avessero il senso dell’imparzialità perché l’imparzialità era stata inventata con la Rivoluzione Francese. Un altro scrisse un intero capitolo dicendo che avrebbe accettato che si trattasse di imparzialità se la scimmia che aveva ricevuto l’uva l’avesse rifiutata. La cosa buffa è che Sarah Brosnan, che ha condotto l’esperimento con gli Scimpanzè, aveva un paio di combinazioni con gli Scinpanzé in cui, quello che riceveva l’uva, la rifiutava, fino a quando anche il partner riceveva dell’uva”. Lascio i commenti ai lettori; dico solo che de Waal non ha assolutamente abbandonato il concetto di “natura”, anzi, vi si è gettato completamente alla sua ricerca. Comunque la si pensi su de Waal, è difficile negare l’importanza del suo lavoro, che si estende per più di tre decenni, tra cui gli ultimi 18 anni presso il National Primate Research Center della università di Emory. Il lavoro di de Waal ha contribuito a un cambiamento sostanziale nel modo di pensare scientifico e popolare sul comportamento sociale degli animali, non solo dei primati. In particolare, la ricerca di de Waal sulla risoluzione dei conflitti dei primati e sul loro comportamento sociale ha screditato l’ipotesi che i primati siano  individualisti e aggressivi. Il suo lavoro ha dimostrato scientificamente che non solo molti primati mostrano veramente l’opposto di quanto teorizzato solo pochi anni fa dalla comunità scientifica, ma anche che il loro complesso comportamento sociale è come radicato nella loro natura, come lo è ogni istinto di autoconservazione. I primati si comportano socialmente  non a dispetto delle loro disposizioni biologiche, ma piuttosto seguendo una loro profonda disposizione naturale. Parlando secondo i canoni della più classica filosofia continentale, si potrebbe dire che de Waal abbia dimostrato la “buona natura” dei nostri più vicini compagni di evoluzione. Nel libro qui recensito, de Waal ha provato il grande salto che un po’ tutti i primatologi sono spesso propensi a fare, quello verso l’uomo, nel cercare di capire laicamente le basi della moralità umana, i “mattoni” che ne costituiscono le fondamenta. Ma se per l’autore la scienza fonda abbondantemente la comprensione della moralità umana,  de Waal appare scettico verso coloro che vorrebbero che la scienza determini i valori umani, o verso coloro che con un approccio militante (si riferisce ai “new atheists”) finiscono per sostituire un comportamento dogmatico con un altro.

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Frankenstein Incompreso, una recensione del libro di Mary Shelley

Aligi Sassu, Prometeo, 1970

Ci sono storie radicate profondamente nella cultura e così spontanee alla mente da sembrare naturali, indiscutibili, innate. Sono storie eterne perchè senza memoria; sviluppate nel tempo del Mito si trascinano invisibili di generazione in generazione. Chiamate da Jung archetipi vengono continuamente riplasmate, anche in epoche moderne, senza perdere il loro alone di immortalità. Qui sta forse il segreto nascosto del Frankenstein di Mary Shelley, madre di fantascienza. Dalla mitologia il romanzo prende in prestito le idee della creazione e dell’acquisizione della conoscenza con un riferimento esplicito a Prometeo, la divinità greca che forgiò l’uomo con l’argilla e che, per avergli restituito il fuoco – simbolo dell’evoluzione tecnico-scientifica – venne punito da Zeus per l’eternità. La fama e la diffusione popolare del romanzo però non hanno impedito la nascita di fraintendimenti e rielaborazioni, fissati nell’ immaginario collettivo da successive trasposizioni teatrali e cinematografiche. Il romanzo originale non ha niente a che vedere con quel mostro sbandierato dallo scetticismo antiscientifico che invade oggi i dibattiti della bioetica e non è assolutamente un manifesto contro la tecno-scienza e le sue invasioni di presunte prerogative divine. L’ argomento Frankestein utilizzato dai detrattori della scienza non trova, nelle sue modalità, alcun riscontro nel testo: i riferimenti mitici del romanzo rimangono sempre pure metafore letterarie.  L’opera di Shelley è nata come storia di orrore e parla di passioni umane, di convenzioni sociali, di scienza e di solitudine, tanta solitudine. Se una critica alla conoscenza scientifica è presente allora va ricercato in questi ambiti. Frankenstein, o il Moderno Prometeo è un romanzo di fantascienza da una forte connotazione umanista.
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Melancholia, di Lars von Trier. Una recensione

La famosa "Ofelia" di Millais

Nelle depressioni l’annientamento presenta una tonalità diversa da quella della fine nelle schizofrenie. Non si tratta di angoscia per quanto sopravviene, di esperire una catastrofe  cosmica che si sta producendo; si tratta piuttosto del raccapriccio davanti a ciò che già è, il terrore davanti al vuoto, alla consumazione, all’annientamento. Un caratteristico senso di isolamento, che incontriamo come carattere della fine del mondo schizofrenica, lo ritroviamo talora anche presso tali depressi“. (de Martino, La fine del mondo, p.34)

La pura depressione è caratterizzata da un profondo immotivato cordoglio, da un impedimento di ogni divenire psichico, sentito soggettivamente come doloroso e tenuto al tempo stesso per obiettivo. Tutti gli stimoli cadono, il malato non prende piacere di nulla, la mobilità e attività diminuite si trasformano in assoluta mmobilità. Nessuna decisione può esser presa, nessuna attività esser presa in considerazione. Le associazioni non sono più disponibili. I malati si lamentano del loro vuoto, della loro insufficienza, della loro mancanza di affetti, della loro incapacità, della loro memoria confusa. Il mondo appare grigio, indifferente. Il passato è pieno di colpa, il presente miserabile, il futuro non ha orizzonte. Nella sindrome melancolica la depressione si sviluppa in senso delirante: i malati sono responsabili della infelicità di tutto il mondo” (Jasper).  Proprio per questa onnipresente colpevolezza sottolineata da Jasper nelle sindromi depressive, il mondo “merita la distruzione” e un depresso cronico, come sottolineava Freud, diviene facilmente irritabile. La causa del suo malessere (e l’allucinatoria soluzione del malessere) può divenire spesso quel mondo stesso, che merita una condanna. Il quadro si ritrova nelle parole di Justine, una delle due protaginiste del film: “l’umanità non merita di sopravvivere”.

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Simone Weil, La prima radice. Una recensione di Elisa Radaelli

Fototessera di Simone Weil, operaia alla Renault nel 1935

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Simone Weil (1909-1943) visse, nei primi decenni del XX secolo, un’esistenza breve, ma così intensa da fornire lo spunto a letture e interpretazioni diverse, talvolta addirittura opposte. Nello sviluppo delle proprie analisi, nel corso delle quali prende in considerazione gli esseri umani calandosi tra gli uomini e rifiutando qualunque tipo di prospettiva distaccata o privilegiata, avverte la necessità di ridefinire la nozione di persona: a suo avviso, soltanto chiarendone gli aspetti davvero essenziali, sarà possibile gettare le premesse di una società nuova, in grado di superare definitivamente il periodo di crisi che l’attraversa; quando parla di crisi, non allude a situazioni generiche, ma ha ben in mente il quadro a lei contemporaneo e, proprio di fronte alle contraddizioni e agli interrogativi che esso solleva, si muove alla ricerca di risposte e soluzioni. Lo dimostra chiaramente il saggio La prima radice (1), composto nel 1943 e pubblicato postumo nel ’49. L’opera nasce in un contesto molto particolare, quello del Commissariato per gli Interni e il Lavoro di “France Libre”, l’organizzazione politica in esilio capeggiata da Charles De Gaulle, presso cui Weil era stata assunta come redattrice addetta ai servizi civili.

Suo compito sarebbe stato quello di esaminare e selezionare i documenti provenienti dalla Francia occupata, però la sua attività si spinge oltre; le annotazioni e i commenti si trasformano, infatti, in veri e propri trattati nei quali, pur affrontando tematiche differenti, mostra di tener sempre presente, in modo più o meno esplicito a seconda dei casi, l’essere umano e le irrinunciabili esigenze che lo caratterizzano. Il titolo originario assegnato allo scritto consente di cogliere un primo aspetto importante: parlare di Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano ha il preciso significato di porsi all’interno di una prospettiva che privilegia i doveri anziché i diritti. Non è un caso, dunque, che venga problematizzata proprio la nozione posta a fondamento della celebre Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, elaborata nel 1789. Gli uomini di quel tempo hanno considerato i diritti come princìpi assoluti, commettendo un duplice errore.

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Marías, Domani nella battaglia pensa a me. Una recensione di Roberta Savino

Javier Marias

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Domani nella battaglia pensa a me, quando io ero mortale, e lascia cadere la tua lancia rugginosa. Che io pesi domani sopra la tua anima, che io sia piombo dentro al tuo petto e finiscano i tuoi giorni in sanguinosa battaglia. Domani nella battaglia pensa a me, dispera e muori”

Javier Marías affida il titolo del suo  romanzo  a  un  passo  del  Riccardo  III  di  Shakespeare. La scelta di tale citazione non è casuale, l’autore ci si sofferma e la ripropone più volte,  evidenziando il forte legame  tra il rimando  shaksperiano  e  il  romanzo  stesso.  La morte,  la vita,  la  battaglia  come  metafora  della  vita, il peso  dei  ricordi e  dei  rimpianti  che  come  piombo  si  posa  sul  petto  di  chi  resta,  di  chi  non  muore, di  chi  continua  a  vivere.  “Domani  nella  battaglia  pensa  a  me” appare  come  una  minaccia  scagliata  dal  defunto  nel  mentre della  sua  dipartita.  E’  un’ esortazione  a  non  dimenticare,  a  non  voltare  la  faccia  alla  morte. Scrivere   della   morte  non  è  affatto  conveniente.  Se  va  bene  si  rischia  che  il  lettore  si  affidi  al romanzo  con  sospetto  e  inquietudine;  se  va  male  le  probabilità  che  si  abbandoni  la  lettura  si  fanno assai  alte. Il  punto  nevralgico  della  questione,  ciò  che  svela  il  motivo  di  questa  mia  arringa,  risiede nel  fatto  che  la  Morte,  oggi,  fa  una  paura  tremenda.  Tutte  le  più  grandi  spiegazioni  su  di  essa risultano  obsolete.  I  ferventi  cattolici  si  aggrappano  alla  consolante  idea  che  “la morte  è  solo  un passaggio,  dopo  si  andrà  nel  regno  dei  cieli”,  le  filosofie  new age,  per  le  quali  io  nutro  profondo sospetto,  propongono  invece  la  tesi  della  reincarnazione  e  così  sia.  Ma  gli  scettici,  con  cosa  si consolano?  Il  capolinea  della  modernità  è  stato  quello  di  svelare  l’illusione,  con  le  parole  care  a Nietzsche,  di  una  grossa  bufala.  E  ne  paghiamo  le  amare  conseguenze. Lo  scrittore  madrileno   Javier  Marias,  vincitore  di  numerosi  premi  letterari,  racconta  della  morte come  un oratore  che  si  affida  al  suo  flusso  di   coscienza  dinanzi  a  una  platea  seria  e  mal  disposta  al  tema.  La  morte  appare  oggi  il  mistero  dei  misteri.  Eppure,  è  un  mistero  di  cui  non  si  parla,  non si  deve  parlare. Ecco  che  Marias  ci  prende  per  mano, e  senza  censure  ci  catapulta  in  una  situazione che  ha  del paradossale.

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Amartya Sen, Identità e violenza, una recensione a cura di Valeria Villa

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“Kader Mia, un bracciante musulmano, fu accoltellato mentre si recava in una casa vicina, per lavorare in cambio di una paga esigua. Fu accoltellato sulla strada da persone che neanche lo conoscevano e che molto probabilmente non lo avevano mai visto prima. Per un bambino di undici anni, quell’evento oltre a rappresentare un autentico incubo, era profondamente sconcertante. Perché una persona da un momento all’altro veniva ammazzata? E perché veniva ammazzata da persone che neanche la conoscevano, persone a cui la vittima non avrebbe potuto fare alcun male? Il fatto che Kader Mia potesse essere ridotto ad una identità soltanto – quella di membro della comunità “nemica” – che “doveva” essere attaccato e se possibile ucciso – appariva totalmente incredibile. Agli occhi sbalorditi di un bambino, la violenza dell’identità era qualcosa di straordinariamente difficile da comprendere. Non è particolarmente facile nemmeno per un adulto anziano, che ancora si sbalordisce. Mentre mio padre lo portava in ospedale con la nostra macchina, Kader Mia gli disse che sua moglie gli aveva chiesto di non andare in un quartiere ostile in quel periodo di scontri intercomunitari. Ma lui doveva andare a cercare  lavoro per guadagnare qualcosa, perché la sua famiglia non aveva niente da mangiare. Il prezzo di questa necessità, causata dalla miseria, sarebbe stato la morte. Il terribile legame tra la povertà economica a la totale mancanza di libertà (perfino la libertà di vivere) fu una presa di coscienza, assolutamente scioccante, che colpì la mia giovane mente con forza sconvolgente”.  [ed. it. p. 176, p. 173 ed. ingl.]

Quasi in procinto di chiudere il suo libro, Identity and Violence. The Illusion of Destiny, Amartya Sen condivide con i suoi lettori l’esperienza drammatica del suo primo incontro con la morte. Per il lettore di Sen non è nuovo imbattersi in vicende biografiche. Ciò che, tuttavia, ogni volta sorprende è la constatazione dell’influenza che queste esperienze hanno esercitato sul suo pensiero. Leggendo la sua filosofia, il lettore ha la costante sensazione di essere a contatto diretto con la vita: non c’è pensiero lontano dalla realtà, ma una realtà che si fa pensiero; ovvero, Sen trasforma in ragionamento, in analisi, in stimolo per portare la mente verso curiose profondità, gli eventi della concretezza quotidiana. È rilevante sottolineare questo aspetto del suo scrivere e del suo pensare, poiché dice molto della forza teorica e dei fini a cui la sua teoresi aspira. E qui, in Identity and Violence – come aveva già fatto precedentemente in Equality Reexamined e Development as Freedom – il pensiero di Sen è animato dall’esperienza scioccante e diretta con la morte per conflitti di identità, della povertà e dell’ineguaglianza; queste muovono il suo pensiero verso l’analisi precisa delle cause ed effetti della miniaturizzazione delle persone in identità chiuse e non comunicanti. Prima di entrare nel vivo della discussione delle tematiche che Sen propone penso sia interessante condividere con voi come è nato il mio interesse per questo testo; ciò dice molto del mio approccio a Sen che qui propongo e dei sentimenti che hanno guidato la mia lettura. Stavo passeggiando per le vie centrali di Cambridge. Era una domenica mattina di metà Giugno. Il centro città era affollato di turisti che scattavano foto agli edifici storici e di studenti che passeggiavano tranquilli godendosi finalmente le bellezze di Cambridge, i colleges e il fiume, dopo un anno accademico di studio. Io passeggiavo come loro insieme ad alcuni amici che si preparavano per tornare in Italia avendo concluso il proprio progetto di studio. Di fronte alla Senate House cammina Amartya Sen. Indico ai miei amici la sua figura e li rendo partecipi dell’importanza che egli trascina insieme ai suoi passi da intellettuale, maturato dagli incontri e dalla vita di studio: “È il premio nobel Amartya Sen!”.
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Il Nietzsche classista, razzista, illiberale, antimoderno, reazionario…

Hitler visita l'archivio Nietzsche e stringe la mano di Elisabeth Foster,  la sorella del filosofo (Weimar, 1933)

Hitler visita l'archivio Nietzsche e stringe la mano di Elisabeth Foster, la sorella del filosofo (Weimar, 1933)

quello che non avreste mai voluto leggere

«Lo “sfruttamento” non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva: esso concerne l’essenza del vivente, in quanto funzione organica, è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita. – Ammesso che questa, come teoria, sia una novità – come realtà è il fatto originario di tutta la storia: si sia fino a questo punto sinceri con se stessi»  (Al di là del bene e del male).

Spesso si dice che il “genio” esca fuori dalla storia, sia in grado di trascenderla per andar oltre i suoi schemi culturali. La “revisione” nietzschiana degli anni Sessanta ha contribuito a far tornare questo mito romantico dalla stessa finestra del nichilismo ermeneutico, da cui sembrava svanito. Ma  niente di tutto questo è possibile. Friedrich Nietzsche, che pure è stato il più grande innovatore filosofico del suo tempo, risulta anch’egli un prodotto socio-culturale. Il filosofo che ha distrutto ogni dogma viveva di dogmi. Anche il filosofo che ha combattuto la storia lineare e progressiva cristiana e  illuministica viveva nella storia. L’ermeneutica contemporanea, che pure ha contribuito a fondare, ci assicura del fatto che il “prodotto” (Nietzsche) ha contribuito a creare cultura, e storia. Ma  questo non toglie che di un prodotto si parli. E non è possibile capire e interpretare Nietzsche senza il darwinismo sociale, il positivismo più becero, la Germania ed il pangermanismo di Bismarck, senza la filosofia tedesca (e la sua peculiare ma sfaccettata riscoperta della grecità come rifugio contro la modernità), l’imperialismo europeo, l’avversione al socialismo, al liberalismo e ai contenuti più egalitari dell’illuminismo. E, per esempio, non si può capire a pieno la sua distinzione fra morale dei signori e degli schiavi,  fra schiavitù e uomini liberi (che coltivano l’aristocratico e letterario otium) senza tener presente anche la biografia di Nietzsche, che si arruolò come volontario nella guerra franco-prussiana; inoltre, a soli 34 anni si dimise dall’insegnamento ricevendo una pensione e frequentando, quasi apolide, un genere di vita del tutto privo di problemi economici. Nietzsche respinge con sdegno gli sviluppi della società industriale e del liberalismo, e accusa  i liberali e i socialisti di odiare l’antichità classica, fondata sul riconoscimento della necessità di affidare il lavoro ad una classe di schiavi, la cui terribile condizione renderebbe possibile a un ristretto numero di uomini “olimpici” la produzione e la fruizione del mondo dell’arte. Tutto ciò è, anche, Friedrich Nietzsche. Ma a determinare il suo pensiero vi è anche la solitudine, la sofferenza, la sua famiglia, le sue emicranie (sifilide?), la sua quasi cecità e la gelosia (Lou von Salomé, la “superdonna” con cui intraprese un menage à trois, gli procurerà una depressione).  Questo lo si scopre leggendo i suoi testi, studiando la sua biografia, e fermandosi su quei temi “tetri” che le (relativamente) recenti letture del filosofo tedesco  hanno volutamente trascurato, snobbato o marginalizzato, per dare maggior risalto alle sue indubitabili e magistrali intuizioni. Nietzsche, in sintesi, è il più radicale antimoderno dell’Ottocento, e al contempo il meno dogmatico, fascinoso e imprevedibile degli antimoderni.

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Omer Bartov, Fronte orientale. Una recensione di Matteo Giangrande

Località ucraina di Babi Jar.In soli due giorni vengono uccisi 33.000 ebrei russi, uomini, donne e bambini. E' il cosiddetto "olocausto dei proiettili".

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Fronte orientale. Le truppe tedesche e l’imbarbarimento della guerra (1941-1945) (Biblioteca storica)

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Raccogliendoci a meditare attentamente sul titolo del libro che qui viene esaminato, proviamo a fare la prima osservazione, che potrebbe instradarci ad una comprensione dello schema concettuale di fondo del discorso dello storico Omer Bartov. The Eastern Front, 1941-45, German Troops and the Barbarisation of Warfare (opera del 2001 e trad. it. del Mulino nel 2003). L’elemento principale che emerge dal titolo non è tanto il riferimento evidente alla zona di combattimento in cui durante la seconda guerra mondiale l’esercito tedesco e quello russo si sono fronteggiati direttamente, quanto piuttosto la relazione che lega le truppe tedesche allo sterminio sistematico del cosiddetto ‘bolscevismo giudaico’ e delle sue basi biologiche: le azioni di sterminio, avvenute subito dietro la linea del fronte, trasformarono l’Operazione ‘Barbarossa’ nella «più terribile guerra di conquista, asservimento e sterminio dei tempi moderni». A far riflettere è l’espressione ‘imbarbarimento della guerra’. Ora, una semplicistica battuta potrebbe liquidare la questione: la guerra è essenzialmente barbara, cioè violenta, sanguinaria, efferata. E tuttavia, questa superba superficialità non coglierebbe il centro del discorso. La lotta tra stati condotta con le armi dagli eserciti, uomini istruiti e equipaggiati per la guerra, potrebbe essere considerata ‘civile’, ma non nel senso di una guerra civile, che riguarda i cittadini all’interno di uno stato, né nel senso che essa viene condotta con cortesia, né ovviamente nel senso che non coinvolge i militari o gli ecclesiastici. Dire che la guerra rientra nella categoria del ‘civile’ è voler dire che anche la guerra è regolata da un insieme di norme, il diritto bellico, che ne disciplinano la condotta, che limitano i mezzi e i metodi di guerra. Che, di fatto, molto spesso il diritto bellico non sia rispettato dagli eserciti è qualcosa di acclamato. Il centro del discorso di Bartov parte, nondimeno, dalla costatazione che la guerra che le truppe tedesche hanno condotto sul fronte orientale era contrassegnata da una ‘caduta’ strutturale del livello di ‘civiltà’ all’interno del diritto di guerra: come vedremo, i soldati non riuscirono più a vedere il limite tra la fucilazione giustificata dall’autorità e le cosiddette fucilazioni ‘selvagge’.

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Perché la guerra? Carteggio Einstein-Freud. Una recensione

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La reazione di Sigmund Freud di fronte agli avvenimenti della Prima guerra mondiale è quella di un uomo in cui l’iniziale slancio patriottico, avvertito allo scoppio del conflitto, lascia spazio ad un profondo senso di smarrimento di cui il saggio Perché la guerra? costituisce una chiara testimonianza. Del resto, la drammaticità degli eventi – sostiene lo studioso austriaco – costringe tutti gli individui a fare i conti con la perdita di (apparentemente) solidi punti di riferimento, e la gravità di tale perdita è tanto maggiore quanto più elevato è il (presunto) livello di civiltà dei popoli coinvolti. La guerra, però, non ha stravolto soltanto la vita degli uomini: persino il tradizionale modo di concepire la morte è stato investito dal cambiamento; Freud nota che, sebbene l’inconscio spinga da sempre il singolo ad allontanarne il pensiero e a rifiutarne l’indissolubile legame con la realtà, è chiaro che “la morte non può più oggi essere negata; siamo costretti a crederci. Gli uomini muoiono veramente; e non più uno alla volta, ma in gran numero, spesso a decine di migliaia al giorno”.

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Gerald Edelman, Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana. Una recensione

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In questo scritto si prende in esame un’opera scientifica che nonostante non sia di recente pubblicazione – la sua uscita anglofona è del 2006  – non è per tale ragione da considerare obsoleta, quantomeno nello spirito che informa il testo. Gerald M. Edelman, autore del libro in questione, premio Nobel nel 1972 per la fisiologia e la medicina per i suoi lavori sul sistema immunitario, è attualmente direttore del Neurosciences Institute di San Diego e presidente del Dipartimento di Neurobiologia presso lo Scripps Research Institute di La Jolla (California). Nella prefazione del suo Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, (tradotto in lingua italiana nel 2007 per Raffaello Cortina Editore, nella collana diretta da G. Giorello), Edelman afferma la propria convinzione secondo la quale, seguendo William James, «la coscienza è un processo la cui funzione è conoscere»; e, dunque, capire la coscienza è fondamentale per comprendere «quale sia la relazione tra i progressi delle scienze del cervello e i problemi della conoscenza umana». La nascita della fisica moderna, che segna l’inizio del più profondo cambiamento di prospettiva mai affrontato dalla specie umana, e lo sviluppo dell’idea di selezione naturale, che fornì la base teorica per comprendere l’evoluzione degli esseri viventi, tratteggiano un arco che non è ancora compiuto: la scienza, infatti, non ha ancora chiarito le basi cerebrali della coscienza, esperienza irriducibilmente soggettiva, non oggettivabile. Considerando la scienza come «immaginazione al servizio della verità verificabile» – dunque, essendo l’immaginazione dipendente dalla coscienza, anche la scienza è dipendente dalla coscienza – Edelman, all’interno di una prospettiva che potremmo ricondurre all’ecologia intesa come scienza che studia i rapporti tra gli esseri viventi e l’ambiente, sostiene l’assunto che possediamo una teoria scientifica della coscienza soddisfacente, che chiama «darwinismo neurale», secondo la quale la coscienza emerge dalla dinamica celebrale. In altri termini, nell’indagare come funziona il cervello (il quale è incarnato in un corpo, così quest’ultimo influenza ed è influenzato dall’insieme delle relazioni con l’econicchia) è possibile formularne una teoria globale che si possa ampliare fino a spiegare la coscienza, permettendoci di comprendere meglio il nostro posto nell’ordine naturale.

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Umberto Eco, Storia della bellezza. Una recensione di Erica Trabucchi

Cristo misura il mondo con un compasso, da una Bibbia Moralizzata, 1250 circa

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Esattamente come per la bruttezza, anche la definizione di bellezza non è univoca: bello è qualcosa che attrae, che colpisce, che spinge a soffermare lo sguardo senza reprime un senso di meraviglia, addirittura di estasi. Spesso si definisce il bello come qualcosa che è buono; e in questo caso si attribuisce alla bellezza una caratteristica utilitaristica, che non è propria del termine. Altre volte una cosa bella è una cosa desiderabile, apprezzata ma non posseduta, e che proprio per questa mancanza di possesso risulta ancora più ricercata, ma che forse, per altri non è meritevole di attenzione. Altre volte è la passione per una data cosa a condizionare il nostro giudizio. Si potrebbe dire che la bellezza, esattamente come la bruttezza, sono dunque soggettivi. Questo libro presenta una preziosa carrellata testuale e visiva delle più importanti concezioni estetiche sulla “bellezza” che hanno caratterizzato la cultura occidentale.

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Jurgen Habermas, L’inclusione dell’altro. Una recensione

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica (Universale economica. Saggi)

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Questo libro è il frutto di riflessioni concernenti i campi della morale, del diritto e della politica in relazione alla società contemporanea. Il tema affrontato è quello dell’ “altro” visto come immigrato, come appartenente a minoranze etniche oppure come membro di gruppi e ceti sfavoriti. Per far emergere il pensiero dell’ autore ho pensato di mettere in evidenza il paragone delle sue elaborazioni con quelle di altri due studiosi: Schmitt e  Rawls.
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