Il problema del “grillismo”

Filosofia e voto, un binomio importante. Asor Rosa parla di “riformismo impossibile” del pd/Sel. Cacciari, suo ex amico ex operaista (ma tutti sbagliano quando sono giovani) chiama la dirigenza del Pd “teste di cazzo” e ammicca a Renzi, esattamente come l’economista liberista Zingales sulle pagine del Wall Street Journal (“Like Italian goods markets, Italian democracy suffers from a lack of competition“). Chi più ne ha più ne metta. Sul vero fenomeno di queste elezioni, il “grillismo”, gli intellettuali dicono tante cose. Ma il problema non è l’ “expertise“. Leggo di sfiducia nei nuovi deputati e senatori grillini. Si dice: non sono esperti, non capiscono niente, non sanno cos’è l’economia, l’ideologia, l’euro, la scuola, la sanità, non sanno cos’è la politica, non hanno conoscenza di “tecnica” politica. E credete che Lupi (pdl) sappia che cos’è l’euro? Credete che se fate una domanda tecnica alla Finocchiaro (pd) su come funziona l’equilibrio bancario internazionale vi sappia rispondere? O se chiedete a Vendola (sel) quali siano le imposte e le tasse che cadono su un’ attività imprenditoriale, sappia rispondervi sufficientemente? Lasciamo stare poi l’equiparazione tra fascismo e grillismo creata da alcuni, solo strumentale e molto superficiale. L’antipolitica e le relative tecniche demagogiche di consenso sono un retaggio che appartiene non solo al fascismo, ma a tantissime altre realtà della nostra storia repubblicana. Vogliamo ricordare che la “questione morale” divenne anche la strategia del PCI di Berlinguer? (“I partiti sono diventati macchine di potere“). Il “né destra” “né sinistra” del movimento poi, lo inquadrerei non in un nebuloso “fascismo”, ma in un fenomeno (del resto criptoideologico e spiacevolissimo) di “tecnicità” delle nuove governance neoliberali, del resto simili al montismo. Su questo punto ha scritto bene Costanzo Preve:

“L’ideologia, o più esattamente la produzione ideologica, è una dimensione strutturale permanente, e quindi antropologicamente e socialmente ineliminabile, dell’attività umana.Non esiste, ed ovviamente non può esistere, nessuna presunta “fine delle ideologie”. Quelle che finiscono, o quasi sempre si indeboliscono, sono solo delle formazioni ideologiche storicamente determinate e congiunturali. La cosiddetta “fine delle ideologie” è a sua volta una ideologia, e per di più particolarmente povera.  Parlare di fine dell’ideologia è come sentir dire da un medico, a proposito del corpo umano, che c’è la fine del sudore, dell’adrenalina, dello sperma e degli escrementi. Si tratta di idiozia pura. Filosoficamente parlando, la fine dell’ideologia intesa come  fine di ogni falsa coscienza e di ogni rappresentazione antropomorfizzata del destino dell’uomo equivarebbe ad una impossibile divinizzazione dell’uomo stesso, trasformatosi integralmente in sostanza spinoziana o in Pensiero del Pensiero aristotelico. Una prospettiva da abbandonare esplicitamente.”

Si potrebbero aggiungere anche le parole stesse di Casaleggio riguardo l’ingenua componente a-ideologica del Movimento “In Gaia, partiti politici, ideologie e religioni spariscono, l’uomo è il solo proprietario del suo destino. La conoscenza collettiva è la nuova politica” (video youtube casaleggio srl). L’interpetazione, in questo caso, è più sbilanciata verso il transumanesimo e un certo stile idealistico aziendalista. Ma questa è solo una delle letture possibili, che va sommata alle altre. Cerchiamo, per una volta, di paragonare l’ignoto all’ignoto, anzichè sempre al noto. Paragonare il grillismo al fascismo significa proferire emerite castronerie, precludersi analisi più approfondite e significative, utili a trovare il bandolo della matassa. Quello che vediamo è qualcosa di nuovo, radicalmente nuovo.  Il problema più serio dei novelli parlamentari grillini e dei senatori grillini è invece quello di uscire da una più o meno legittima visione critica della politica partitica ad una visione pratica e programmatica, e da programmi di rabbia, marketing elettorale, spesso troppo generici, irrealizzabili e demagogici (esempio: “il referendum per l’euro”, “aboliamo i sindacati”, “aboliamo le scuole paritarie”, “Abolizione dei contributi pubblici ai partiti”, “Abolizione dell’Imu sulla prima casa”, “Referendum propositivo e senza quorum”, “reddito di cittadinanza”) a quello che si può effettivamente fare, bilancio alla mano, maggioranze alla mano, benessere nazionale alla mano. Il problema è uscire dalla semplicistica visione “via dal sistema!” per capire l’effettiva strada da percorrere, per rispondere allora alla domanda pregnante “quale sistema, allora?“.

Significa perciò sottoporre il movimento, finalmente, ad un clima di contraddittorio (del resto Grillo, simbolo e reclutarore del movimento, si è sempre sottratto ai contraddittori). Per il movimento, significa anche strutturarsi, ed in maniera più democratica, rinunciando al mito e alla pericolosa velleità tecnognostica (in stile casaleggio s.rl.) che la tecnologia “rete” risolva tutti i problemi di organizzazione e democraticità.

Ora sono dall’altra parte della barricata, hanno la responsabilità anche di costruire, il che è molto più complicato. Ora non c’è più quello spazio per fare i “puri”. Certo, possono strutturarsi, anche alle camere, come opposizione “pura” al Pd e Pdl, un po’ quello che furbescamente ha fatto la Lega e Dipietro nel governo Monti (senza peraltro risultati elettorali diversi dallo zero) ma così perderebbero un’occasione importante per far passare qualche loro progetto interessante. Maturità significa, finalmente, passare dall’eterna opposizione ad una fase di costruzione pratica (e, detto fra noi, potrebbero costringere Bersani, finalmente, a fare qualcosa di “sinistra”). In parlamento, costruire significa anche scendere a compromesso sulla loro stessa immagine mediatica. Sul territorio fino ad adesso hanno lavorato  bene, vedremo ora, pressati da spread, borse che colano a picco, maggioranze, minoranze, voti, proposte e commissioni, se andrà altrettanto bene. Queste elezioni possono significare la nascita o la fine del Movimento.
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Aggiornamento al 01/03/2013: consigliamo la lettura di questo articolo dei Wu Ming

Ipotizzando scenari post-elettorali. Il Governo “scialuppa”.

Si è già detto molto sul prossimo voto. Troppo. Forse troppo poco. Quello che rimarrà, comunque vada, sarà una barchetta “tecnica” di salvataggio su cui saliranno solo poche persone mentre tutte le altre saranno condannate a colare a picco, nel sonno, su una nave colabrodo. In un mare neanche in tempesta. Senza bande ad annunciare la tragedia. Silenziosamente. Senza clamore.

Berlusconi, Monti, Bersani e Grillo. Quattro macchine da guerra. Più o meno gioiose. Quattro generali al comando di quattro eserciti in continuo contatto. Impeto e tempesta sui palchi, negli spettacoli televisivi, dentro la “rete”. Confondere e comprare. Confondere e comprare. Confondere e comprare. Perchè i confini della politica sono così sconfinati che anche le verità si dimezzano in un brodo primordiale di vanità, ilarità statisticamente programmata, apparenze di serietà e rigore. Cosa rimarrà di questa lunga marcia? Il Parlamento. Solo il Parlamento. Il Parlamento del 26 febbraio sarà il vero centro di una grande ricomposizione istituzionale che sembrerà cambiare tutto per non cambiare nulla. Saranno pezzi in movimento a seconda degli interessi della “governabilità”. Sarà un Governo dei sopravvissuti. Niente di più e niente di meno. Berlusconi, Monti, Bersani e Grillo. Quattro generali in attesa del risultato. Quattro pattuglie parlamentari. Quattro quantità sulla bilancia del Parlamento. La nuova Costituzione sarà un libro di algebra. Quattro flussi che si incroceranno per dare vita al nuovo Governo. Non sarà il Governo degli uomini e delle donne. Non sarà il Governo degli Esseri viventi che ogni giorno devono fare i conti con la propria quotidianità. Sarà il Governo dell’equilibrio. Sarà il Governo della Tecnica. Sarà il Governo del Comando. Il Governo della paura di non riuscire a governare. Le nostre Vite continueranno ad essere le nostre Vite. Niente di più. Niente di meglio. Sempre peggio.

L’unica novità sarà la quantità parlamentare che Grillo porterà in dote alla governabilità. Sarà la dote di un movimento che è cresciuto costantemente. Allontanandosi e riavvicinando. Tessendo le contraddizioni di un popolo in libera uscita. Grillo ha generato appartenenza. Ha creato una forma di liberazione. Un metodo. Il VaffaPensiero. Ha strutturato questo VaffaPensiero in qualche regola precisa. Un po’ come si fa con i segnali stradali. E’ stato studiato, analizzato, paragonato. Ha fatto spendere fiumi di parole a giornalisti ed opinionisti di vario genere, razza ed età. Tutto inutile. La dote di Grillo sarà una pattuglia costantemente corteggiata da destra e da sinistra. Sarà il trasformismo fatto a sistema. Perchè non c’è destra e sinistra, ci sono solo loro. L’oro. Eppure, per quanto si possa pensare come “nuovo”, Grillo è un’anomalia sistemica che storicamente il nostro ventre ripropone. E’ la prova che abbiamo un rimosso con cui fare i conti. Un rimosso che si presenta puntualmente in forma diversa. E’ una necessità di odiare. Di creare un nemico su cui riversare la propria disperazione. Un capro.

Nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma. Le istituzioni andrebbero attraversate per trasformarle. Come il fattore che attraversa la terra per prepararla ad accogliere i germogli del futuro da cui prendere i frutti sani dell’emancipazione. Ma il 26 febbraio non ci saranno frutti da cogliere. Solo loro. Solo l’oro.

“La questione degli intellettuali” di Maurice Blanchot. Una recensione

Gli intellettuali non hanno opinioni migliori del cittadino comune. Maurice Blanchot fa derivare il loro ruolo dalla loro notorietà (mi riferisco al saggio Les intellectuelles en question, 1983, ma pubblicato in italiano per la prima volta da Mimesis nel 2011, a cura di Marco G. Ciaurro), mediante la quale intervengono in questioni su cui il cittadino anonimo potrebbe avere opinioni più originali ma inespresse. Qui si pone implicitamente un’equazione tra intellettuali e notorietà: per essere tali gli intellettuali devono essere per forza noti. Blanchot riprende Sartre, a proposito della specializzazione che, benché ciò appaia irragionevole, mette in rapporto con l’universale. Ma finiscono per rinunciare al loro abituale e scrupoloso metodo conoscitivo per scadere nell’opinione sciatta e mal strutturata. Oggi ne abbiamo esempi a iosa tanto dagli articoli di giornale (spesso spocchiosi, inutili e autocelebrativi) quanto da Twitter, se non dalle loro stesse opere. «Si è così sicuri di aver ragione nel cielo, – scrive Blanchot – che si congeda non solo la ragione nel mondo, ma anche il mondo nella ragione» (p. 39). E questo è vero fin dalla loro nascita, collocabile a partire dall’affaire Dreyfus. Gli intellettuali sono tutti dreyfusardi e occupano un campo che non è il proprio. Secondo il sedicente non-intellettuale Brunetière, anche Zola intervenne a sproposito, come se un colonnello della gendarmeria avesse avuto la pretesa di dire la sua su un problema riguardante il romanticismo letterario. Analoga contraddizione coglie Barrès allorquando questi fanatici dell’individualismo d’élite si mettono a fare i portavoce della democrazia. Ed è latente il pericolo di diventare moralisti o politici. Tuttavia il mettersi in gioco degli intellettuali che, distanziandosi dalla propria destinata solitudine creativa smettono temporaneamente di essere gli scrittori o artisti che sono per prendere la parola e correre il rischio di perderla definitivamente (è uno dei loro meriti), viene recuperato da Blanchot in termini di esigenza morale. A prezzo che, daccapo, un cittadino non vale più l’altro. Ma appunto l’intellettuale è tale solo temporaneamente, smette di esserlo e ridiventa – è – nient’altro che uno in mezzo agli altri.

Sandro De Fazi

Ceci n’est pas un pope

 

Iconografie vecchie e nuove, ibridi postmoderni

Il mito dell’Abbé Pierre dispone di una carta preziosa: è la sua testa.  E’ una bella testa, che presenta chiaramente tutti i segni dell’apostolato: lo sguardo buono, il taglio francescano, la barba missionaria, tutto ciò completato dal giubbotto prete-operaio e dalla canna del pellegrino. In tal modo si uniscono le cifre della leggenda e quelle della modernità” (Roland Barthes, Iconografia dell’Abbé Pierre in Miti d’Oggi)

Novità, gesto rivoluzionario? Un ulteriore gesto titanico? Ritorno al passato?  Parliamone. Della filosofia e teologia dell’ultimo binomio di papi della Chiesa Cattolica ci siamo già occupati qui e qui. Tutto cambia, tutto resta uguale. Ma ora si tratta di un inaspettato colpo di coda del pastore tedesco. Qualcuno ha paragonato queste quasi laiche “dimissioni” (quasi fosse un lavoro “profano”, tanto il linguaggio stesso è rimasto spiazzato) al gesto di Celestino V, l’ingenuo monaco eremita contemporaneo di Dante  costretto al “rifiuto” dall’animale politico Bonifacio VIII, che di lì a poco divenne uno dei principali burattinai d’Europa. Forse, Celestino V fu addirittura assassinato da Bonifacio VIII nella sua reclusione coatta di Fumone. Se vogliamo riferirci alla storia, essa è piena di figure che rompono l’iconografia moderna pontificia. Piena di papi atipici: anti papi, papi guerrieri,  papi con figli, papi avvelenati, papi avvelenatori, papi cospiratori, papi eretici, papi astrologi,  papi rapiti, catturati e detenuti, e morti in cattività lontani da Roma. Papi scomunicati da imperatori, umiliati da generali, da eserciti e re, papi scomunicati da anti papi. Papi, al contrario, che umiliano i potenti. Specie prima del concilio di Trento. Nel caso di Ratzinger, non è possibile fare paragoni storici, e ogni paragone storico è funzionale a costruire modelli più o meno impropri, mitologici o, al contrario, irriverenti. Quel che però si può dire da laici del gesto di Ratzinger è in realtà un ricorso storico più generale: un tornare a  quella umanità sempre maledetta e sempre esorcizzata, individuale certo, ma anche funzionale, politica e machiavellica del ruolo papale, così adombrata (almeno al grande pubblico popolare) negli ultimi secoli dell’era tridentina della Chiesa Cattolica, quando seguendo un certo storico trend si è addirittura arrivati a proclamare dogmaticamente, in chiave antimoderna, antidemocratica e antilluminista, contro il demone del liberalismo, l’infallibilità ex cattedra del papa.

Lo stesso  Giovanni Paolo II, l’ultimo grande comunicatore della Chiesa, da buon polacco aveva esaltato, e non diminuito, l’iconografia eroica e mistico-passionale del papato, anche grazie al suo tristissimo fine-vita, per giungere alla sua morte cristica trasmessa come un Death-Reality nelle case del mondo cristiano e non. Concetti e miti intramontabili per gruppi considerevoli di cattolici, rappresentati pienamente da dinosauri fossili e passionisti come Stanislaw Dziwisz, che ora dichiara: “Wojtyla restò, riteneva che dalla croce non si scende”. Il teologo e filosofo Ratzinger, l’accademico (di curia) e l’uomo che ha vissuto tutta la vita nei suoi libri, e diciamolo, almeno quelli, i “suoi libri”, li conosceva abbastanza bene (probabilmente più di quanto conoscesse gli squali della sua curia), ha ritenuto che decomporsi in pubblico seguendo il Cristo martire volontario raccontato nei Vangeli, nonché il suo padrino Karol, non è poi così dignitoso né eroico. E pure se fosse eroico, non gli interessava una beneamata. Specie quando non poteva nemmeno difendersi dai suoi maggiordomi e vescovi spioni. Ora di lui si dirà di tutto: letture cospirazioniste o storico-hegeliane, alleandosi, racconteranno che la funzione-Ratzinger (non l’individuo) è stata costretta dalla politica, dalla curia, dalle banche (che ora vanno così di moda) e dal Nanni Moretti nazionale al suo gesto. Altri diranno, al contrario, che è il gesto di un individuo che ha scelto liberamente la sua vita e il suo fine-vita. Mediando fra le due note posizioni (e fra i due stili di pensiero), quel che è certo: è un piccolo passo verso la normalità, un piccolo passo  di una Chiesa ancora modellata su miti archetipi e mediatici come il padre-re-pastore, l’eroe martire,  espiazioni didattiche, sangue, croci e qualche chiodo. Ancora fisso. In estrema sintesi, le sue dimissioni sono uno “straordinario” gesto laico (straordinario perché raro) e antimitico da parte di un teologo-papa-di-biblioteca che da frequentare utilissimi compagni di merenda come Karl Rahner si convertì purtroppo alle paludi del tomismo,  ma che probabilmente è sempre rimasto fedele (e le sue “dimissioni” lo confermano) ad una visione molto umanistica e pratica, decisamente poco mistica, della sua vita e del suo ruolo. Si direbbe uno stile da basso profilo, da anti epopea, da anti santino, senza Valchirie, senza Anelli da gettare nel monte Fato e  Nibelunghi. Tipicamente tedesco, visto che ai cliché siamo abituati. “Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”: era la beatitudine laica di un altro noto tedesco del Novecento.

 

L’ Animal Laborans in Hannah Arendt

Hannah Arendt e Richard Sennett

UNA RIVISITAZIONE DEL CONCETTO DI ANIMAL LABORANS IN HANNAH ARENDT. A cura di Alessio Perigli

Introduzione

I L’animal laborans nella storia

I.1 Strumentalità e animal laborans

I.2 La vittoria dell’animal laborans

II L’animal laborans nei regimi totalitari

II.1 L’animal laborans nel regime nazista

II.2 L’animal laborans nel regime stalinista

III L’animal laborans e l’homo sacer

III.1 L’ambivalenza del sacro

IV L’animal laborans e l’uomo artigiano

IV.1 L’uomo creatore di sé stesso

IV.2 L’esperienza come mestiere

 Conclusioni

 Bibliografia
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Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. Una recensione di Francesca Borsari

I moti del 1848 in tutta Europa. Anche questa volta, l'inizio fu in Francia

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Le Lotte Di Classe in Francia Dal 1848 Al 1850 (1896)

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Il lavoro che viene qui ristampato, fu il primo tentativo di spiegare attraverso la concezione materialistica un frammento di storia contemporanea partendo dalla situazione economica corrispondente. (Friedrich Engels, p. 39)

Credo che la succitata frase riassuma in sé la motivazione principale per la quale leggere questo libro. Ulteriori motivazioni risiedono nella scorrevolezza del testo e, dal mio punto di vista, nella dimostrazione di quanto peso può avere un’idea nell’interpretazione storica. L’opera di MarxLe lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” fu pubblicata sulla Neue Rheinische Zeitung come serie di articoli. Nel 1895 Engels pubblicò una nuova edizione dell’opera di Marx intitolandola “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” dando titoli nuovi ai tre capitoli già apparsi. Come quarto capitolo aggiunse le parti dedicate alla Francia della Rassegna maggio-ottobre 1850 con il titolo “La soppressione del suffragio universale nel 1850“.

Il contesto filosofico dal quale Marx prende le mosse e dal quale è possibile spiegare quest’opera, è quello della messa in crisi della filosofia hegeliana perpetrata da Feuerbach, da Kierkegaard e da egli stesso tra gli anni ’40 e ’50 dell’800. Si era criticata l’idea di un idealismo assoluto che inseriva la ragione in un processo dialettico che rivelava la struttura stessa della realtà: l’accento è posto di nuovo sull’uomo. Marx rifiuta di Hegel l’identità della storia con la realizzazione di un principio assoluto, ma riprende la struttura dialettica del processo storico. Anche per Marx la storia è importante, ma perché terreno di trasformazione delle relazioni degli uomini. Nella produzione delle proprie condizioni materiali di vita gli uomini costruiscono un insieme di relazioni che sono la vera struttura della società; la storia non è che l’evoluzione di queste strutture economiche. Tutto il resto (diritto, religione, cultura, arte ecc.) non è che sovrastruttura e dunque, in quanto tale, dipendente dalla struttura e senza vera autonomia.
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M. De Certeau, La scrittura della storia. La vertigine dell’uomo storico

a cura di Elisa Scirocchi

“[…]Così è la storia. Un gioco della vita e della morte prosegue nel calmo dispiegarsi di un racconto, ricomparsa e denegazione dell’origine, svelamento di un passato morto e risultato di una pratica presente[ …]”.

Michel De Certeau: Filosofo, letterato, storico, teologo, studioso di psicoanalisi. Dal profondo interesse per la psicologia, e per le scienze sociali in generale, nasce, nel 1975, La scrittura della storia. Come la stella polare brilla chiara nel cielo di navigatori, l’operato di Freud emerge in questo testo come punto di riferimento assoluto. De Certeau tende a designare Freud come colui che riuscì a far emergere quelle dimensioni inquietanti dell’essere umano, le quali possono essere comprese solo se trascritte o raccontate in una storia attraverso il mondo retorico della scrittura. L’analista, infatti, scava il nostro inconscio attraverso delle figure di stile che si ripetono e che sono applicabili a molteplici situazioni. Se ci pensiamo bene il disaccordo con il padre che porta al complesso di Edipo, o l’associazione attraverso il transfert di una persona a un’altra, sono, come afferma lo stesso De Certeau, dei fenomeni polivalenti. Attraverso queste figure possiamo dare voce al nostro inconscio, allo stesso modo in cui solo attraverso delle lenti scure siamo in grado di guardare la luce accecante del sole. Queste strutture formali non colmano le nostre lacune, non portano a una piena trasformazione della nostra parte inconscia in conscia, non ci consegnano noi stessi, ma ci avvicinano soltanto a noi stessi. Scrive De Certeau che questi formali e retorici espedienti “circoscrivono l’inesplicato, non lo spiegano”. Attraverso la scrittura della storia, l’uomo mostra tutta la sua debolezza, e il suo lato lacunoso, così come attraverso un’analisi di tipo psicoanalitico egli mette a nudo il suo lato più debole. La storia esprime l’estraneità che proviamo verso di noi, estraneità tutta propria dell’uomo contemporaneo in continua lotta con se stesso e con la sua voglia connaturata di evadere da sé, che lo mette in condizione di fare continuamente progetti.

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Alexis de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione. Una recensione di Francesca Borsari

Vecchie e nuove rappresentazioni "pop" sui privilegi di classe

Il libro che oggi pubblico non è una storia della Rivoluzione, storia già stata fatta con troppo splendore perché io pensi di rifarla; ma uno studio su questa rivoluzione. (p. 27). 

Per chi ama le letture storiche originali, ma al contempo organiche e fedeli ai documenti non può farsi sfuggire questo classico sulla Rivoluzione. Sebbene di origini aristocratiche, Tocqueville offre un’analisi disincantata sul mondo che ha preceduto l’evento che ha accelerato il passo della storia, così come sul mondo che ne seguirà. Occorre ricordare anche che l’autore scrive a ridosso di un’altra rivoluzione importante, quella del 1848, che in Francia aveva sconvolto non poco l’assetto politico e sociale. A maggior ragione la lucidità dell’autore del già celebre “La democrazia in America” (1835 e 1840), va ammirata e va presa come esempio per la delineazione di scenari futuri del contemporaneo. Inoltre è innovativo il metodo usato, cioè lo studio delle classi sociali. Non è ancora un’analisi economica delle classi alla vigilia della Rivoluzione, come ad esempio ci ha abituati Hobsbawm, ma un’analisi politica e dell’egemonia culturale di queste classi.
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Legalità, Movimento, Elezioni, Sinistra

Quando la Magistratura entra nel Movimento. La candidatura di Antonio Ingroia ha suscitato non pochi dubbi sulla capacità della Sinistra di emanciparsi da alcuni paradigmi direttamente associabili alle degenerazioni provocate dal berlusconismo. L’utilizzo degli uomini della Legge (a cominciare da Antonio Di Pietro e finendo con Luigi De Magistris ed Antonio Ingroia, appunto) non è mai stato esente da potenti critiche teoriche e politiche. Soprattutto in questo momento. Nel campo teorico, effettivamente, il discorso sulla legalità andrebbe affrontato definitivamente. Il limite della legalità si fa stretto quando si difende il diritto all’insolvenza che è entrato pienamente a far parte dell’Agenda dell’antagonismo non banalmente come retorica ma come critica generale all’indebitamento neoliberale. Non è certamente una questione di poco conto. Il limite della legalità si fa stretto anche rispetto all’ondata di occupazioni e contestuali “liberazioni” che stanno fiorendo progressivamente in tutto il Paese (ed in tutti i paesi) e che vanno difese come generatori di un nuovo processo costituente. E’ un limite che si restringe perchè viene continuamente investito e messo in discussione. Viene decostruito. Questa decostruzione, però, lo rende per quello che è realmente: il limite del Potere. Perchè la legalità rappresenta sempre una forma di amministrazione e di gestione del Potere. E’ un dispositivo di controllo a tutti gli effetti. Ed allora il limite della legalità si trasforma nella critica del Potere, che fa parte integrante dell’antagonismo e della Sinistra in senso ampio. Per questa ragione, politicamente, la Sinistra ha “sussunto” alcuni pezzi della Magistratura. Più che altro è stata una sussunzione “simbolica”. Antonio Di Pietro ha rappresentato la critica della Prima Repubblica. Allo stesso modo l’inchiesta Why Not di De Magistris ha destabilizzato alcuni centri del Potere mentre Antonio Ingroia si è spinto addirittura contro il Presidente della Repubblica. Non sono stati raccolti gli Esseri umani ma le rappresentazioni. Questo non può che essere un fatto positivo perchè ci racconta di una Sinistra che, seppur persa, non ha perso quella tensione alla trasformazione dello Stato che la caratterizza e la distingue dai “moderati” di tutte le razze. E da questo si dovrebbe partire per fare nuovamente movimento.

Di Cesare, Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo

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recensione di Stella Maria Sablone

«Le camere a gas non sono mai esistite, lo sterminio non ha avuto luogo. Piuttosto la Shoà è una “favola”che gli ebrei vanno raccontando da decenni, un “mito” accortamente costruito per raggiungere i loro scopi politici e finanziari». Queste le argomentazioni fondanti del negazionismo denunciate nel testo Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo, in cui l’autrice Donatella Di Cesare sposta l’attenzione dal come al perché della negazione, ritenendola l’unica via percorribile per dimostrare la stretta relazione che intercorre tra quest’ultima e l’annientamento, nesso fin ora pericolosamente rimasto inosservato. Ma che cosa vuol dire negare? La domanda non è solo storica ma anche politica e filosofica e apre a altre questioni da chiarire: chi sono i negazionisti? Perché negano? Qual’è l’intento che li muove, lo scopo che hanno di mira? L’evidenza dei contenuti sottesi alle parole «non è» e «non esiste» mostra il reale rischio del negare in quanto «il non-essere nega l’essere, lo annienta e lo nullifica»; questa «patologia del negare» sconfina dunque in un nichilismo aberrante, senza possibilità dialogica e apre a problemi urgenti come quello ontologico – dettato dalla rimozione del reale che invece dovrebbe essere parte integrante della realtà condivisa – e quello politico – strettamente legato alle domande sul chi e sul perché, sul fine ultimo della negazione.

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Mente e natura, Gregory Bateson e l’approccio sistemico

Nel prossimo brano, tratto da “Mente e natura”, il filosofo, psicologo, antropologo e biologo Gregory Bateson crea un fecondo parallelismo  fra come funzionano i nostri organi di senso e come funziona la conoscenza: gli organi di senso umani possono ricevere “soltanto” notizie di differenze, e per essere percettibili le differenze devono essere codificate in eventi temporali (cioè in ‘cambiamenti’). La “scienza”, e la “conoscenza”, non è altro che una ricerca delle invarianze, in natura come nel mondo storico. Trovare e definire linguisticamente qualcosa che non cambia (le invarianze), a sua volta, significa trovare le “differenze“. Ma ci sono metodi e metodi nella scienza. Gregory Bateson, un pioniere del pensiero complesso, sistemico, gerarchico e pluridisciplinare, contro ogni approccio riduzionistico, in “Mente e natura” ci invita a “conoscere” e a fare scienza prendendo esempio dal funzionamento dei nostri occhi, dalla visione binoculare. Descrivere un fenomeno da due punti di vista differenti, con due elaborazioni diverse, aumenta infine la comprensione e la descrizione del fenomeno nella relativa e inevitabile sintesi fra i due dati diversi. Come la visione binoculare fornisce la possibilità evolutiva di una nuova informazione (la profondità spaziale) così la comprensione dei fenomeni attraverso la “relazione” è in grado di  fornire un ordine nuovo di comprensione e una pedagogia nuova. Dalla visione combinata dei due organi e dai due emisferi cerebrali si ottiene un genere d’informazione che si potrebbe ottenere da un solo occhio soltanto impiegando speciali conoscenze collaterali (ad esempio, sulla sovrapposizione degli oggetti nel campo visivo); si ottiene, appunto, la percezione della profondità. Questa informazione riguarda una dimensione diversa (come direbbe il fisico), o un’informazione di tipo logico diverso (come direbbe Bateson). Per Bateson, però, questa della visione binoculare non è una semplice metafora: è un meccanismo generale provato dall’evoluzione darwiniana, dalla biologia, dal funzionamento della nostra mente. Di questa “metafora”, l’autore, nel corso del libro, dipana una raffinata spiegazione logica, ricca di esempi tecnici ma comprensibili anche per non addetti ai lavori, visto che, come direbbe Gould, la scienza ha bisogno delle giuste metafore per progredire. Nel metodo di Bateson, il “tutto” è sempre qualcosa in più della  somma delle parti.

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Frankenstein Incompreso, una recensione del libro di Mary Shelley

Aligi Sassu, Prometeo, 1970

Ci sono storie radicate profondamente nella cultura e così spontanee alla mente da sembrare naturali, indiscutibili, innate. Sono storie eterne perchè senza memoria; sviluppate nel tempo del Mito si trascinano invisibili di generazione in generazione. Chiamate da Jung archetipi vengono continuamente riplasmate, anche in epoche moderne, senza perdere il loro alone di immortalità. Qui sta forse il segreto nascosto del Frankenstein di Mary Shelley, madre di fantascienza. Dalla mitologia il romanzo prende in prestito le idee della creazione e dell’acquisizione della conoscenza con un riferimento esplicito a Prometeo, la divinità greca che forgiò l’uomo con l’argilla e che, per avergli restituito il fuoco – simbolo dell’evoluzione tecnico-scientifica – venne punito da Zeus per l’eternità. La fama e la diffusione popolare del romanzo però non hanno impedito la nascita di fraintendimenti e rielaborazioni, fissati nell’ immaginario collettivo da successive trasposizioni teatrali e cinematografiche. Il romanzo originale non ha niente a che vedere con quel mostro sbandierato dallo scetticismo antiscientifico che invade oggi i dibattiti della bioetica e non è assolutamente un manifesto contro la tecno-scienza e le sue invasioni di presunte prerogative divine. L’ argomento Frankestein utilizzato dai detrattori della scienza non trova, nelle sue modalità, alcun riscontro nel testo: i riferimenti mitici del romanzo rimangono sempre pure metafore letterarie.  L’opera di Shelley è nata come storia di orrore e parla di passioni umane, di convenzioni sociali, di scienza e di solitudine, tanta solitudine. Se una critica alla conoscenza scientifica è presente allora va ricercato in questi ambiti. Frankenstein, o il Moderno Prometeo è un romanzo di fantascienza da una forte connotazione umanista.
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