Cos’è il revisionismo

(nella foto, Goebbels e famiglia)

Joseph Goebbels era solito dire: “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. Vi sono innumerevoli definizioni ed esempi su cosa sia il revisionismo. In estrema sintesi, propongo di definire “revisionismo” l’affermare che tutto ciò che è stato fosse:

1) inevitabile
2) il male minore
3) demoniaco
4) provvidenziale
5) non è stato

Uscendo dalle strette maglie dell’assurda dicotomia libero arbitrio vs determinismo, la storia, come la giurispudenza, parte dal presupposto che l’uomo maggiorenne e sano di mente sia sempre in grado di intendere e volere, e che perciò sia responsabile delle sue azioni. Un’altra dicotomia invece si pone, certo più utile della prima: quella fra comprendere e giustificare. Capire sociologicamente o storicamente le cause alla base di un male storico non equivale certo a renderlo inevitabile o moralmente giustificabile. Certo, dopo Auschwitz, abbiamo davvero bisogno di riformulare il nostro concetto di “male”. Hannah Harendt scrive “La banalità del male” proprio che ricordarci che fra questi “mostri” nazisti, fra queste bestie nazifasciste, vi erano silenziosi assensi, omertà, burocrati ed obbedienti marionette, massificati ed ideologizzati, senza un minimo senso critico, o riluttanti ad utilizzarlo. Tecnici dell’indifferenza, fra i quali ottimi padri di famiglia.

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Foucault e le donne del Premier. Una lettera – recensione a “Filosofia di Berlusconi”

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Filosofia di Berlusconi. L’essere e il nulla nell’Italia del Cavaliere (Culture)

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Articolo dal Corriere della Sera

Quei liberismi tra Foucault e il Bagaglino

In questo modello di emancipazione, le donne ricordano i primi salariati che affrancatisi dalla servitù della gleba misero in vendita la propria forza lavoro

Caro direttore,
c’è una curiosa tendenza, tutta italiana, a oscillare tra le più raffinate posizioni critiche e dissidenti (specie nella sinistra) e la barbarie, tra Foucault e il Bagaglino per intenderci. Mi pare invece che sia giunto il momento di andare in piazza ed essere numerose perché questo non è il tempo dei distinguo, delle raffinate discussioni fra le diverse anime del femminismo italiano, questo è il tempo della piazza. Questo è il tempo delle donne in piazza: l’indignazione, infatti, si dice in molti modi, non solamente annunciando che in Italia esistono donne per bene che studiano e lavorano – e che quindi si distinguono, in maniera autoevidente, da coloro che preferiscono fare altro – ma anche denunciando il semplice fatto che lo scambio fra sesso, denaro e potere sia divenuto il principale ambito di reclutamento «politico» delle donne. Che cosa hanno da dire su questo le donne? Va tutto bene, dunque?

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Politica e società di massa secondo Adorno e Horkheimer

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Alla civiltà dei divi appartiene, come complemento della celebrità, il meccanismo sociale che uguaglia tutto ciò che spicca in qualche modo, e quelli sono solo i modelli della confezione su scala mondiale e per le forbici della giustizia giuridica ed economica, che eliminano anche le ultimi frange. La tesi che al livellamento e alla standardizzazione degli uomini si oppone, d’altro lato, un rafforzamento dell’individualità nelle cosiddette personalità dominanti, in rapporto al loro potere, è sbagliata; fa parte, a sua volta, dell’ideologia. I padroni fascisti di oggi non sono tanto superuomini quanto funzioni del loro stesso apparato pubblicitario, punti d’incrocio delle stesse reazioni di milioni. Se nella pscicologia delle masse odierne il capo non rappresenta più tanto il padre quanto la proiezione collettiva e dilatata a dismisura dell’io impotente di ogni singolo, le persone dei capi corrispondono effettivamente a questo modello. Non per nulla hanno l’aria di parrucchieri, attori di provincia e giornalisti da strapazzo. Una parte della loro influenza morale deriva proprio dal fatto che essi, come di per sé impotenti, e simili a chiunque altro, incarnano – in sostituzione ed in rappresentanza di tutti – l’intera pienezza del potere, senza essere perciò nient’altro che gli spazi vuoti su cui il potere è venuto a posarsi. Essi non tanto sono immuni dallo sfacelo dell’individualità, quanto piuttosto l’individualità in sfacelo trionfa in loro ed è in qualche modo ricompensata dalla sua dissoluzione. I capi sono diventati completamente ciò che erano già stati sempre, un poco, in tutto il corso della storia borghese: attori che recitano la parte di capi. La distanza fra l’individualità borghese di Bismarck e quella di Hitler non è inferiore a quella fra la prosa dei Pensieri e ricordi e il gergo illeggibile di Mein Kampf. Nella lotta contro il fascismo non è il compito meno importante quello di ridurre le immagini gonfiate dei capi alla misura della loro nullità. Almeno nella somilianza fra il barbiere ebreo e il dittatore il film di Chaplin ha colto qualcosa di essenziale.

Adorno – Horkheimer, La dialettica dell’illuminismo, traduzione di Renato Solmi, Einaudi, pp. 254-255

Aggiungo io: purtroppo questa somilianza fra barbieri, attori e politici, ora, non interessa più a nessuno. E’ anzi la chiave del successo. Ecco dove il nuovo fascismo ha vinto, processo che ben Pasolini riconosceva.

Gli Ausmerzen delle isole Marshall

L’amore odio per il corpo tinge di sé tutta la civiltà moderna. Il corpo, come ciò che è inferiore ed asservito, viene ancora deriso e maltrattato, e insieme desiderato come cioè che è vietato, reificato, estraniato. Solo la civiltà conosce il corpo come una cosa che si può possedere, solo in essa esso si è separato dallo spirito – quintessenza del potere e del comando – come oggetto, cosa morta, corpus. […] Col pieno trapasso del dominio alla forma borghese, mediata dal commercio e dal traffico, e ancor più con l’industria, ha luogo un mutamento formale. L’umanità si lascia asservire, anziché dalla spada, dall’apparato colossale, che alla fine, peraltro, torna a forgiare la spada. Così è scomparso il senso razionale dell’esaltazione del corpo virile; i tentativi romantici di rivalutazione del corpo nell’Ottocento e nel Novecento non fanno che idealizzare qualcosa di morto e di mutilo. Nietzsche, Gauguin, George, Klages, videro la stupidità indicibile che è il frutto del progresso. Ma ne trassero una conclusione errata, e invece di denunciare l’ingiustizia di oggi, idealizzarono quella di una volta. L’ostilità alla meccanizzazione è divenuta un semplice ornamento della cultura industriale di massa, che non può fare a meno di un bel gesto. Gli artisti hanno preparato per la pubblicità, senza volerlo, l’immagine perduta dell’unità di anima e corpo. L’esaltazione dei fenomeni vitali, dalla bestia bionda all’isolano dei mari del Sud, sfocia inevitabilmente nel film “esotico”, nei manifesti pubblicitari delle vitamine e delle creme di bellezza, che tengono solo il posto del fine imminente della rèclame: del nuovo, grande e nobile tipo umano, dei capi e delle loro truppe. I capi fascisti riprendono direttamente in mano gli strumenti di morte, abbattono i loro prigionieri a colpi di pistola e di frusta – non in virtù di una forza superiore, ma perché quell’apparato colossale e i suoi veri padroni, che ancora non lo fanno, consegnano loro le vittimi della ragion di stato nei sotterranei degli altri comandi. […] Quelli che in Germania esaltavano il corpo, ginnasti e camminatori, hanno sempre avuto la massima affinità all’omicidio, come gli amici della natura alla caccia. Essi vedono il corpo come un meccanismo mobile, le parti nelle loro articolazioni, la carne come imbottitura dello scheletro. Essi maneggiano il corpo, trattano le sue membra come se fossero già separate. La tradizione ebraica conserva la ripugnanza a misurare l’uomo col metro, poiché si misurano i morti – per la bara. E’ ciò di cui godono i manipolatori del corpo. Essi misurano l’altro, senza saperlo, con lo sguardo del costruttore di bare. Si tradiscono quando enunciano il risultato: dicono che l’uomo è lungo, corto, spesso, pesante. Sono interessati alla malattia, spiano già, durante il pranzo, la morte del commensale, e il loro interesse per tutto ciò che è razionalizzato solo fragilmente con la sollecitudine per la salute. Il linguaggio tiene il passo per loro. Esso ha risolto la passeggiata in movimento ed il vitto in calorie, un po’ come la foresta viva si dice legno (bois, wood) nel francese e nell’inglese corrente. La società riduce, col tasso di mortalità, la vita ad un processo chimico. (Adorno – Horkheimer, La dialettica dell’illuminismo, traduzione di Renato Solmi, Einaudi, pp. 252-254)

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Vuoi salvare il pianeta? Non la Decrescita ma… mangia meglio!


(nel link sotto trovi la traduzione in italiano della tabella e dei menù proposti dagli studiosi inglesi)
Da politicambiente

Dalla Gran Bretagna arriva la Livewell Diet per mangiare bene e combattere l’effetto serra

Ciascuno di noi può combattere quotidianamente il surriscaldamento terrestre? Certo, ogni volta che ci si siede a tavola, ad esempio: basta mangiare meno carne o cibi “trasformati” ed aumentare invece il consumo di verdura e cereali integrali, anche a vantaggio della salute e del portafoglio. La conferma, autorevole, giunge dal “Rowett Institute of Nutrition and Health” della Aberdeen University (GB), i cui scienziati hanno messo a punto una dieta ecosostenibile – la Livewell Diet (“dieta vivibene”) – con una tabella settimanale e menu giornalieri. Lo studio, commissionato dal WWF, servirà ora come base scientifica per una campagna di persuasione a livello nazionale e internazionale.

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Il rito ed il Giappone. Brevi osservazioni sull’Impero dei segni

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Questa non vuol essere una recensione. Un Giappone un po’ diverso da quello descritto da Barthes (ne l’Impero dei Segni) si è presentato durante la mia breve visita di due settimane. Non riesco a idealizzarlo come ha fatto lui, in chiave di non-occidente. Bisogna ammetterlo però, ogni luogo comune, anche alcuni di quelli riportati dal filosofo, ha una qualche verità di fondo che lo giustifica. Bathes, ad esempio, parla di ritualità, di nipponici che per darti (molto più che un semplice dirti) un “grazie” impiegano nel loro inchino tutto il loro corpo, non solo una parola. Del resto, l’ossessione del rito la si respira ovunque in Giappone. Dai capistazione, agli usceri, ai vigili “pedonali”, dalla scrittura col pennello fino al famoso e mitologico (in occidente) tiro con l’arco, da ogni lavoro o ruolo sociale che in quanto tale fa parte di una precisa gerarchia, ogni atto umano s’inserisce in un qualcosa di noto, in un solco già tracciato di regole precise e gesti precisi, precisi e puntuali come un treno della JR (Japan Rail).

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La società dell’Evento

Destoricizzare, fare di tutto il mondo un evento. Di qui, diventa facile fare della cronaca un posto dell’indistinto, dove tutto colpisce ma, misteriosamente, viene dimenticato il giorno dopo. Un rito collettivo della società post-moderna. Un rito della sedicente società desacralizzata che tocca anche e soprattutto la politica. La moltiplicazione mediatica di quei fenomeni che filosofi come Heidegger, Deleuze e Derrida chiamavano “evento”, secondo Marc Augè, fabbrica sempre nuovi inizi. Tutto è condannato alla novità: in questa negazione della storia, in questa macchina che serve per mobilitare e ideologizzare, la memoria si atrofizza. Ecco le parole di Marc Augé (da La Reppubblica 04/12/2010):

Oggi assistiamo a una dittatura degli eventi. Tutto deve essere trasformato in un’ occasione unica e irripetibile, ben diversa da quella trama d’ avvenimenti quotidiani, individualio collettivi, che da sempre tutte le culture hanno messo al centro dei loro sistemi d’ interpretazione. Oggi prevale la dimensione eccezionale. Il paradossoè che questi eventi fuori dal comune, o che si vuole presentare come tali, sono sempre più frequenti, risultato di un’ inflazione che alla fine appiattisce e banalizza tutto. Da un lato, essa drammatizza ciò che non avrebbe ragione d’ esserlo, dall’ altro, svaluta le occasioni che invece meriterebbero veramente un’ attenzione particolare. Così, un evento ne scaccia un altro, e ciò che oggi è eccezionale, domani non lo sarà più. Se oggi viviamo in una sorta di presente perpetuo, vale a dire un tempo bloccato da immagini che si ripetono senza sosta, un tempo immobile che ignora il passato e nega il futuro, ciò è dovuto anche alla moltiplicazione degli eventi e al loro culto diffuso. L’ unicità dell’ evento, infatti, domanda al tempo di arrestarsi. La sua irripetibilità, indipendentemente dal fatto che sia verao meno, nega qualsiasi divenire, rinchiudendo ciò che accade in una parentesi temporale senza memoria e senza prospettive. La moltiplicazione degli eventi più o meno orchestrata dalla società dei consumi implica quindi un accumulo che produce una temporalità senza evoluzione e senza storia. Nello spettacolo come nella politica, nello sport come nella cultura, il sistema in cui viviamo fabbrica eventi a ripetizione, focalizzando su di essi tutta l’ attenzione del pubblico, che così dimentica tutto il resto. Da questo punto di vista, potremmo dire che l’ evento è un nonluogo temporale, dove si celebra un falso carpe diem imposto dalla società dei consumi, che, in simbiosi con la scena mediatica, ha continuamente bisogno di creare nuove occasioni per mobilitare collettivamente i consumatori. L’ impressione d’ irripetibilità, se da un lato si contrappone al divenire storico, dall’ altro però può alimentare una memoria individuale. Una traccia soggettiva che è un elemento di resistenza all’ oblio collettivo oggi dominante e alle debolezze della rappresentazione storica. Se ciò avviene, è anche perché, seppure in termini molto parziali, l’ evento, anche nella sua dimensione più artificiale, può creare l’ impressione che qualcosa di nuovo stia per cominciare, recuperando così almeno una parte della ritualità tradizionale. L’ evento, soprattutto in alcuni ambiti, come la politica, permette di fabbricarsi ogni volta l’ illusione di un nuovo inizio. Naturalmente, la fascinazione collettiva per gli eventi è anche legata all’ impressione d’ impoverimento esistenziale che ci accomuna. Di fronte a una vita percepita come piatta e banale, abbiamo bisogno di momenti intensi ed unici che ci permettano di sentirci più vivi. La dimensione pubblica e collettiva contribuisce al senso di pienezza dell’ esperienza, procurando anche un’ impressione di comunione con gli altri. Più si è in tanti e più si ha l’ impressione di essere al centro di una situazione eccezionale. Nella società dei consumi sono sempre di più coloro che, non potendo consumare per ragioni economiche, si sentono esclusi da un sistema di cui vorrebbero far parte. Il bisogno di consumo viene allora soddisfatto almeno in parte dall’ illusione prodotta dagli eventi collettivi, che in questo diventano un surrogato. Il problema è che oggi, per via delle protesi tecnologiche individuali di cui siamo dotati, troppo spesso ci ritroviamo a vivere gli eventi da soli davanti a uno schermo. Non proprio una situazione eccezionale capace di trasmetterci nuove energie.

Il tempo fra Oriente ed Occidente. La relatività del tempo…

Cos’hanno incomune il filosofo indiano Shankara e il filosofo occidentale Agostino?

Un occidente che contrappone tempo ed eternità, un oriente che li identifica. L’apparente esistenza sostanziale del tempo è un errore di prospettiva della filosofia e teologia occidentale. In realtà, sembra dire Coomarasmamy, tutto è divenire, il tempo è solo una illusione prospettica. Tempo come mera unità di misura del divenire. Ecco alcune righe di Ananda Kentish Coomaraswamy, in Tempo ed eternità, Luni editrice, 2003, pp. 14-15, un libro di cui fornire una recensione esaustiva appare davvero difficile.

Esamineremo la dottrina del Tempo e dell’Eternita nei contesti vedico, buddhista, greco, cristiano e islamico. Entrambi i termini sono ambigui. Il Tempo è sia la totalità, o una parte, del continuum della durata passata e futura, sia questo punto presente del tempo (nunc fluens) che distingue fra loro le due durate. L’Eternità è sia, dal nostro punto di vista temporale, una durata senza inizio né fine sia, in se stessa, quel punto inesteso del tempo che è Ora (nunc stans). Dal punto di vista che si puo chiamare esteriore o letteralista, si concepisce che il tempo, nel primo senso, abbia avuto un inizio e proceda verso una fine; esso viene pertanto contrapposto all’eternità considerata come una durata perpetua senza inizio né fine.

L’assurdità di queste posizioni diventa manifesta se ci domandiamo con S. Agostino: “Che cosa faceva Dio (l’Eterno) prima di creare il mondo”; la risposta è, naturalmente, che essendo il tempo e il mondo interdipendenti — o, in termini di “creazione”, concreati — la parola “prima” non ha alcun senso in una tale questione. E’ per questo che l’esegesi cristiana afferma abitualmente che “en archè” in principio, non implica un “inizio nel tempo” bensì un’origine nel Principio Primo; ne consegue logicamente che Dio (l’Eterno) crea il mondo ora e sempre. La dottrina metafisica contrappone semplicemente il tempo in quanto continuum all’eternità, che non è nel tempo e che non può essere propriamente chiamata durata perpetua, poiché essa coincide con il presente reale, l’istante, di cui non si può avere esperienza nel tempo. Qui la confusione sorge solo per una coscienza che riflette in funzione del tempo e dello spazio, poiché, per essa, un “istante” succede a un altro “istante” senza interruzione e sembra che vi sia una serie indefinita d’istanti, collettivamente assommati nel tempo. Questa confusione può essere dissipata se ci rendiamo conto che nessuno di questi istanti ha durata e che, quanto alla misura, essi sono tutti degli zero la cui somma è impensabile. E’ una questione di relatività: siamo noi ad essere in movimento, mentre l’ora è immutabile anche se sembra spostarsi – proprio come il sole sembra levarsi e tramontare a causa della rotazione della terra.
 

Koko, a talking gorilla

(nella foto in alto, due gorilla di montagna fotografati in Uganda)

KOKO, A TALKING GORILLA(Koko, un gorilla che parla), tradotto in italiano da noi filosofiprecari, è uno straordinario documentario (benché datato) che mostra inequivocabilmente che non vi è nessun salto ontologico fra la specie umana e le altre specie viventi, ma una continuità. Ad un gorilla di pianura – tuttora vivente – dagli anni Settanta in poi è stato insegnato il linguaggio dei gesti dei sordomuti; Koko riesce tramite esso ad esprimere sentimenti, stati d’animo, a dire bugie, fare congetture, riferirsi ad avvenimenti del passato ed a proposte per il futuro; riesce in altre parole a comunicare efficacemente ed in maniera continua con una specie diversa dalla sua, l’essere umano. Ricombina inoltre i segni imparati in maniera autonoma, forgiando nuove parole e combinazioni di parole per significare nuovi oggetti e nuove realtà, anche esistenziali, in cui si imbatte, fino al punto d insegnarli ad altri Gorilla e perfino agli Scimpanzé.

La teoria dell’evoluzione, a duecento anni dalla nascita del suo primo fondatore, sottoposta in Italia come nel mondo a continui attacchi in nome della politica teocon-teodem, di alcune confessioni religiose, e di alcune frange dell’umanesimo, trova in questo incredibile esperimento una conferma ed un avvallo; benché datato e condotto secondo tecniche e strategie educative oggi superate, l’ “esperimento” rimane una pietra d’inciampo: l’ultimo baluardo dell’unicità umana in nome del linguaggio o di pseudo principi extranaturali come anima ed inanimazione, e dicotomie del tutto fittizie quali natura/cultura, naturale/artificiale, essere umano/natura, vengono infrante dall’evidenza dei fatti. L’uomo che cerca di relazionarsi con specie extraterrestri, cercando l’intelligenza in surrogati umani di altri pianeti, si accorge incredibilmente che forme di vita intelligenti, o diversamente-intelligenti lo circondano, lo hanno sempre circoandato. Questione di metodo, di ignoranza, di ideologia, specie di una “naturalizzata” ideologia ebraico-cristiana. Sorge finalmente l’evidenza che vi è una continuità assoluta fra specie umana e le altre specie viventi, fra uomo e natura, in termini di capacità, dignità e diritti, e quindi – purtroppo solo in teoria – ciò distrugge l’intramontabile paradigma antropocentrico, il paradigma occidentale-biblico (ma purtroppo, spesso, anche scientifico) che vede l’essere umano al centro della “creazione”, nato o creato per dominarla in nome della “differenza di natura”. Questa differenza sembra essere, ora più che mai, il vero peccato originale della cultura occidentale. Basterebbe spingersi un po’ più ad oriente nel mondo per trovare ideologie religiose radicalmente anti-antropocentriche, basti pensare al buddismo o al buddismo zen. Ma qui in Occidente navighiamo davvero verso la fine del nostro miope ed essenzialista umanesimo, come hanno fatto intendere, per esempio, Nietzsche ed Heidegger?

(Video 1 e 2)


koko1 di alessandro-stella

koko2 di alessandro-stella

sulla Democrazia… #0

Aggiungiamo altro materiale al percorso sulla Democrazia, intesa come “forma di Governo delle cose e degli Esseri umani”, che abbiamo già toccato in altri articoli su questo spazio: La funzione democratica della Cultura nella Società di massa, Come ti governo le cose e gli Esseri umani e vecchio/nuovo Fascismo, una lettura….

Luciano Canfora sulla Democrazia.

Qui una riflessione sulle caratteristiche dell’attuale sistema di Governo “occidentale”, tratta dal libro di Luciano CanforaLa Democrazia. Storia di una ideologia”, Editori Laterza, Roma-Bari 2004 (stralci dal capitolo XV, “Il sistema misto”).

Bloch racconta Munzer, una Recensione.

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo: Thomas Münzer teologo della rivoluzione (Universale economica. Saggi)

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Ernst Bloch, Thomas Munzer teologo della rivoluzione, Feltrinelli, Milano (traduzione di Simona Krasnovsky e Stefano Zecchi).

Quella di Ernst Bloch non è semplicemente una biografia. Il suo ritratto di Thomas Munzer (o Muntzer, stando a wikipedia) è piuttosto il racconto di un’Epoca, di una trasformazione che cammina direttamente sulle gambe degli Esseri umani. Bloch, infatti, narra innanzitutto un passaggio, quello dall’homo spiritualis all’homo oeconomicus (“l’uomo piatto che si adatta agli ordini pubblico-giuridici esistenti, troppo tiepidi e poco illuminati”, p. 95), che si snoda nel rapporto tra Religione e Politica, quando entrambe si interessano al “religàre” cioè al mettere insieme una Comunità secondo precise Norme (in ambito Sacro e “civile”). Non è un caso che la prima edizione del libro di Bloch risalga al 1921, contemporaneamente alla pubblicazione del volume “La Dittatura” di Carl Schmitt. Il libro su Muntzer, quindi, sembra inserirsi in un tentativo tutto “tedesco” di rispondere tanto alla Crisi strutturale (economica, sociale, istituzionale…) generata dal primo Conflitto mondiale quanto alla strada rivoluzionaria intrapresa dalla Russia bolscevica. Però se Schmitt, semplificando, giunge a pensare la Dittatura come una forma di “Stato di Eccezione” capace di “sospendere” lo Stato di Diritto per conservare, nella sostanza, l’architettura del Potere “Sovrano”; Bloch riprende il millenarismo di Epoca moderna per tentare di produrre un’Eccedenza, per andare oltre l’impalcatura dello Stato. Entrambi gli autori, però, sembrano interrogarsi sui momenti di Eccezione: che essa si chiami Dittatura (Schmitt) o “Utopia messianica” (Bloch), che altro non è se non un meccanismo di “sospensione” della Storia per percorrere altre strade.

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