Il cimitero di Praga (Umberto Eco), una Recensione

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Alla radice dell’ultimo libro di Umberto Eco, Il cimitero di Praga, c’è la “Forma Universale del Complotto“. Un impegno di non poco conto tanto per lo scrittore quanto per il lettore. In effetti per Simonino Simonini, protagonista indiscusso del Romanzo (e, per certi versi, della nostra Storia ottocentesca), si tratterebbe solo di scegliere, organizzare, ordinare e comporre tutto quello che, in realtà, sarebbe già di pubblico dominio, perchè “La gente crede solo a quello che sa già“. Ex falso sequitur quodlibet non è semplicemente un teorema (attribuito tradizionalmente a Duns Scoto), citato nel libro, che indica come dal falso possa seguire qualsiasi cosa individuata a piacere, ma è il fil rouge del Romanzo d’Appendice scritto da Umberto Eco (a trent’anni dal Nome della Rosa). A pensarci bene non è neanche qualcosa da far passare completamente inosservata perchè, attraverso questo “percorso” privilegiato, si potrebbe tranquillamente arrivare a certe “storture” della coscienza sociale che si vivono (in maniera sempre più assuefatta) ai “giorni nostri”. E, a pensarci ancora meglio, ci sembra una citazione già ripresa da Giorgio Agamben nelle prime pagine del libro “La Comunità che viene“. Quindi tutto si rende molto interessante, molto attuale.

Non faremo una recensione sistematica, svelando trame e personaggi (interventi di un taglio differente potreste trovarli nei link segnalati, di volta in volta, in coda a questo testo). Ci sembrerebbe ingeneroso nei confronti dello sforzo narrativo e della vitalità editoriale. Le recensioni dovrebbero servire solo a creare dibattito, non a descrivere i libri. Per questo focalizzeremo il nostro interesse solo su un aspetto, forse il più importante, attraverso il quale proveremo a tratteggiare la fisionomia del confronto che si potrebbe creare: lo stretto legame che generalmente si produce tra creazione del “Complotto” ed inviduazione del “Nemico”. Tutto il Romanzo, infatti, sembra essere teso a descrivere le trame, intrecciate tanto dalla casualità quanto dalla necessità, che hanno portato alla diffusione dei “Protocolli dei Savi anziani di Sion“. Nel libro si narrano vicende storicamente accadute (solo il personaggio di Simonino Simonini è prodotto dal nulla, o meglio è la ricostruzione di una serie di trame), si fa una genealogia approfondita del “dispositivo Complotto” e di come esso possa essere utilizzato per costruire e depotenziare (quando non distruggere) il “Nemico”. Si narra della generazione di un paradigma che intreccia pezzi di immaginario collettivo, si astrae dalla Realtà e viene utilizzato, con declinazioni diverse a seconda delle esigenze, per scopi differenti e da organizzazioni anche molto lontane. Ingrediente fondamentale di questa ricetta non è, naturalmente, la Verità ma sono le immaginazioni popolari, gli interessi (alti e bassi) dei sistemi sociali e la comodità storica. Così, attraverso le stesse strutture di accusa, si potrebbero colpire ugualmente gruppi sociali anche contrapposti. Per certi versi si potrebbe considerare una scrittura complementare a “Teoria del Partigiano” di Carl Schmitt.

L’unica vittima sacrificale di tutto questo processo di creazione sembra essere, in modo particolare, proprio la Verità. In questo modo la Storia si confonde con il Presente, un Presente in cui ognuno si sente in diritto/dovere di dare al Mondo la propria opinione, magari riuscendo a dire anche l’esatto opposto a distanza di qualche momento. E’ il Presente veicolato dalla mediatizzazione, dagli strumenti di anonimizzazione che nascondono il Corpo e le azioni dietro fasci digitali ad alta velocità. E’ il Presente in cui andrebbe ricercato un nuovo “patto” tra Verità e Parola.

Si potrebbe inserire Il cimitero di Praga nella vetrina della New Italian Epic perchè, a nostro avviso, ne possiede tutti gli elementi utili. Sembra anche essere sicuramente un testo pop (popular), non solo per il successo di pubblico ma anche per il modo “basso” di narrare una Storia (si entra direttamente a contatto con una certa “tranquillità del quotidiano”, con i suoi canoni e le sue paure condivise).

Alcune recensioni: Giornalettismo.com.

Gesù di Nazaret. Recensione di Flores d’Arcais all’ultimo libro di Ratzinger

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(dal Fatto Quotidiano, 25/03/2011, p. 18)

Gesù non era cristiano

Gesù non era cristiano. Era un ebreo osservante, che mai avrebbe immaginato di dar vita a una nuova religione e meno che mai di fondare una “Chiesa”. Non si è mai sognato di proclamarsi il Messia, e se qualcuno degli apostoli ha ipotizzato che fosse “Cristo”, lo ha fulminato di anatema. All’idea di essere considerato addirittura “Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”, secondo il “Credo” di Nicea, sarebbe stato preso da indicibile orrore.

Gesù era un profeta ebreo itinerante, esorcista e guaritore, che annunciava l’ “euangelion” apocalittico del “Regno” incombente per intervento divino. Ha predicato quasi esclusivamente in Galilea, per pochi mesi se stiamo ai tre sinottici, al culmine dei quali, recatosi a Gerusalemme, avendo provocato qualche disordine, viene condannato alla crocifissione per sedizione. Storicamente, una figura di minore importanza rispetto a Giovanni che battezzava sulle rive del Giordano, e ad altri predicatori apocalittici del suo tempo. Come ha scritto il maggior biblista cattolico italiano del dopoguerra “la vicenda di Gesù, al di fuori di quanti a lui si richiamano, è stata, in realtà, di poca o nessuna rilevanza politica e religiosa: una delle non poche presenze scomode in una regione periferica dell’impero romano, messe prontamente a tacere in modo violento dall’autorità romana del posto con la collaborazione, più o meno decisiva, di capi giudaici” [Giuseppe Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, Bologna 2002, p.39].

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Italiani, brava gente!

Ha scatenato un mese di polemiche questo intervento di Roberto Benigni al Festival di Sanremo, ripreso qualche giorno fa dall’interessante contributo (da noi già citato) di Wu Ming che ricostruisce la Storia del nostro inno nazionale (dimostrando come, in realtà, faccia riferimento ad episodi che con l’Unità d’Italia c’azzeccano poco e niente). La cartina di tornasole utilizzata da Wu Ming è l’articolo di Alberto Mario Banti pubblicato da Il Manifesto il 20 Febbraio (che ha suscitato numerose reazioni, alcune anche molto violente). Banti, in sostanza, accusa: “con la performance di Benigni mi sembra che il rischio di una riattualizzazione del peggior nazionalismo stia diventando reale“. Perchè la sua lezione farebbe discendere il nostro “chi siamo” dai Romani, dalla Lega Lombarda, dai Vespri sicialiani e da Balilla (“ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci“). Tutti Eventi che, con l’Unità d’Italia, non avevano nulla a che vedere. Anzi, in certi casi erano rivolti contro gli stessi Piemontesi. Attenzione al neo-nazionalismo, conclude Banti, perchè si annida sempre nel nostro ventre. E, a vedere i festeggiamenti per il 17 Marzo, forse non ha avuto torto. Evocare con tanta enfasi l’auto-incoronazione di un Re (Vittorio Emanuele II) come momento fondamentale del nostro “chi siamo“, sembra davvero fuori epoca. Siamo così deboli che basta un sventolio di bandiere per riempire il vuoto di Comunità e di Terra che abbiamo.
Criticare Roberto Benigni, però, è un pò come provare a criticare (seppur bonariamente) Roberto Saviano. Quasi impossibile (si farebbe “Lesa maestà“, scrive provocatoriamente Il Fatto Quotidiano). L’immaginario collettivo trasforma troppo facilmente gli Esseri umani in “manifestazioni eroiche dello Spirito”. La ragione è semplice: è fin troppo comodo delegare la propria creatività ad altri piuttosto che praticarla quotidianamente per provare a trovare alternative di Vita. Troppo comodo stare davanti alla TeleVisione, partecipare all’audience oppure leggere un libro, senza esserne direttamente protagonisti.
Ad ogni modo, tornando all’argomento, un filo spinato divide due territori: patriottismo e nazionalismo. Anche assumendo (senza dare nulla per scontato, perchè di dubbi ce ne sono fin troppi) che uno sia cattivo e l’altro buono, il cuore del discorso sembra essere un altro. Come, giustamente, hanno fatto notare molti commentatori: siamo in piena euforia “italiana” senza renderci conto di cosa questo voglia dire. Non abbiamo mai fatto i conti con le nostre brutalità in Grecia, nella ex Jugoslavia ed in Africa. Tutto è stato censurato ed insabbiato, anche grazie (e, forse, a causa) dell’amnistia togliattiana. Wu Ming ricorda che la “Nazione” nasce, romanticamente, dall’intreccio idealtipico di Suolo e Famiglia (anche Engels parla di questo legame ne L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato). Questa è l’idea “conservatrice” della Patria. Ora, è su questo connubio costituente si dovrebbe ragionare. Stato/Patria/Nazione, Suolo e Famiglia sono elementi che si riconfigurano nell’attualità attraverso il Governo neoliberale dell’Emergenza. E’ questa nuova modalità che, da un lato, crea forme sociali di Comunità-Territorio (progressiste, come in Val di Susa; reazionarie, come la Lega Nord) che sostituiscono i legami Suolo-Famiglia e dall’altra genera una sorta di neo-nazionalismo identitario e poco incline alla riflessione. Basta una Bandiera per sentirsi parte di qualcosa, nel bene o nel male.

Di seguito Il Leone del Deserto, film diretto da Moustapha Akkad con Anthony Quinn censurato in Italia nel 1982 perché, secondo l’allora Primo Ministro Giulio Andreotti, “danneggia l’onore dell’esercito“.

Unità!

Ecco il giorno, l’Unità d’Italia. Si festeggia. Sventolano bandiere colorate, coccarde tricolore ornano i petti di molte persone. Orgoglio, identità nazionale, Patria, Onore. Tutte grandi parole, di ampio respiro. Anche condivisibili (se prese criticamente, una alla volta). Ma non si festeggiano le parole, si ricordano principalmente gli Eventi. Cosa dovremmo apologizzare, quindi? La storia di una sistematica colonizzazione, voluta non si sa bene da chi e come. Dove c’erano fabbriche e lavoro è venuta la disoccupazione; dove i contadini si sono ribellati contro le proprie catene, delusi anche dai presunti liberatori, c’è stata una strage. Dovremmo festeggiare l’incoronazione di un Re che, secondo qualcuno, avrebbe fatto l’Italia. Ma l’idea di Italia non nasce nel 1861. Forse, l’Italia, non esiste ancora. E’ il gran rimosso della nostra contemporaneità nazionale, il “non detto” con cui dovremmo cominciare a confrontarci.

Nota bene. Intervento molto interessante di Wu Ming sull’argomento

Il “capo”: alcune note su Garibaldi (L. Canfora)

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Ho dovuto combattere contro il più grande condottiero; mi è riuscito di mettere d’accordo imperatori, re, uno zar, un sultano ed un papa. Ma nessuno sulla faccia della terra mi ha procurato maggiori difficoltà di un manigoldo di italiano, emaciato, pallido, straccione, ma facondo come l’uragano, rovente come un apostolo, furbo come un ladro, sfacciato come un commediante, infaticabile come un innamorato: il suo nome è Giuseppe Mazzini (Metternich)

«Garibaldi era assolutamente privo di saggezza politica: non era né un maestro della letteratura italiana, come Mazzini, né un profondo statista come Cavour; ma come audace capitano di truppe irregolari, capace di ispirare nei suoi rozzi seguaci gli elementi di una fede politica semplice e appassionata, aveva in sé una omerica grandezza» ha scritto lo storico liberale inglese H. A. L. Fisher nel terzo volume della sua History of Europe (1935). Meno riduttivo un altro storico di ispirazione liberale, Benedetto Croce, il quale esalta più volte nei suoi scritti, di Garibaldi e di Mazzini, per lo meno il ruolo di modelli d’azione per le nazioni oppresse: «e ancora ai nostri giorni quei nomi – scrive nel 1928, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915- risuonano nella lontana India e quegli uomini hanno colà discepoli» . Durante la campagna che portò alla cacciata dei Borboni dal «Regno delle due Sicilie», Garibaldi assunse la dittatura (1860). Certamente egli pensava alla dittatura romana: magistratura che comportava i pieni poteri nelle mani di un’unica persona, ma per un limitato numero di mesi, eventualmente rinnovabile. Aveva alle spalle una lunga esperienza politicomilitare, dal Sud America alla Repubblica romana del 1849, in cui ugualmente aveva rivestito ruoli direttivi: anche se Mazzini, assurto per parte sua alla testa di un «triumvirato», gli aveva piazzato sul capo, come superiore, il generale Roselli, al quale Garibaldi disobbedì tutte le volte che gli parve di farlo. Ad un certo punto Garibaldi aveva proposto a Mazzini di dar vita piuttosto ad una guerriglia tra le montagne che non ad una ostinata, e militarmente perdente, difesa di Roma. Se però ci si ostinava ad optare per questa seconda strategia, chiedeva per sé la dittatura. Insomma la dittatura ritorna nei suoi pensieri come appetibile e necessaria forma del potere. Mazzini cercò di tamponare questa impennata e vi riuscì, ma poco dopo la Repubblica andava a rotoli.

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Filosofia giapponese della catastrofe (2). Film, anime e ambiente

Sembra che le visioni terribili e post apocalittiche di Miyazaki (Conan, Nausicaa) e di Kurosawa (il film Sogni, nell’episodio “Fujiama in rosso” – clicca qui per vedere l’inizio) abbiano trovato una concretizzazione parziale. Scenari da guerra atomica e di devastazione, come se davvero si fosse concretizzato il mostro pop più famoso del Giappone, Gozilla, la somma di tutti i disastri dell’immaginario e dell’esperienza giapponese. A Sendai, dopo tsunami, terremoto e radiazioni della vicina centrale, sembra concretizzarsi anche il tema di ragazzi e bambini senza genitori che camminano fra le macerie: nei fumettisti e negli animatori giapponesi è un topos psicologico più che una moda, un archetipo originatosi dalla tragedia di Hiroshima e dai postumi della seconda guerra mondiale. Basti pensare a cartoni animati con cui siamo cresciuti, come l’Uomo Tigre (il protagonista è un orfano che si prende cura di orfani e scappa da una società militarizzata, Tana delle Tigri), Coccinella (l’eroina, orfana, vive cresciuta dai fratelli maggiori), e tanti altri esempi. Il tema viene portato alla sua massima compiutezza con Miyazaki: i suoi protagonisti sono sempre bambini senza genitori, giovani e forti, sani, che parlano con gli animali, rispettano la natura, sono puri, buoni (Lana in Conan, la stessa Nausica), vivono in nome dell’amicizia e dell’amore, valori sconosciuti agli adulti. Gli adulti (quelli della guerra, i tecnocrati, quelli che hanno distrutto il pianeta) sono sempre malvagi, utilitaristi o incapaci di capire (l’adulto, nei capolavori di Miyazaki, è sempre negativo). Conan è orfano, cresce col nonno che gli muore subito, deve riedificare una civiltà un po’ luddista ma a contatto con la terra, lontana da Indastria e dallo sfrutamento dell’uomo sull’uomo, lontano da quella minacciosa ed avanguardistica “energia solare” (parafrasi di quella atomica), nell’isola idilliaca di Hyarbor (un’isola davvero molto simile all’idillio dell’ultimo episodio di Sogni di Kurosawa) dove si è tornati alla terra e si pratica una particolare forma di socialismo. L’ ultimo residuo di quella umanità malvagia ed egoista che ha devastato il pianeta è il dottor Rao: il suo tremendo segreto sta nel fatto che è lui lo scopritore di quella diabolica energia, quell’energia che lui e altri scienziati volevano adoperare a fin di bene ma che ha sconvolto la storia e lo stesso il pianeta. Sarà proprio lui a riscattarsi ed a sacrificarsi, consegnando il futuro a Conan e Lana, novelli Adamo ed Eva. Indastria, l’ultimo residuo della tecnologia e del potere dispostico della civiltà antica anteguerra, sprofonda in mare in seguito ad un grande Terremoto. Manco a farlo a posta, un maremoto (oggi diremmo uno tsunami) colpisce la stessa Hyarbor, ma del resto il tema del cataclisma purificatore lo si respira nel titolo stesso dell’opera da cui è tratta la serie animata, e cioè La Grande onda (A Big Tidal Wave).

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Filosofia del disastro in Giappone

dal Corriere della Sera

I giapponesi giudicano se stessi e gli altri in base alle categorie di «autocontrollo» e «autogoverno»

Cronaca di una reazione annunciata. Di fronte a immagini catastrofiche che sembrano uscire dal capolavoro d’animazione di Hayao Miyazaki, Nausicaä della Valle del Vento, non è facile capire come sia possibile non farsi prendere dal panico, non lasciarsi andare alla disperazione più totale, non sentirsi completamente persi. La risposta è semplice: essere preparati. Una preparazione che ovviamente è innanzi tutto di tipo concreto. Per i giapponesi ogni cosa deve essere programmata alla perfezione. Così scuole, uffici, stazioni, ospedali: tutti i luoghi pubblici hanno dei piani di evacuazione ben collaudati che vengono testati periodicamente. Ogni anno, ad esempio, nell’università in cui insegno – Waseda – si svolgono le «prove generali» di un’evacuazione. Gli altoparlanti ci avvisano che dobbiamo lasciare l’edificio e così, docenti e studenti insieme, scendiamo tutti in fila le scale fino al piano terra per poi incamminarci con calma fino al punto di ritrovo prestabilito. Una «camminata» di un paio di chilometri molto importante per imparare a conoscere il tragitto che si deve percorrere in caso di emergenza. Usando sempre la metropolitana o altri mezzi pubblici, infatti, non è sempre detto che lo si sappia raggiungere anche a piedi.

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Altai

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[…] – Le ultime volontà di mia madre furono che venissi cresciuto da buon giudeo. A questo mi sono ribellato per tutta la vita, fino a diventare l’opposto, un vessatore della mia gente. Eppure oggi sono qui. Forsa era destino che andasse così, che facessi un giro lungo e tortuoso. Il disegno di Dio è imperscrutabile. Non possiamo sapere in anticipo quali accidenti ci porteranno a essere ciò che siamo, nè possiamo sapere se i mezzi che scegliamo si riveleranno giusti. Quel che so è che stanno accadendo grandi cose, Cipro è il progetto più ambizioso che un ebreo abbia mai immaginato, e io sono stufo di stare qui ad aspettare -. Puntai il dito verso il vecchio. – Le vostre sconfitte non rendono vano il tentativo di riprovarci. Potere scegliere se essere di nuovo utile a una causa, oppure star qui ad attendere che abbocchino i pesci. […]

ALTAI, Wu Ming

“Progetto Locale”, Alberto Magnaghi. Una recensione…

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Un Progetto sul Territorio
Suggestioni alternative per una lettura di “Progetto Locale”


Nonostante la globalizzazione, la circolazione mondiale delle merci e delle comunicazioni, l’istantaneizzazione della Vita e dei rapporti individuali e commerciali ed il dominio del virtuale e dell’aria, la Terra non è scomparsa. Senza Terra non c’è speranza. I punti di partenza e di arrivo sono sempre ben radicati al suolo. Ci si imbarca su un aereo, si accede ai network virtuali, si attraversano i mari e gli oceani (per turismo o per lavoro), sempre a “partire da” e a “finire con” la terraferma. Porti, aereoporti, stazioni, postazioni internet. Sono proprio questi luoghi “terrestri” dell’incontro e della comunicazione, di imbarco e di sbarco delle cose e degli Esseri umani, che cominciano ad assumere un significato diverso. Sono i crocevia della retorica imperiale, spazi di conflitto tra piani e striature. Come le strade disegnate e realizzate dai romani in Età repubblicana, la striatura del Potere che mostrava ai barbari le vie della presenza e della diffusione della cittadinanza romana e della legge, della civitas e dell’ordine. Oltre il limes della pianificazione stradale poteva esserci solo la foresta, con i suoi sentieri oscuri e la sua barbarie da ordinare, disciplinare e controllare. La retorica del potere, quindi, ha ancora entusiasticamente bisogno della Terra per esprimersi e per costruire un discorso che sia visibile, che sia reale. Lo sguardo e l’udito si perdono senza la materialità della Terra. Per questa ragione i Luoghi diventano, più di ieri, potenziali veicoli di diffusione, organizzazione e controllo di massa. Ci ritroviamo nel ben mezzo di quel conflitto-confronto tra “spazio liscio” e “spazio striato” individuato dalle visioni estatiche di Deleuze e Guattari: “Lo spazio liscio e lo spazio striato – lo spazio nomade e lo spazio sedentario – lo spazio dove si sviluppa la macchina da guerra e lo spazio dove si istituisce l’apparato di Stato non sono della stessa natura. Ma a volte possiamo notare un’opposizione semplice tra i due tipi di spazio. Altre volte dobbiamo rilevare una differenza molto più complessa, per cui i termini successivi delle opposizioni considerate non coincidono del tutto. Altre volte ancora dobbiamo ricordare che i due spazi esistono in realtà solamente per i loro incroci reciproci: lo spazio liscio non cessa di essere tradotto, intersecato in uno spazio striato, lo spazio striato è costantemente trasferito, restituito ad uno spazio liscio.” (Deleuze e Guattari 1980, p. 698). Spazio liscio e spazio striato, quindi, non sono una perfetta dicotomia conflittuale ma due elementi in continua interazione, in equilibrio storico precario che potrebbe risolversi per l’uno o per l’altro a seconda delle circostanze. Siamo pienamente inseriti su questa bilancia che ora sembra essere a favore delle striature, laddove ogni spazialità è descritta da norme e funzionamenti processuali. La striatura, ad ogni modo, cerca sempre di chiudere lo spazio mentre “nel liscio ci si ‘distribuisce’ su uno spazio aperto”. (ivi, p. 706). Bisogna tenere in conto le interazioni.

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Oratoria, retorica, il saper parlare. Analisi del discorso di Marco Antonio


Retorica di filosofiprecari

Il discorso di Marco Antonio, qui reso in versione cinematografica da uno statuario e olimpico Marlon Brando (italiano, qui doppiato dal grande Emilio Cigoli, voce forse più coinvolgente di quella originale), è uno degli esempi più incredibili dell’uso dell’arte oratoria. E’ uno degli esempi più illuminanti di quello che è il vero fine di un discorso: la gestione dell’emotività dell’interlocutore. Shakespeare, anche in questo caso (come nel Mercante di Venezia, ma in tante altre opere) dimostra che a saper convincere un pubblico sono sempre coloro che usano particolari accorgimenti retorici.

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Cosa sono le nuvole? Una recensione

Otello burattino: Ma qual è la verità? E’ quello che penso io de me, o quello che pensa la gente, o quello che pensa quello là lì dentro [indica il burattinaio]
Jago burattino: Cosa senti dentro di te? Concentrati bene… cosa senti, eh?
[pausa di silenzio]
Otello burattino: Sì, sì, si sente qualcosa che c’è!
Jago buratinno: Quella è la verità! Ma sssssshhh… [si porta l’indice sulle labbra] non bisogna nominarla, perchè appena la nomini, non c’è più…

(Cosa sono le nuvole?, regia di Pier Paolo Pasolini, 1967)

Ve lo ricordate? A me è capitato di rivederlo qualche sera fa. Cosa sono le nuvole?, un capoloavoro del cinema Italiano. Pasolini mise sullo stesso palco Totò, Ciccio Ingrassia, Franco Franchi, Laura Betti, attori di avanspettacolo, maschere come Pulcinella, attori bistrattati e violentati dal cinema di massa degli anni 50 e 60. Attori che ora appartengono al mondo delle ombre. Pasolini provò a ridarli dignità, e provò a farli essere loro stessi, come sempre tentava di fare con chi lavorava nei suoi film. Con questa pluriannale pratica Pier Paolo scoprì così che erano attori fusi con il loro personaggio, con la loro produzione artistica, con la maschera che si erano costruiti addosso. Non esite un Totò diverso dal ruolo che impersona, nel cinema/vita di Pasolini. Con lo stesso principio Pasolini faceva recitare nei suoi film attori comuni – presi dalla strada – come Ninetto Davoli (il tenero Otello del film) con attori professionisti.

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L’uomo e il sacro, una immagine – recensione

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Nella foto di Alessandro Digaetano, distribuzione sociale del puro e dell’impuro nella Cina postmoderna.

Entrambi gli opposti princìpi sembrano in effetti godere di una dimora fissa. Da un lato il mondo maestoso e ordinato del re, del sacerdote e della legge, dal quale ci si tiene a distanza di rispetto; dall’altro l’ambito losco e infamante del paria, dello stregone e del colpevole, dal quale ci si allontana con orrore. A coloro che, per natura, purificano, guariscono e perdonano, ai mediatori di santità, si oppongono coloro che, per essenza, insozzano, avviliscono e sconvolgono, gi agenti del peccato e della morte. Le vesti del principe, splendide, rutilanti d’oro e di pietre incorruttibili, non sono che la luminosa contropartita dell’abietto putridume e delle carni ridotte a liquame della decomposizione. Il sovrano e il cadavere, così come il guerriero e la donna insanguinata a causa delle mestruazioni, incarnano infatti al massimo grado le forze ostili del puro e dell’impuro. E’ la morte a dare lordura, è il principe a liberare da essa. Nessun contatto tra l’uno e l’altra è lecito. Gli esseri investiti di santità, come il cane polinesiano, le cose che ne appaiono fecondi ricettacoli, come i churinga australiani, vengono allontanati, mediante gli interdetti più severi, da tutto ciò che passa per focolaio d’infezione: spoglie o sangue mestruale. […] Similmente, il gran sacerdote dei Cafri non deve né visitare i cimiteri, né percorrere i sentieri che portano ai campi dove imputridiscono i cadaveri; l’ingresso nell’abitazione in cui è avvenuto un decesso gli è proibito fin quando non vi sia stata eretta l’immagine del defunto, che dimostri così che egli è diventato una forza benigna e venerabile. Nella tragedia di Euripide, Artemide abbandona Ippolito moribondo: ad una dea non è permesso vedere un cadavere; l’ultimo respiro dei moribondi non deve insozzare uno sguardo puro. Ad Atene, durante la festa delle Anteserie, quando le anime dei morti salgono dal mondo infero e percorrono le strade della città, i templi vengono cinti da corde affinchè esse non possano avvicinarvisi.

Roger Caillois, l’Homme et le sacré, traduzione di Ruggero Guarino