Antropologie negative, modernismo e antimodernismo. La filosofia di Giovanni Paolo II

(Nell’immagine al lato, un quadro di William Blake)

Sul tema della filosofia di Giovanni Paolo II abbiamo già pubblicato recentemente un intervento (link). Aggiungo sull’argomento una interessante pubblicazione di Micromega, intitolata Karol Wojtila. Il grande Oscurantista, con interventi di Kung, Franzoni, Gigante, Flores d’Arcais, Coda, Severino, Bianchi, Vattimo, Riccardi, Cacciari, Galimberti, Savater, Kolakowski, Marchesi, Viano, Paglia, Pavanelli. A parte il titolo un po’ sensazionalista, ed il taglio di Flores d’Arcais secondo me un po’ troppo impegnato a mostrare un Giovanni Paolo II scagliato contro l’illuminismo, il libro offre un’ottima panoramica filosofica/teologica sul pontefice. Riguardo il suo anti illuminismo, affrontato più volte da Flores d’Arcais, vanno aggiunte delle precisazioni: non è certo Giovanni Paolo II più di altri pontefici contro l’illuminismo. Tesi forte del mio intervento, di cui verrà data spiegazione, è che la Chiesa è per sua essenza, ideologia e struttura, anti illuminista e antimodernista, per le tre ragioni che vedremo in seguito.

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Il Manzoni eretico. La sua filosofia e la sua teologia

“Ogni tanto tra mezzo al ronzio continuo di quella confusa moltitudine, si sentiva un borbottar di tuoni, profondo, come tronco, irresoluto; [..] que’ tempi, forieri della burrasca, in cui la natura, come immota al di fuori, e agitata da un travaglio interno, par che opprima ogni vivente, e aggiunga non so quale gravezza ad ogni operazione, all’ozio, all’esistenza stessa. Ma in quel luogo destinato per sé al patire ed al morire, si vedeva l’uomo già alle prese col male soccombere alla nuova oppressione; si vedevan centinaia e centinaia peggiorar precipitosamente; e insieme, l’ultima lotta era più affannosa, e nell’aumento de’ dolori, i gemiti più soffocati: né forse su quel luogo di miserie era ancora passata un’ora crudele al par di questa”. (I promessi sposi – 1840, cap XXXV, descrizione del lazzaretto)

Alessandro Manzoni è il letterato romantico italiano che più di tutti avverte la tremenda dicotomia tra fede cristiana e ragione, ma non solo; lo studio attento delle sue opere tradisce più volte la rassicurante lettura cattolica che per molto tempo ha dominato la sua interpretazione critica. Il messaggio più nuovo e moderno di Manzoni, il suo insegnamento problematico, angosciante e tutt’altro che autoritario e dogmatico, sta nel porre il lettore di fronte all’ignoto ed al segreto della vita senza rinunciare alle armi della ragionevolezza, della filosofia, del pensiero e del buon senso, ma tuttavia indicandone la debolezza, la fallacia. La fallacia di ogni tentativo di indicare un senso precostituito della vita, un “sugo della storia”, e soprattutto, un senso razionale al male. Sotto i colpi del Manzoni maturo, non cade solo la rassicurante ragione illuminista delle sue prime opere, o il teleologico idealismo hegeliano, ma anche la rassicurante fede cattolica e la sua teodicea: crolla cioè ogni legittimità di interpretare i legami tra mondo divino e storia umana. Manzoni cioè opera una vera e propria decostruzione, anche ironica, dell’idea cattolica di provvidenza.

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La filosofia di Giovanni Paolo II: un bilancio nel giorno della sua beatificazione

La fede e la ragione sono come due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità. E’ Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo ed amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stessoGiovanni Paolo II nell’enciclica “Fides et Ratio” (1998). Questa citazione, riportata un po’ ovunque, sembrerebbe esemplificare il nodo centrale della teologia e della filosofia di Giovanni Paolo II, di chiara ispirazione tomista. Leggendo però meglio la Fides et Ratio, ci si accorge del primato della rivelazione sulla filosofia. Oggi, primo maggio 2011, nel giorno della sua beatificazione, un bilancio della suo pensiero è quasi obbligato.

Sempre nella Fides et Ratio, il papa polacco, dopo aver elogiato e ringraziato la filosofia per aver guidato nel corso dei secoli il pensiero umano verso la verità, commenta:

La filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua indagine sull’essere, ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità che l’uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti. Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. Di recente, poi, hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare perfino quelle verità che l’uomo era certo di aver raggiunte. La legittima pluralità di posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull’assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto contemporaneo. A questa riserva non sfuggono neppure alcune concezioni di vita che provengono dall’Oriente; in esse, infatti, si nega alla verità il suo carattere esclusivo, partendo dal presupposto che essa si manifesta in modo uguale in dottrine diverse, persino contraddittorie tra di loro. In questo orizzonte, tutto è ridotto a opinione. Si ha l’impressione di un movimento ondivago: la riflessione filosofica mentre, da una parte, è riuscita a immettersi sulla strada che la rende sempre più vicina all’esistenza umana e alle sue forme espressive, dall’altra, tende a sviluppare considerazioni esistenziali, ermeneutiche o linguistiche che prescindono dalla questione radicale circa la verità della vita personale, dell’essere e di Dio. Di conseguenza, sono emersi nell’uomo contemporaneo, e non soltanto presso alcuni filosofi, atteggiamenti di diffusa sfiducia nei confronti delle grandi risorse conoscitive dell’essere umano. Con falsa modestia ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza più tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale. E’ venuta meno, insomma, la speranza di poter ricevere dalla filosofia risposte definitive a tali domande.

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Filosofia del rischio, società del rischio, filosofia del disastro (di ULRICH BECK)

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La faccia oscura del progresso, (da La Repubblica online)

Società mondiale del rischio significa un’epoca nella quale i lati oscuri del progresso determinano sempre più i contrasti sociali. Mentre prima ciò che non stava sotto gli occhi di tutti veniva negato, ora l’autominaccia diventa il movente della politica. I pericoli nucleari, il mutamento climatico, la crisi finanziaria, l’11 settembre, seguono in pieno il copione della Società del rischio, che ho scritto 25 anni fa, prima della catastrofe di Chernobyl. A differenza dai precedenti rischi industriali, essi (1) non sono socialmente delimitabili né nello spazio né nel tempo, (2) non sono imputabili in base alle vigenti regole della causalità, della colpa, della responsabilità e (3) non possono essere compensati, né coperti da assicurazione. Dove le assicurazioni private negano la loro protezione — come nel caso dell’energia nucleare e della tecnologia genetica — viene sempre superato il confine tra i rischi calcolabili e i pericoli incalcolabili. Questi potenziali di pericolo vengono prodotti industrialmente, esternalizzati economicamente, individualizzati giuridicamente, legittimati tecnicamente e minimizzati politicamente. In altri termini, il sistema di regole del controllo “razionale” si rapporta ai potenziali di autodistruzione incombenti come un freno da bicicletta applicato a un aereo intercontinentale. Ma Fukushima non si distingue forse da Chernobyl per il fatto che i terribili eventi giapponesi partono da una catastrofe naturale? La distruzione non è stata provocata da una decisione umana, ma dal terremoto e dallo tsunami.

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La filosofia è morta? Recensione di Eco all’ultimo libro di Stephen Hawking

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La filosofia non è Star Trek (da L’Espresso online)

Sulla “Repubblica” del 6 aprile scorso era apparsa un’anticipazione del libro di Stephen Hawking e Leonard Mlodinow, “il grande disegno” (Mondadori, euro 20) introdotto da un sottotitolo che peraltro riprendeva un passaggio del testo, “la filosofia è morta, solo i fisici spiegano il cosmo”. La morte della filosofia è stata annunciata varie volte, e quindi non c’era da impressionarsi, ma mi pareva che un genio come Hawking avesse detto una sciocchezza. Per essere sicuro che “Repubblica” non aveva riassunto male sono andato a comprare il libro, e la sua lettura mi ha confermato nei miei sospetti.

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La conoscenza in una Società libera, riflessione di Gianni Vattimo

Una riflessione di Gianni Vattimo sul libro “La Conoscenza in una Società libera“, un lavoro collettivo di Marino Centrone, Vito Copertino, Rossana de Gennaro, Massimiliano Di Modugno e Giacomo Pisani.

La conoscenza in una società libera è stato il tema di un seminario che un gruppo di ricercatori ha svolto nel corso del 2009-2010 nei Giardini di Avalon a Molfetta. Nel volumo Marino Centrone analizza la natura dispotica del sapere nella società contemporanea, il sapere come potere; Vito Copertino individua nel paradigma della complessità il carattere della nuova narrazione, della nuova scienza; Rossana de Gennaro affida al pensiero utopico il superamento della miseria del presente; Massimiliano Di Modugno presenta il rapporto fra anarchismo e post-strutturalismo come una nuova filosofia al lavoro; Giacomo Pisani analizza il concetto di alienazione.

Altre recensioni: Zona Franca; Il Fatto (rivista di Molfetta); Quindici.

Filone di Alessandria, il primo ponte fra ebraismo ed occidente. La filosofia e Vittorio Arrigoni

L’immagine di un ellenismo omogeneo fornita da Droysen (il creatore del termine “ellenismo”), come insegna bene la recente storiografia, è tutta da smitizzare. Già Hans Jonas faceva notare, nel suo famoso studio sullo gnosticismo, quanto questa antica “globalizzazione” provocata dalle conquiste di Alessandro il Grande fosse ostacolata dai particolarismi locali, e al suo interno generasse la così detta “reazione orientale”, che si opponeva alla diffusione della filosofia, dello stile di vita, della lingua greca, di quel modello che in oriente si percepiva come “occidentale”. Fondamentale in questa linea di approfondimento delle reali dinamiche del periodo ellenistico è il testo di Arnaldo Momigliano (Alien Wisdom. The limits of Hellenization) che esemplifica in maniera compiuta l’incontro fra ellenismo e culture che orbitavano intorno il mediterraneo: rispettivamente Celti, Giudei, Romani, Iranici. All’interno di questa analisi è importante sottolineare, alla luce del mio discorso, la particolarissima ed unica, per certi versi, “reazione” ebraica all’incontro con l’ellenismo, con questa “perturbazione” filosofica-culturale (e non scordiamoci, militare) proveniente dal semisconosciuto occidente.

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Per una genealogia dell’Eroe!

“Fino a che punto siete pronti ad aiutare il vostro prossimo?”

Sulla genealogia dell’Eroe è stato scritto molto. Un contributo importante, se non fondamentale, a questo argomento viene dal Collettivo Action30, ma si potrebbe citare anche (ancora) L’Eroe imperfetto di Wu Ming 4. Dal modello del Supereroe “classico”, tutto muscoli e superiorità “biologica”, si è passati decisamente ad altro. La mitologia è in continuo divenire. Non sono più necessari superpoteri particolari, esposizioni a qualche sostanza oltre la Natura terrestre oppure essere nati in una diversa dimensione dello Spazio. La “normalità” degli Esseri umani sembra essere diventata la caratteristica distintiva del nuovo modello di Eroe, propagandato in pompa magna tanto dalla fumettistica quanto dalla cinematografia. E’ sempre una normalità che riesce ad andare molto “oltre” la normalità, ma le capacità sono “umane, troppo umane“. Fin troppo umane, perchè spesso sembra bastare la volontà ed una buona dose di inconsapevolezza del pericolo. Ironico come, da Friedrich Nietzsche, in questo caso, si possano prendere alcuni elementi “cardine” della Filosofia: la Volontà di Potenza, l’Über-Mensch (l’oltreuomo) e, appunto, l’Umano troppo Umano. Un treno concettuale che dal passato ci riporta al presente. Il dubbio è che, in questa frantumazione-diffusione dell’eroismo, si vada verso una moltiplicazione, anche abbastanza fascistoide, di presunti “guardiani” dell’ordine e della disciplina, perchè la violenza diventa parte integrante di questa rappresentazione. Facile pensare alle “Ronde” metropolitane che spesso si producono per reazione a qualche “bassa” ingiustizia.

L’ultimo film che segna questa evoluzione della figura dell’Eroe (ed anche del modo in cui l’Eroe viene percepito dalla sua Comunità) è Kick-Ass. Una divertente parodia del processo di “eroificazione” che mostra come, nei fatti, sia stata ormai abbandonata la pomposa retorica del Superuomo, capace di cambiare i destini del Mondo, costruita ad hoc negli anni Cinquanta-Sessanta-Settanta (insomma, in piena Guerra Fredda).

Reality show e filosofia

L’esperimento di Stanley Milgram : condotto nel 1961, aveva l’obiettivo di studiare il comportamento di soggetti a cui un’autorità (nel caso specifico uno scienziato) ordina di eseguire delle azioni che confliggono con i valori etici e morali dei soggetti stessi. L’esperimento cominciò tre mesi dopo l’inizio del processo a Gerusalemme contro il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann. Più di quaranta anni dopo, le cose cambiano. A svolgere il ruolo dell’autorità è il reality show, una conduttrice, le telecamere, il pubblico. Ad infliggere le scosse elettriche sulla vittima sono i partecipanti del reality. Sto parlando dell’esperimento sociologico condotto in Francia e spacciato per reality show, chiamato “La zona estrema”. In sintesi: 80 persone sono state selezionate per partecipare al nuovo reality. Ogni concorrente in studio e’ in squadra con un altro giocatore, che si trova invece isolato in una sala. A quest’ultimo viene chiesto di memorizzare alcune associazioni di parole, sulle quali gli vengono poi poste delle domande. Se sbaglia, il concorrente in studio lo deve punire, procurandogli scariche elettriche fino ad oltre 400 volt. In realta’ e’ tutta una messa in scena. Le scariche elettriche sono finte. Il giocatore che strilla dal dolore e’ un attore e cosi’ anche il pubblico e la presentatrice (Tania Young), che per tutto il tempo incitano i concorrenti alla tortura. Gli 80 partecipanti ignari si ritrovano cosi’ protagonisti involontari di un esperimento shock: solo pochissimi loro rifiutano di infliggere la pena, gli altri obbediscono senza ribellarsi.

Piccole considereazioni: nel reality, praticamente vi erano 80 conconcorrenti chiamati a torturare ripetutamente un concorrente, e che rinunciavano (o mettevano in sordina) il loro apparato decisionale per delegarlo all’autorità, i media. Rispetto all’esperimento di Millgram, l’autorità che impartiva “ordini” non era un medico con il camice bianco, ma il pubblico, la presentatrice, le telecamere, il “copione televisivo”. Considerando che si passa mediamente davanti alla TV il 50 % della vita, mi chiedo quanto i valori e le decisioni dei “sudditi” dei media siano autonomi. Dice il filosofo: nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo.

Attualità e composizione del Comune, considerazioni sparse sul Lumpen

da Action30 (del 3 Febbraio 2009, una Vita fa… per stimolare oggi un dibattito)

Si potrebbe dire che quasi tutte le rivoluzioni, tutte le trasformazioni sociali culturali e politiche, siano state condotte “materialmente” dal LUMPEN (la violenza è affare di pochi). Permettetemi un flash. Pensiamo alla rivoluzione luterana, ad esempio, che di fatto ha creato la Germania (nello specifico la Prussia) più_o_meno come noi la conosciamo (liberandola dall’oppressione della Chiesa “romana”). È stato il LUMPEN che, ad un certo punto della diatriba Lutero-papato, ha sviluppato tutta la violenza che poi è stata canalizzata ed utilizzata dai principi prussiani. Rimanendo al XIX secolo (solo per non ampliare eccessivamente il campo delle osservazioni), mi permetto di riprendere brevemente il 18° brumaio di Luigi Bonaparte, dove Marx affronta la questione del LUMPENPROLETARIAT (tradotto in italiano come sottoproletariato, probabilmente modificandone anche il senso).
Due cose, innanzitutto:
Uno; Marx individua un LUMPENPROLETARIAT “nobile” ed uno “plebeo”. Ovvero per Marx l’aristocrazia finanziaria, nelle sue forme di guadagno come nei suoi piaceri, non è altro che la riproduzione dei sottoproletariato alla sommità della società borghese (riferimento da Lotte di Classe in Francia). Quindi partiamo dal presupposto che il LUMPENPROLETARIAT non è definito semplicemente dalla qualità o dalla quantità del reddito. E, chiaramente, non si vuole confondere neanche con la LUMPENBOURGEOISIE (come l’ha definita qualcuno in relazione all’America latina).
Due; (riporto dal 18° brumaio di Luigi Bonaparte) “[…] col pretesto di fondare un’associazione di beneficenza il sottoproletariato di Parigi era stato organizzato in sezioni segrete; ogni sezione era diretta da agenti bonapartisti; alla testa della Società vi era un generale bonapartista. Accanto a roués in dissento, dalle risorse e dalle origini equivoche; accanto ad avventurieri corrotti, feccia della borghesia, vi si trovavano vagabondi, soldati in congedo, forzati usciti dal bagno, galeotti evasi, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse, ciurmatori, bari, ruffiani tenitori di postriboli, facchini, letterati, sonatori ambulanti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una parola, tutta la massa confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano la bohème. Con questi elementi a lui affini, Bonaparte aveva costituito il nucleo della Società del 10 dicembre. “Società di beneficenza”, in quanto i suoi membri, al pari di Bonaparte, sentivano il bisogno di farsi della beneficenza alle spalle della nazione lavoratrice. Questo Bonaparte, che si erige a capo del sottoproletariato; che soltanto in questo ambiente ritrova in forma di massa gli interessi da lui personalmente perseguiti, che in questo rifiuto, in questa feccia, in questa schiuma di tutte le classi riconosce la sola classe su cui egli può appoggiare senza riserve, è il vero Bonaparte, il Bonaparte sans phrase“.

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Dai commons al comunismo, dal comunismo ai commons

Riportiamo di seguito la traduzione italiana (a cura della Rivista mensile SU LA TESTA) e, successivamente, il testo originale del contributo redatto per il Web Journal THE COMMONER da Peter Linebaugh (autore, con Marcus Rediker, del libro I RIBELLI DELL’ATLANTICO).

Possiamo definire sinteticamente qualche differenza tra commons e comunismo. Le pratiche di commoning persistono tra lavoratori e contadini, e il comunismo è la generalizzazione di queste pratiche. Uno dei ruoli storici dello stato borghese fu quello di criminalizzare i commons; un’aspirazione dei comunisti era quella di rovesciare lo stato borghese. La testimonianza dei commons spesso appare come aneddotica o come folkloristica o come “crimine”, una storia minore, una piccola trasgressione; qualche episodio di comune può comparire per sbaglio in un altro argomento più importante; prove di beni comuni consuetudinari possono apparire peculiari a località o mestieri, e comunque appartenenti a storie locali o di settore, non alle “grandi narrazioni”. La testimonianza del comunismo, dall’altro lato è data da giornalisti, filosofi, economisti e polemisti, e aspira grandiosamente a divenire la narrazione che pone fine alle narrazioni!

DAI COMMONS AL COMUNISMO
Peter Linebaugh, traduzione a cura di Su la Testa (Marzo 2011)

We can propose some short ated contrasting commons and communism. Commoning practices persist among workers and peasants, communism consists of the generalization of such practices. An historic role of the bourgeois state was to criminalize the commons; an aspiration of the communists was to overthrow the bourgeois state. Evidence of the commons will often appear anecdotal or as folklore or as ‘crime’, just a small story, a minor transgression; evidence of commons may appear incidentally to some other, major theme; evidence of customary commons may appear particular to locale or craft, and belonging thus to trade or local histories, not ‘grand narratives’. Evidence of communism, on the other hand, is provided by journalists, philosophers, economists, and controversialists, and grandiosely aspires to become the narrative to end narratives!

MEANDERING ON THE SEMANTICAL-HISTORICAL PATHS OF COMMUNISM AND COMMONS
Peter Linebaugh, December 2010 su The Commoner

In questo interessante contributo, Peter Linebaugh si interroga principalmente sulla traiettoria concettuale, ma anche pienamente pratico-politica, che dai commons porterebbe al comunismo. Non uno sforzo di poco conto, quindi. Certamente un appunto di questo genere sembra essere quasi indispensabile al dibattito odierno che ruota soprattutto intorno alla questione dei “Beni Comuni“. In Italia capita spesso di usare il rasoio con suggestioni che pure meriterebbero maggiore approfondimento ed attenzione. Linebaugh si approccia all’argomento utilizzando lo stesso modus attraverso cui, con Marcus Rediker, ha scritto I RIBELLI DELL’ATLANTICO. Al centro della trattazione, infatti, ci sono Eventi concreti, momenti di Vita realmente vissuta, porzioni di storia trovati in un calderone di vecchi accadimenti dell’antagonismo (presto dimenticati) e riproposti in una veste differente. Uomini e donne, personaggi e parole, molto spesso si uniscono nell’Emancipazione del corpo e per la Liberazione dello spirito. In questa dimensione del conflitto l’elemento mistico-religioso non può essere epurato da ogni considerazione politica (a tal proposito rimandiamo al nostro Bloch racconta Munzer), anzi diventa quasi determinante. Perchè sempre di Emancipazione si parla. Da queste attualità diffuse sarebbe possibile ricostruire una traccia: la traccia dei commons che diventano altro, si trasformano. Omnia sunt communia, urlava il predicatore Muntzer guidando i contadini tedeschi all’assalto della città di Munster nel XVI secolo, reclamando pane, lavoro e “Beni Comuni”.

L’ipotesi da cui parte Linebaugh si presenta come una provocazione: se il comunismo, almeno così come lo conosciamo oggi, in realtà sia nato (e cresciuto) in ambienti differenti da quelli del socialismo “scientifico” e, successivamente, della pianificazione sovietica? Già si odono in lontananza alcuni strali, non proprio eleganti, degli “scienziati” contro gli “utopisti” durante le prime Assemblee della Prima Internazionale (e della Seconda). Ci sarebbe molto materiale, storico e politico, su questo argomento, eppure non è al centro del contributo che stiamo prendendo in considerazione. Nel suo articolo, Linebaugh, marca un punto di vista a nostro avviso molto importante: “Il pensiero parigino (dove ‘nacque’ il comunismo scientifico, nella seconda metà dell’Ottocento, ndR) era avanzato soltanto nel contesto di una teoria del progresso della storia”. Quindi il valore aggiunto che i moti parigini (e, soprattutto, la Comune del 1871 su cui sia Marx che Lenin hanno scritto molte pagine importanti) hanno dato al Comunismo è stata la Filosofia della Storia, la concezione del progresso e dell’inevitabilità evoluzionistica della palingenesi comunista. In Francia è avvenuto il “primo” passaggio dalla tradizione dei commons, quindi delle lotte contingenti e locali per i “beni comuni” (per la sopravvivenza e l’autonomia di una comunità di Esseri viventi) a quella del comunismo storico: “Possiamo definire sinteticamente qualche differenza tra commons e comunismo. Le pratiche di commoning persistono tra lavoratori e contadini, e il comunismo è la generalizzazione di queste pratiche”. Ed infatti, a ben vedere, già con la “gloriosaRivoluzione inglese e con la successiva conquista dell’Atlantico, interesse degli Stati divenne criminalizzare i commons, privatizzarli e fornire una grande base di manodopera a basso costo da impiegare nelle nuove terre da colonizzare oppure nelle fabbriche in espansione nelle Città.

Concludendo si potrebbe dire che, per Peter Linebaugh, esista una relazione dinamica e quasi gerarchica tra commons e comunismo. Inizialmente i commons erano spazi politici riferibili alle lotte ed alla resistenza contro la pervasività delle logiche economiche di Mercato nella Vita “comune” degli Esseri umani; successivamente il comunismo ha raccolto tutti questi conflitti, unendoli e costruendo una piattaforma politica immaginando un “soggetto” che la caratterizzasse (il “proletario”) ed a cui affidare il compito storico dell’Emancipazione e della Liberazione: “Ora nel XXI secolo la semantica dei due termini sembra essersi rovesciata, con il termine comunismo che appartiene al passato dello Stalinismo, all’industrializzazione dell’agricoltura, e al militarismo, laddove i commons appartengono ad un dibattito internazionale sul futuro planetario di terra, acqua e mezzi di sussistenza per tutti.

Aggiornamenti:
Sull’argomento sarebbe da leggere anche l’articolo di Paolo Cacciari su Carta.

Filosofia nei manga. Una recensione

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Nell’immaginario comune, il mondo dei manga e degli anime è generalmente ritenuto soltanto uno svago per bambini e adolescenti, privo di contenuti con spessore.

La realtà è però ben diversa, come dimostra efficacemente Marcello Ghilardi, ricercatore e autore di Filosofia nei manga. Estetica e immaginario nel Giappone contemporaneo (Mimesis, pp. 162, € 14).

Dopo aver tracciato un profilo storico-culturale dei manga, comprendente le tappe più importanti (dagli schizzi di Hokusai alle influenze sull’arte di Van Gogh) con riferimenti alla tradizione artistica ed estetica della Cina e del Sol Levante, lo studioso si sofferma su alcuni aspetti significativi dei fumetti del Sol Levante, spesso sfuggenti a un lettore digiuno di rudimenti filosofici e di un’approfondita conoscenza del contesto nipponico. Si pensi, per esempio, ai numerosi accenni  all’etica e alle vicende dei samurai, o ai valori del buddhismo e dello shintoismo, trasparenti solo a una minoranza di occidentali.

Uno dei temi portanti dell’opera è rappresentato da un’approfondita e documentata riflessione sul complesso rapporto intercorrente tra uomini, robot e cyborg, e ai legami intercorrenti fra le tre categorie; da essi Ghilardi tenta di estrinsecare una sorta di ontologia dell’automazione, riflettendo sulle cause che l’hanno generata e sulle ragioni che hanno decretato il suo successo. Nel fare ciò, illustra le teorie di Gomarasca in merito (le storie di robot racchiudono una metafora sociologica, una psicologica e una storica); in parallelo alla trattazione teorica, l’autore presenta  testimonianze concrete, sviscerando alcuni aspetti tanto interessanti quanto poco noti di manga e anime più o celebri (Neon Genesis Evangelion, Gunslinger girl, Ghost in the shell, etc.).Nel denso contributo di Marco Pellitteri, Giappornologie, vengono evidenziati altri elementi caratterizzanti la produzione nipponica contemporanea, vale a dire quelli legati al mondo del sesso e del porno, con un’attenzione particolare verso le loro radici socio-antropologiche e le dinamiche sottese; anche in questo caso, la figura dell’automa (in particolare della donna cyborg) e quella della bambola gonfiabile assumono un significato ben preciso, in quanto esseri passivi, non minacciosi e facilmente controllabili.

Conclude il volume La verità dell’illusione, dedicato al regista Satoshi Kon che, con le sue commistioni di onirico e reale, umano e cibernetico, ha dato vita a nuovi orizzonti cinematografici e semantici, in cui l’apparenza – non di rado dall’impronta postmoderna – si confonde e si sposa con ciò che siamo abituati a chiamare  (riduttivamente?) realtà.

(dal blog www.bibliotecagiapponese.it)