Filosofia del fanatismo #2

Quello che c’è di interessante negli Eventi sono le conseguenze. In Norvegia qualcosa è accaduto e noi, come spesso accade, l’abbiamo registrato. Tra i frequentatori di questo spazio (in modo particolare su facebook) si è aperto un bel dibattito, anche con elementi di elaborazione molto interessanti. Ognuno ha avuto modo di esprimere le proprie opinioni. Abbiamo anche riportato degli aggiornamenti, con gli articoli di Magdi “Cristiano” Allam, Belpietro (Libero) e Feltri (Il Giornale).
Oggi, cercando altre notizie su quanto è accaduto, mi sono interessato a due interventi in modo particolare: quello di Fiamma Nirenstein (sempre su Il Giornale) e l’intervista al leghista Borghezio raccolta da Radio24 (inserita su RepubblicaTV). Quello che c’è di interessante in questa “reazione” (non intesa in senso politico, naturalmente) sta nell’affermazione delle proprie certezze e nella costruzione di un fattore ulteriore di politica. Per questo credo che si debbano distinguere nettamente i “fanatici” (come il fanatico di Oslo) da chi cerca di creare forme di Governo delle cose e degli Esseri umani ad uso e consumo di un certo modello ideologico. Perchè il fanatismo è l’Evento ma il Governo si presenta come quotidianità e ci organizza in maniera molto più silenzione e subdola.

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Filosofia del fanatismo. Amos Oz, la coerenza, la follia, la strage di Utoya

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Si chiama Anders Behring Breivik, ha 32 anni, ed è l’autore del massacro della Norvegia. Non è un ceceno, un palestinese, un kamikaze, un seguace di Maometto. E’ alto e biondo, si professa conservatore e cristiano. Soprattutto: non è un pazzo. E’ certo ossessionato dall’idea che l’Islam conquisti la debole e inetta vecchia Europa con le sue patetiche e arrendevoli forme di multiculturalismo e di “politicamente-corretto”. Ma non è un pazzo. Ho anche visionato il suo video-manifesto su youtube. Niente di diverso da altri manifesti al confine fra la sindrome di accerchiamento e di complotto, l’antimarxismo e l’antislamismo di estrema destra (antislamismo che tende spesso a diventare antisemitismo). Ma Andres ha fatto un evidente salto di qualità nel superamento dell’idea nella realtà. Da un punto di vista formale, è un Magdi Allam “estremista”, che ha perso il contatto con la realtà ma che è diventato estremamente coerente con il “principio”: il principio primo è che i laburisti norvegesi, la sinistra o che altro stanno rendendo la Norvegia e l’Europa un territorio di conquista delle orde islamiche. Il secondo, è che la politica partica è un mezzo vecchio e inutile: per svegliare le masse norvegesi dai loro buonismi occorre il terrore. Per qualcuno, per qualche gruppo fanatico dell’estrema destra nordica (e non solo), Anders potrebbe presto diventare un eroe. Nel suo diario, all’idea del massacro, programmato in due interi anni, scrive: “Fallimenti logistici: devo ripensare la questione del silenziatore, l’importatore che avevo contattato ha cancellato tutti gli ordini privati. Non vorrei surriscaldare l’arma, forse devo pensare ad una baionetta. ‘Marxisti infilzati’ diventerebbe un marchio”.

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La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz. Una recensione

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La ormai classica novità di La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz (BUR 2009²), pubblicato la prima volta nel 1930, consiste innanzi tutto nel fatto che il libro ripercorre tre letterature, inglese francese e italiana, isolando la sensibilità erotica degli autori romantici, in aperta sfida alla critica idealistica del tempo, e provocando la moralistica stroncatura di Benedetto Croce, che pretendeva una maggiore complessità per il romanticismo e per la vita stessa in cui non doveva prevalere «la patologia sessuale» e che «vuole la distinzione e con ciò l’armonia di tutte le sue parti». Tant’è vero che viene a un certo punto fatto di domandarsi, rileggendo Praz (e questa non è che una delle tante fascinazioni di questo testo, di segno spesso esoterico), quando, e addirittura se, sia davvero finito il Novecento (romantico), dal momento che, in secondo luogo, la più grande e seducente intuizione critica di Praz è stata quella di rimettere radicalmente in discussione le formule storiografiche ricorrenti, dandoci come un unicum indivisibile sia il romanticismo (e non solo le sue propagginazioni più abitualmente riconosciute come tali) sia la scapigliatura sia il verismo sia lo stesso decadentismo, prolungando il periodo romantico come un tutt’uno fino a gran parte della letteratura dello stesso Novecento, o almeno di quello a lui contemporaneo (Praz è morto nel 1982). Secondo Croce, era illegittimo da parte di Praz segnare in modo tanto debole la differenza tra romanticismo e decadentismo, e spingersi a «far consistere il cosiddetto romanticismo nella formazione di una sensibilità nuova, quella appunto che si manifesta nelle tendenze e figurazioni che egli così largamente espone». Nell’Avvertenza alla seconda edizione del 1942 Praz gli risponderà in modo articolato, peraltro basandosi proprio sulla crociana Storia d’Europa nel secolo decimonono, che la sua non è una sintesi del romanticismo tout courtbensì una monografia su particolarità tematiche della sensibilità romantica.

«L’epiteto romantico e l’antitesi classico-romantico sono approssimazioni da lungo tempo entrate nell’uso. Il filosofo le mette solennemente alla porta esorcizzandole con logica che non erra, ed esse rientrano chete chete per la finestra, e son sempre lì tra i piedi, elusive, assillanti, indispensabili.» Comincia così la monografia comparatistica di Praz, e subito segue l’osservazione che critica letteraria presuppone storia della cultura: «storia della cultura d’un ambiente e storia della cultura d’un individuo». Si continua per più di quattrocento pagine fittissime, infarcite di autori, personaggi, citazioni in francese, generi letterari, epoche, ambienti, miti, passioni, ripercorrendo le costanti tematiche della bellezza medusea cantata da Shelley, della metamorfosi diabolica in Byron, di Sade antecedente diretto dei romanzi di Flaubert, della bellezza diabolica celebrata da Keats, della Salomè di Wilde, dell’algolagnia sadomasochistica di Swinburne, dei plagi di D’Annunzio, messe in relazione con le innumerevoli varianti offerte dal contesto di volta in volta analizzato. Un gioco a incastri, aperture, intagli, passaggi sotterranei di cui è impossibile dare un resoconto esaustivo.

Di epicurei dall’immaginazione cattolica risulta piena la grande letteratura decadente a partire da Chateaubriand. Huysmans va d’accordo col marchese de Sade cogliendo una verità da trasgredire proprio in quanto creduta (diversamente non ci sarebbe nulla da violare). C’è il sospetto che Praz tratti la nevrosi di questi autori come un appianamento (o un sollievo) nella delectatio morosa, con un inevitabile residuo di irrisolto nella vita. A questo irrisolto lui sembra aderire perfettamente, perché è anche il suo, e resta il suo quando lo contesta o contestualizza in un’infinità di rimandi, giustamente proiettivi o esclusivi, coinvolgendo i generi minori e le arti figurative, soprattutto la pittura preraffaellita. In altri termini un cristianesimo torbido era già presente in Dostoevskij, investendo l’irrealtà quale giustificazione e soddisfacimento della pulsione: il peccato in convento o rivolgersi alla messa dopo la compulsione sessuale equivale sul piano filosofico ad assumere il sacro come profondità del profano e non come sua necessaria contraddizione. Huysmans predilige il latino post-classico perché si ritrova nella mancanza di equilibrio senecana e nel compiacimento di Petronio, molto più che nel tentativo del periodo cristiano di costringere a una mediazione il paganesimo e la nuova religione. Gide riceve una sostanziale stroncatura, eternamente oscillante tra la paura di compromettersi – a differenza di Wilde, che sfidò quella paura ribaltandola nella provocazione, fino a uno stupido errore di calcolo masochista (l’algolagnia) – e il desiderio di compromettersi. Gide è visto da Praz come un «ermafrodito morale, sospeso tra diverse possibilità e, in conclusione, negativo, sterile.» Ciò che dispiace di questo libro è semmai la considerazione in cui l’autore mostra di tenere Sainte-Beuve (già nell’Avvertenza del ’42, o per i rapporti tra Byron e Chateaubriand, per es., e comunque non sempre portato a modello), che, come è risaputo, non comprese Stendhal.

Quando si parla di Praz non si può non pensare alla sua casa. L’abitazione privata di Praz, oggi museo, era l’oggettivazione dell’io di Mario Praz, come se fosse una casa della morte. Non l’io sperimentale, anagrafico o pratico, bensì un io profondo, che stava al di qua degli oggetti – la sua collezione di arti minori – e al di là anche del suo caro e semplice io. Quella mancanza di vita, in un rispecchiamento dell’io sublime che si riconosceva negli oggetti raccolti nella casa-museo di Praz, era una contemplazione della morte sottoforma di vita, restituita dalle conversation pieces. Era  inconfondibile il sentimento di claustrofobia che doveva venirgli dalle arti minori, dove si rispecchiava e ritrovava quel suo io: «Con i colori più caldi, con l’amorosa sensualità melodica che Tasso e Rubens avevano nutrito nella sua penna, – ha scritto Pietro Citati – provava a immaginare quella vita pura e senza oggetti che forse avrebbe potuto conoscere. Gli sembrava di aver fallito in tutto, riempiendo la casa di cose morte, uccidendo attimi incorporei di tempo possedendo un’esistenza che non gli apparteneva.» Tutto doveva restare immune dalla contaminazione del mondo, a prezzo dell’isolamento, perché tutto fosse perfetto e intangibile nella contemplazione della bellezza.

Ma la vita ha una forza incontrollabile e presenta svolte immoralistiche, completamente imprevedibili. Vicino a Mario Praz, esattamente al piano superiore della casa di via Zanardelli, dopo la lavorazione di Gruppo di famiglia in un interno (1974) di Visconti, per caso andò ad abitare Mario Schifano, che aveva dichiarato di voler abbandonare la pittura e dedicarsi al cinema, da lui giudicata arte viva. Detestava lo psicologismo di Bacon, non gli interessava Morandi, non lo riguardava Pollock, apprezzava Raushemberg come uomo e non come pittore. Amava de Chirico, Boccioni, Balla, Picabia, Picasso, Jasper Johns, Jim Dine. Come artista si dava alle più sperimentali incursioni maledettistiche fin nel mondo delle droghe pesanti e Praz era vistosamente imbarazzato di averlo come vicino. Schifano faceva un gran chiasso, era scomposto assordante ambiguo senza ritegno, inquinava il silenzio della sua solitudine, lo disturbava. Il professore era infastidito, aveva perso la pace, senza neppure ritrovare la vitalità smarrita nella perfetta collezione delle sue conversation pieces. Questa singolare situazione circolò nel mondo artistico-letterario romano dei primi anni Settanta, colpì Luchino Visconti, già malato, dopo la trilogia tedesca, per la portata profetica che il suo film veniva ad assumere in questa determinata circostanza. A Praz come alter-ego del regista e alle sue miniature, alla sua casa-museo, alla sua rinuncia al mondo esterno, alla defunzionalizzazione del suo sapere (e, d’altro canto, a Mario Schifano trasfigurato a posteriori nella volgare e attraente famiglia di inquilini, emblema dell’invivibilità del presente, che vengono a invadergli l’abitazione), si era infatti ispirato Enrico Medioli per il personaggio del professore. Visconti ne fece un Kammerspiel, un film-requiem tutto girato in interni, come a teatro, citando la Recherche, dove si parla di un inquilino immaginario al piano di sopra che si aggira, inquietante, misterioso, come una metafora della morte.

Les maitres fous (documentario). Le nuove religioni in contesto coloniale e neocoloniale

Come direbbe Michel Leiris: “Due culture sembrano fondersi in un affascinante, ambiguo abbraccio, soltanto perchè l’una possa infliggere all’altra una più evidente negazione” (Frele bruit). “I maestri folli” (Les maitres fous) è un documentario girato in Ghana nel 1955 dal regista francese Jean Rouch, qui sottotitolato dal nostro sito “filosofiprecari”. Mostra le pratiche rituali di una setta religiosa nata negli anni del dominio coloniale. Nell’appezzamento del loro gran sacerdote, dopo una confessione pubblica dei peccati, gli adepti iniziano il rito della possessione. Convulsioni, tremiti, respiro affannoso: comincia l’imitazione della struttura sociale dei bianchi. Stati di parossismo psicologico che ricordano rituali endorcistici ed esorcistici di molte religioni e culture del mondo… sono i segni dell’arrivo degli “spiriti della forza”, spiriti che hanno i nomi dei dominatori bianchi: il “caporale di guardia”, il “governatore”, il “dottore”, il “conducente di locomotiva”… Il culmine della cerimonia si ha con il sacrificio di un cane che sarà poi mangiato dai “posseduti”. Il giorno dopo, gli iniziati tornano alle loro occupazioni quotidiane.

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Cos’è un dogma? La riflessione di Hans Jonas (di Alessio Perigli)

Jonas cerca di comprendere se il concetto di dogma sia analizzabile da un punto di vista ermeneutico. Paolo Nepi nel suo saggio su Jonas “La responsabilità ontologica” riepiloga la visione del dogma di Hans Jonas: «Nel saggio su Sant’ Agostino, Jonas ricostruisce le tre fasi attraversate dalla speculazione agostiniana sulla libertà: la fase antimanichea, quella paolina e, da ultimo, la fase antipelagiana. La riflessione di Agostino sulla libertà si trova tuttavia a seguire un percorso segnato dai due dogmi del peccato originale e della predestinazione. Come si conciliano temi apparentemente contraddittori, come quello della libertà, da una parte, e del peccato originale e della predestinazione dall’altra? Jonas affronta tali questioni nell’appendice al suo studio su sant’Agostino, dal titolo significativo Sulla struttura ermeneutica del dogma. Cosa significa parlare di “struttura ermeneutica del Dogma”?. Significa riconoscere che la proposizione dogmatica ha almeno due livelli di comprensione.

Primo livello. Si tratta di quello immediato, legato al contenuto materiale delle affermazioni contenute nelle verità che i dogmi definiscono e propongono alla fede del credente. Nel linguaggio stesso in cui sono formulati, i dogmi rispecchiano la struttura razionale della comunicazione apofantica1, quella in cui un predicato attribuisce i contenuti ad un soggetto determinandone l’identità cognitiva. Per questo il linguaggio dei dogmi viene definito da Jonas “dialettico”, nel senso che non esiste nessun livello cognitivo che trascenda il piano dell’affermazione contenuta nella definizione dogmatica. Secondo livello. Se analizziamo tuttavia la struttura ermeneutica del dogma in tutta la sua estensione e profondità, ci dice Jonas, notiamo che la verità dogmatica non esaurisce tutta la complessità esistenziale che ha prodotto le affermazioni apofantiche contenute nelle proposizioni dogmatiche. I dogmi non sono altro che l’oggettivazione di qualcosa che ha a che fare con l’esperienza vissuta del Dasein, e che ad essa rimandano se vogliono essere compresi in tutta la ricchezza del loro significato.»2 Il dogma non può essere scorporato dal suo fondamento ontologico e metafisico. Jonas individua due caratteristiche fondamentali che identificano il dogma:

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Dal Ciclo al Kairos. La Storia si rinnova… Prolegomeni per una ricerca sui Commons

Osservazioni a margine della lettura di Toni Negri sull’autostrada, ovvero: tirannia del tempo e momento utopico, da Wu Ming.

Stiamo evidentemente attraversando una fase “mutante”, nel senso che il presente sta subendo delle mutazioni che lo renderanno sicuramente “altro”. Questa fase di trasformazione sembra non essere un banale momento di crisi, intesa come distruzione del presente per anticipare il futuro catastrofico. Sembra di essere immersi in un kairòs (καιρός) costituente. Un evento che si traduce sulla Terra innanzitutto tramite una nuova epoca di enclosures, di privatizzazioni dell’immaginario collettivo, dello spazio politico e dello spazio sociale.
Nella tradizione marxista , a cui qui possiamo solamente fare cenno, la crisi era comunemente intesa come un elemento proprio dello sviluppo del ciclo capitalistico, come il progetto politico che andava a riqualificare il rapporto tra Capitale e Lavoro aprendo nuove possibilità di profitto ed accumulazione. Provocava quasi una attualizzazione del futuro, una sua presentificazione, per evitare la catastrofe annunciata ed abbondantemente analizzata. La caratteristica peculiare della relazione tra Capitale e Lavoro, la sua metafora economica e politica, sarebbe proprio quella del ciclo, che andrebbe periodizzandosi per innovarsi nei momenti di crisi. La forma che assume lo sviluppo, il progresso tecnico-scientifico-economico, sarebbe, quindi, il conflitto tra l’esistenza del movimento operaio dentro il piano capitalistico e la contraddittoria necessità del Capitale di associarsi ed organizzarsi per reprimere o canalizzare questa presenza. La crisi, quindi, intesa come parte integrante del ciclo, è il momento dell’andare oltre, dell’etica del sacrificio. Ma il ciclo è sempre un ciclo storico, una successione ordinata di avvenimenti. È storia. Nella tradizione classica, scrive Antonio Negri, “il tempo è l’immagine mobile dell’immobilità dell’essere. In questa tradizione il tempo è dunque una modalità estrinseca: esso si presenta come illusione o come misura, mai come evento, mai come il questo qui”.

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Gli ultimi giorni di Giulio Cesare di Luca Canali. Una recensione

Giulio Cesare soffriva di vertigini, oltreché, come è noto, di epilessia, oggi parleremmo di attacchi di panico che gli davano frequentemente l’impressione di vacillare, come se fosse atterrito dall’altezza cui era arrivato non soltanto come dittatore ma soprattutto come uomo in lotta con la mancanza di equilibrio per la sovrabbondanza di vitalità interiore non a caso riversatasi nello stile dei suoi scritti, tra i più affascinanti dell’età della letteratura latina che porta il suo nome. Questo tratto umano è la spia del destino eccezionale raccontato nel diario che Luca Canali fa scrivere a Cesare stesso nell’ultimo mese di vita a partire dal 6 febbraio nel romanzo intitolato Gli ultimi giorni di Giulio Cesare (Newton Compton), soffermandosi con rigore scientifico e allo stesso tempo con tensione narrativa fino all’epilogo sanguinoso delle Idi di marzo del 44 a. C. (anno 710 ab Urbe condita). Emerge da questo gioiello dell’insigne latinista il carattere letterario, teatrale, di quella tragedia sia personale sia politica: «Non credo nel destino, e tantomeno nel cosiddetto Fato. E disprezzo i filosofi – eccettuato l’atomista e razionalista Epicuro – i quali, di fronte ai misteri ultimi dell’esistenza, dello spazio infinito e del tempo eterno, al pari dei comuni mortali di animo semplice placano la loro inquietudine e rendono più risibile la loro impotenza affidandone la soluzione, o comunque la decifrazione, ai più disparati demiurghi divini comunque denominati.»

Sono qui ripercorse le amicizie coi poeti frequentati e le sue tre mogli, Cornelia, Pompea e l’attuale Calpurnia, insieme ai fatti salienti della tarda repubblica. Cesare di fatto era diventato un re ellenistico senza diadema, pater patriae ma sempre con la corona d’alloro mentre il conio portava la sua immagine incoronata d’oro. Aveva trionfato in Gallia, in Egitto, nel Ponto, in Africa. Nel 46 un senato apparentemente docile, in realtà già ostile, gli ha conferito la dittatura per dieci anni, e solo un mese prima della morte lui rifiuta la corona regale mentre un senatoconsulto lo proclama dittatore a vita. «Sono sulla vetta del potere. Ora comincerà la discesa, che qualcuno cercherà di rendere più veloce. Non è ossessione pessimistica: ricevo continuamente informazioni sul moltiplicarsi di conciliaboli di persone sospette.»

È insomma al vertice della gloria, è ricoperto di onori e padrone del mondo e si sta preparando per una campagna militare contro i Parti. E tuttavia, ed ecco il tranello della storia, almeno da un anno, i segnali dell’ostilità che va crescendo intorno a lui si fanno sempre più inequivocabili e pressanti: «l’infittirsi di questi assalti anonimi comincia a impensierirmi, considerando che la loro frequenza e diffusione territoriale possono avere effetti negativi sull’opinione pubblica finora a me favorevole. È quindi necessario che metta sull’avviso i servizi di vigilanza, capeggiati da Volusio». Ma, pur cogliendo le avvisaglie del pericolo, o per la stanchezza di affrontare le insidie dei nemici o perché comprende a poco a poco di non poterli più sostenere o per semplice disgusto della vita e del potere o per avventato esibizionismo e capriccio, sta di fatto che Cesare, con l’incalzare degli avvenimenti, non si cura più di difendersi e anzi, come per una sfida suprema e ostentando onnipotenza monarchica, congeda la guardia del corpo.

Secondo l’ipotesi riferita da Svetonio, che giustamente lo considera il vero fondatore del principato augusteo e il primo effettivo imperatore romano anche se non lo era nominalmente, – e il suo successore farà di tutto per dare l’impressione di “non” governare che una repubblica apparente piuttosto che un impero che ricopriva gran parte della terra allora conosciuta, – un mese prima dell’attentato del quale non può non essere a conoscenza, Cesare licenzia la guardia del corpo spagnola (etiam custiodias Hispaniorum se removisse) che abitualmente lo proteggeva con tanto di spade sfoderate (cum gladiis adinspectantium). Non si dimentichi che era un letterato atticista, un purista della lingua latina (lo sappiamo anche autore di un piccolo poema, l’Ibris e di una tragedia, l’Oedipus, che non ci sono pervenuti), e non per caso Canali immagina che da ultimo si affidi alla scrittura di questo giornale privato. La sua mente era capace di organizzazione strategico-militare e di ideazione fantasiosa: la fantasia poetica atta a dettare i commentari, l’una e l’altra dimensione riunite come in un doppio cervello, disponendo della geniale facoltà di far sussistere in un’unica personalità entrambi gli estremi opposti della situazione. Del resto è lo stesso Svetonio ad aggiungere letteratura alla storia, insinuando un importante indizio per la risoluzione del mistero che diventa l’atteggiamento del condottiero quando  volle abbracciare la morte o, meglio, non si curò di evitarla: Cesare era malato (quoque valetudine minus prospera uteretur) e sapeva di dover morire presto, quindi tanto valeva accettare, con disprezzo per la vita, che la sorte decretata ormai seguisse il suo corso.

Qualunque sia il caso, non si lasciò sfuggire l’occasione per accelerare la fine e andarle stoicamente incontro. Una fine immediata e senza dolore (repentinum inopinatumque) era quella che preferiva, come aveva dichiarato cenando da Marco Lepido – l’8 marzo, secondo il diario di Canali, il giorno prima delle Idi, e cioè il 14, secondo Svetonio – agli amici che di nuovo lo stavano avvisando, con circospezione, della minaccia incombente. Probabile che fosse isolato al punto che non si sentisse più in grado di gestire politicamente la situazione. Per quanto si vogliano sottolineare i limiti del biografismo svetoniano che è di tipo peripatetico-alessandrino e mai opera storiografica in senso stretto, è dal riferimento del minuto dettaglio quotidiano che la testimonianza di Svetonio, priva di qualsiasi coinvolgimento personale e morale, diventa valida per la ricostruzione delle singole individualità tratteggiate in se stesse, avulse dalla vita dell’impero.

Il cesaricidio non risolveva affatto lo squilibrio causato dall’accentramento di un potere immenso nelle mani di uno solo, la guerra civile che ne deriva durerà ben tredici anni. La crisi della repubblica era ormai irreversibile. Ottaviano avrebbe trionfato facendo in modo che tutta la letteratura d’opposizione anticesariana non ci fosse tramandata.

Sandro De Fazi

Pierre Bourdieu: la distinzione. Per una decostruzione sociale e psicologica del gusto e degli intellettuali

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Ma soprattutto, sono sempre stato grato a Pascal, almeno come lo leggo io, della sua sollecitudine, lontana da ogni ingenuità populista, per “la gente comune” e le “sane opinioni del popolo”, come pure della volontà, da tale sollecitudine inseparabile, di cercare sempre la “ragione degli effetti”, la ragion d’essere delle condotte umane in apparenza più gratuite e ridicole – come “correr tutto il giorno dietro una lepre” – invece di indignarsi o di prendere gioco, a guisa dei “mezzo addottrinati”, sempre pronti a “fare i filosofi” e a tentare di stupire con i loro stupori fuori misura circa la vanità delle opinioni di senso comune. (Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane)

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Religione, male e sofferenza. Mircea Eliade e il mito dell’eterno ritorno. Una recensione critica.

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Tutta la giusta ambizione umana è riassunta nel verbo “comprendere”. Ciò che comunemente intendiamo per “comprendere” coincide con “semplificare”. Primo Levi, dopo aver studiato sociologia nel laboratorio “umano” di Auschwitz, direbbe che senza una profonda semplificazione della realtà, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema. Tendiamo a semplificare ogni cosa, a farcela amica.
Ogni riduzione è scienza, e ogni scienza è drasticamente semplice, quindi più o meno “irreale”. Questo vale anche per il fenomeno religioso. La maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o almeno, non sono semplici come piacerebbe a noi. Ogni chiave interpretativa sulla religione merita un determinato spazio nell’analisi. Ma bisogna affiancare l’una all’altra chiave interpretativa. Tutte insieme, non una sola. Dunque, il fenomeno religioso reggerà anche alla seguente semplificazione, anzi, ne varrà arricchito. Fenomeno religioso ridotto, da Eliade, a “Cercare un senso al caos della storia” = Richiesta di senso alla sofferenza. Il fenomeno religioso, nella sua interezza, nelle sue innumerevoli espressioni planetarie, può essere ridotto alla ricerca di senso, ad un semplice quanto angoscioso tentativo di “normalizzare la sofferenza“, “sopportare la storia” (cfr. anche le conclusioni, simili a quelle di Eliade, di De Martino ne “La fine del mondo”).

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Per una questione territoriale, il buco e la Discarica!

Tutto ebbe inizio con un buco. Anzi, si fecero molti buchi. Buchi nella Terra. Terra bucata. In un buco, poi, ci può finire qualunque cosa. Non a caso, nella metafora, il “buco nero” è uno spazio sconosciuto, un non-luogo dove essere risucchiati per poi venire vomitati chissà dove e chissà come. Buchi neri nella Terra. Il buco, inoltre, è sempre un buco interessato, è un buco di qualcuno. È una proprietà, privata. È un buco privato che qualcuno produce, crea, attualizza per qualche motivo. Per togliere o per mettere. Per estrarre o per inserire. La funzionalità dei buchi, quindi, si modifica a seconda delle esigenze. Anche le trincee del primo Conflitto mondiale erano buchi, riempiti dai Rifiuti. Rifiuti umani, perché la Guerra, ogni Guerra, rende l’Essere umano un Rifiuto. Rifiuto di se stesso, innanzitutto. Eppure nessuno rifiuta la Guerra, in ogni Epoca. Solo ed unico Bene comune dell’Umanità. Ma non è questo il nostro caso. O forse si. Perché anche i Rifiuti che quotidianamente produciamo ci appartengono, sono parte di quello che facciamo, di come viviamo. Sono nostri, nostra responsabilità, nostra scelta. È un Rifiuto di noi stessi che va a riempire qualche buco. Siamo noi in qualche buco, il nostro riflesso che riempie la Terra. Terra bucata, appunto. Ma la Terra è condivisione, è pienezza. La Terra ha orrore del buco, per questo tende a riempirlo. Tende a riempirsi. Povera Terra.

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Il volto femminile della filosofia. Una recensione

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Il “Volto femminile della filosofia” vuole essere più di un libro, saggio o ricerca filosofica: è anzitutto un esame attento delle vite dei grandi pensatori del passato, uno sguardo curioso sulle loro dinamiche familiari, sulle condivisioni affettive ed esperenziali, per carpirne, come e quanto, queste ne abbiano influenzato pensiero e produzione. È un excursus biografico e bibliografico, che vede le donne compagne di viaggio, autrici nascoste di gesti, parole, azioni, che hanno condizionato, qualche volta indirizzato o addirittura educato il pensiero maschile. Eroine silenti di gesta quotidiane: mogli, madri, figlie, sorelle che, a modo loro, spesso come sagge consigliere, alle volte come presenze ingombranti, hanno contribuito a rendere grandi i filosofi.

Socrate, Seneca, Agostino, Immanuel Kant, Sigmund Freud per esempio abbiamo scoperto aver ricevuto ottimi esempi di vita rispettivamente da Fenarete, Elvia, Monica, Anna Regina e Amalie. sono nomi di donne comuni che la storia non ricorda perché non hanno scritto nulla, né tantomeno compiuto niente di eclatante, eppure il loro insegnamento, la loro esemplarità di vita, il loro carattere e pensiero hanno forgiato spiriti attenti, menti geniali e uomini di spessore. E il loro ruolo, non solo di genitrici ma anche di consigliere, viene riconosciuto pubblicamente da molti dei figli. Dirà per esempio Sant’Agostino ne Le Confessioni di Monica: “ci amò come se di tutti fosse stata la madre e ci servì come se di tutti fosse stata la figlia”, e Antonio Gramsci scrive alla madre “tutti i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato tutte le tue forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già nell’unico paradiso reale che esista, che per una madre penso sia il cuore dei propri figli” e ancora Giovanni Gentile dirà della genitrice: “la sua voce ancora e sempre dentro mi suona”.

 Da figli a padri, perché i pensatori hanno avuto vere e proprie lezioni di vita dalle stesse figlie, così per esempio Galileo Galilei, che nel periodo del processo e poi dell’abiura, veniva premurosamente sostenuto dalla figlia suor Maria Celeste, che così scriveva al padre: “considerando io (…) la giustizia della causa e la sua innocenza in questo particolare momento, mi consolo e piglio speranza di felice e prospero successo, con l’aiuto di Dio benedetto, al quale il mio cuore non cessa mai d’esclamare, e raccomandarla con tutto quell’affetto e confidenza possibile. Resta solo ch’Ella stia di buon animo, procurando di non pregiudicare alla santità con il soverchiamente affliggersi, rivolgendo il pensiero e la speranza sua in Dio, il quale, come padre amorevolissimo, non mai abbandona chi in Lui confida e a Lui ricorre”. Altre figlie come Jenny Marx e Anna Freud, calcheranno in tutto per tutto le orme dei loro illustri padri, divenendo attente discepole di un pensiero a cui daranno col tempo il loro contributo femminile.

Un posto nella storia dei filosofi è riservato anche alle sorelle: anime consanguinee, presenze attente alle volte anche fastidiose. Donne che si ritrovano a condividere parte della loro esistenza con uomini insicuri, fragili e desiderosi di consigli (sarà così per esempio per Blaise Pascal nei confronti della sorella Jacqueline), o riottosi, iracondi ed ermetici nelle riflessioni, spesso infastiditi da suggerimenti femminili non richiesti (è notoria a tal proposito l’insofferenza nutrita da Friedrich Nietzsche per la sorella Elisabeth).

E infine ci sono le donne amate, compagne di vita, in grado di lasciare nell’animo del filosofo pensieri malinconici tali da diventare stralci di poesie, così per esempio scriveva di Emilie, Voltaire “Non ho perso un’amante, ho perso la metà di me stesso”, mentre arrabatandosi nel suo dolore Kierkegaard affermava di Regina Olsen “La legge di tutta la mia vita è che lei ritorna in tutti i punti decisivi”; mentre Beccaria scriveva alla moglie Teresa sono in mezzo alle adorazioni, agli encomi, i più lusinghieri, considerato come compagno e collega dei più grandi uomini dell’Europa, guardato con ammirazione e con curiosità […] e pure io sono infelice e malcontento perché lontano da te”. Quando vicine le donne amate diventano invece preziose alleate, stelle polari, punti di riferimento nel cammino esistenziale, amiche che ascoltano e guidano, muse ispiratrici. Uno per tutti Karl Popper disse di Josephine Anna Henninger: “Senza di lei (…) molto di ciò che ho fatto non sarebbe mai stato realizzato“.

Nell’opera di Miriam Rocca, dunque, uomini straordinari di ieri e di oggi sono sempre affiancati da donne: donne che vivono nell’ombra, donne ispiratrici, donne impavide, fredde o generose, perché, come affermava Maritain: “… l’essere umano non è compiuto se non nell’uomo e nella donna presi insieme“.

L’altra India (Amartya Sen), una recensione. Le origini della filosofia, il laicismo e lo stato laico

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Amartya Sen, nel suo interessante studio intitolato “L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radice della cultura indiana”, intraprende un filone di studi assai poco battutto qui in Europa, o magari, di scarsa visibilità. Nella citazione riportata in questo articolo, parla del sovrano indiano musulmano Akbar – fine del XVI secolo -, e cioè nel felice tempo in cui noi Europei ci scannavamo per questioni importantissime, tipo le religioni (ma la vera posta in gioco era ben altra), e mentre bruciavamo Giordano Bruno a Campo de Fiori. Ciò che riporto del nobel bengalese è anche utile a smitizzare la tutta da dimostrare e arcinota equazione “radici cristiane = stato laico”, quell’equazione che vede solo nelle radici giudaico/cristiane la possibilità dell’instaurarsi di uno Stato inteso in senso moderno (tesi, peraltro, già smentita, tra gli altri, da Federico Chabod, in tempi non sospetti). Nella sua semplicità stilistica ma anche nella sua competenza, l’autore offre, anche per non specialisti, una visione chiara e demitizzata, direi, non esotica, dell’India, della sua cultura e storia, dei suoi innumerevoli problemi.

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