“Lire 26900” di Frédéric Beigbeder. Recensione del manuale scomodo dei pubblicitari e del marketing

Puoi ordinare dal nostro link il libro di Frédéric Beigbeder usufruendo di uno sconto (Amazon): Lire 26.900 (Universale economica)

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Siamo il prodotto di un’epoca. O forse no. Così diventa troppo facile dare la colpa ad un’epoca. Più che altro siamo prodotti e basta. Merce posta in uno scaffale. Il mondo neoliberale non discute con degli uomini, non li ha minimamente presente fino a che essi non diventino dei prodotti seriali schematizzabili in note dinamiche del desiderio riproducibili in una macchina di Turing. E’ solo allora che può cominciare a discutere con dei soggetti, che ci ha presente. Le sue regole trasformano le persone in yogurt deperibili, in drogati di spettacoli pubblicitari, show, drammi e commedie. Consumatori di desideri creati a tavolino, consumatori di vite non proprie. L’unico spazio di libertà dalla pubblicità è trascinare il nome del prodotto nel cestino del vostro desktop, e poi selezionare “Svuota cestino”. Sperando, ovviamente, che con esso sparisca pure il desiderio. E qui entra in gioco la filosofia. Il desiderio: l’unico vero mostro che ci appartiene, che possiamo controllare e che dobbiamo forgiare, anche grazie alla filosofia. Quando ho finito di leggere “Lire 26900” di Frédéric Beigbeder ho avvertito sollievo, come se fosse finito un incubo. La stessa sensazione che ho provato dopo aver visto lo straordinario Requiem for a dream di Darren Aronofsky, un film solo un po’ più terribile e nichilista impegnato su un tema simile, la dipendenza (uno dei segreti del marketing è creare dei “dipendenti”). Certo, argomenti triti e ritriti, che la filosofia e la letteratura, il cinema e la musica hanno ampliamente sviscerato. Ma se scritti bene e con uno stile abbastanza originale (come in questo caso), vale ancora la pena di una ripassata. Il libro è una analisi cinica del desiderio, ed un abbozzo pratico e nichilista verso una filosofia della pubblicità. E’ anche un metodo affidato alla letteratura per scoprire la sindrome di Madame Bovary che è in ciascuno di noi, così efficacemente analizzata da quel geniaccio di Gustave Flaubert senza scomodare Lacan e Freud. Magari voi stessi state leggendo questa recensione perché attratti da una immagine, da una parola, o da un aforisma particolare che hanno suscitato curiosità e risvegliato un desiderio. Chiamati qui magari da un social network come facebook dove le nostre vite spesso si riducono a comunicazione pubblicitaria e reality. Come scrive Beigbeder “uno scrittore in pubblicità è l’autore di aforismi che vendono”, se state leggendo vuol dire che vi siete imbattutiti in un bravo pubblicitario (oppure uno fortunato). La prossima volta, pensateci prima di cliccare. La libertà è prima di tutto un atto radicale di anticonformismo.

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Filosofia, storia e… “La questione meridionale” in musica, di Eugenio Bennato

Qui il link per ordinare da Amazon l’ ultimo album di Eugenio Bennato: Questione Meridionale

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Una recensione era indispensabile. L’ho ascoltato tutto di un fiato, di regola mi lascio più tempo per farmi entrare musica e parole. L’ultimo album di Eugenio Bennato è un condensato di musiche di altri tempi (e altri luoghi) riportate dolcemente al presente. Suoni, per esempio, che somigliano a quelli della mia Puglia. Ma è anche un modo per entrare in un dibattito oggi più che mai acceso, quello della questione meridionale. “La storia è scritta dai vincitori”, questo è risaputo, per cui bisognava scavare dentro una storia non ufficiale per riesumare dall’oblio del tempo la vita di “briganti” e “brigantesse”. Bennato lo fa con la musica, si era capito. Ma è un discorso che ora si fa sempre più complicato, visto che dietro il dibattito storico e filosofico (mai neutro, giacché che non esiste la neutralità in qualsivoglia racconto) si nasconde anche la politica, per cui oggi si oppongono movimenti e partiti di ispirazione territoriale (non solo la Lega Nord, ma la anche la galassia dei partiti meridionalisti, come Forza del Sud, Grande Sud, o addirittura i gruppi Neoborbone e i Savoia). Allo scontro sulla “questione meridionale”, ai nuovi revisionismi più o meno storicamente fondati si aggiunge la pubblicazione di alcuni libri molto divulgativi e solo occasionalmente accademici che stanno pian piano erodendo l’immaginario collettivo, fino ad ora dominato dalla retorica risorgimentale, unitaria, patriottica e… antimeridionale.

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La filosofia del rischio e dell’ emergenza. Il lessico dei nuovi assolutismi democratici

Il principio della deroga è da anni che esiste, sai chi lo ha inventato? La Malavita. Quando lo Stato deroga alla Legge non fa altro che copiare quello che fa la Camorra, perché la Camorra tutti i giorni deroga alla Legge. Fra la Camorra e lo Stato, c’è una sola differenza qui in Campania, che lo Stato per derogare fa un documento di carta mentre la Camorra se lo comunica a voce (Andrea)

Spesso si citano, per spiegare cosa sia la Shock Economy ed il capitalismo-governance dei disastri, libri e filosofi, intellettuali e sociologi. Il senso della Shock Economy, il senso del capitalismo emergenziale e del sistema che spesso viene messo in atto nelle nuove emergenze italiane e mondiali lo ha raccontato uno sconosciuto Andrea, un (mediaticamente) anonimo membro del comitato antidiscarica di Terzigno, intervistato da Annozero(1). Come vedremo, quello dell’emergenza, del rischio, è un problema che la filosofia politica sta affrontando sempre con più attenzione: solo per fare un nome fra i tanti, Ulrich Beck sta sviscerando da anni il rapporto fra libertà, biopolitica e rischio, o meglio, percezione del rischio. Un rischio che oramai entra nel corpo e lo struttura dall’interno. Qualcosa di più pervasivo della stessa “paura” hobbesiana. Sulla stessa lunghezza d’onda, i sociologhi-filosofi Anthony Giddens, Robert Castel e Zygmunt Bauman. Ma basterebbe anche pensare ai filosofi italiani Giorgio Agamben ed Ottavio Marzocca. Ogni rischio ha una salvezza. E la nuova salvezza secolarizzata la si ritrova proiettata nei nuovi super eroi dai poteri assoluti (e illiberali), nei leader carismatici di weberiana memoria.

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“Grillismo”, razzismo e soggettività politiche…

Questo thread di Wu Ming 1 era necessario perché si sente sempre più forte l’urgenza di ridefinire gli spazi politici, ormai spazzati via dalla banalità del quotidiano. Puntare il dito sulla fine delle “Grandi Narrazioni” è un mantra che non funziona più. Condivido l’analisi sugli approcci diversi del dichiararsi “indifferenti” ai posizionamenti classici rappresentati dalla destra e della sinistra. Dipende sempre da chi urla e dai contenuti espressi (d’altronde “storicizzare al massimo” vuol dire proprio questo).
Come esempio tendenzialmente destrorso da aggiungere al “grillismo”, citato nel post come modello e pratica dell’annullamento destra-sinistra per una ipotetica “terza posizione” non bene precisata, aggiungerei anche l’Onda studentesca che, in quanto a metodi e “paranoie”, non si è mostrata molto differente. Le lezioni dei professori-baroni in Piazza sono state la rappresentazione visiva di un fallimento. I cortei gridavano “né destra né sinistra” eppure le Assemblee ospitavano interventi-fiume di grandi firme che non hanno favorito (e tantomeno stimolato) nessun cambiamento reale perché modificare lo status non fa comodo a nessuno. È stato un movimento che non ha costruito nessuna conflittualità e si è risolto come una parentesi allegra sulle pagine di “Repubblica”, proprio dove era nato.

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“One Big Union”, di Valerio Evangelisti. Una recensione

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One Big Union” è una lettura indispensabile, oggi. Una lettura che contribuisce a creare cultura politica ed a definire soggettività. Insomma, tutto quello di cui abbiamo bisogno. Non sappiamo se il New Italian Epic (NIE), come viene indicato nei memoriali di Wu Ming 1, sia davvero finito nel 2008 con la grande masturbazione della “italian left” (la prima pagina de “il Manifesto” del 15 aprile 2008 rimarrà a lungo un nostro pezzo di storia). In realtà non ci interessa saperlo. One Big Union, come altre pubblicazioni, rientra a pieno titolo in quel potente percorso letterario che contribuisce, ogni giorno (ed ancora oggi), a creare cultura ed a farci Singolarità. Potenza della letteratura. Basta mettere le pagine in contro-luce, cercando l’attualità dietro le parole. Potrebbe essere interessante leggere il 15 ottobre 2011 attraverso questo canale. Si aprono spazi di comprensione e di resistenza. Comprensione della storia e delle sue dinamiche. Consapevolezza del Movimento (più o meno operaio). Perchè, come scriveva Mario Tronti: “ai capitalisti fa paura la storia degli operai, non fa paura la politica delle sinistre. La prima l’hanno spedita tra i demoni dell’inferno, la seconda l’hanno accolta nei palazzi di governo“. E la storia del Movimento operaio è storia di lotte, di antagonismo e di organizzazione. E’ storia di trasformazioni e di adattamenti. E’ storie di lotte di classe e di condensazioni delle soggettività in lotta. One Big Union traccia uno spazio di questa lotta attraverso l’esperienza degli Industrial Worker of the World (IWW), una delle organizzazioni sindacali statunitensi più presenti ed attive nel primo Novecento. Nata dalle ceneri di strutture più “mistiche”, come i Knights of Labor, caratteristica dei wobblies (gli iscritti al IWW) era quella di organizzare i lavoratori orizzontalmente, senza cadere nella verticalità delle divisioni produttive. Sullo stesso piano, nelle stesse lotte, erano coinvolte soggettività con mansioni lavorative anche molto differenti. Tutti erano partecipi di quell’idea di nuova Società che era compresa ed ispirava la vita quotidiana del Sindacato. Inoltre l’organizzazione era aperta a tutti, senza preclusione per i migranti (spesso tenuti fuori dalle strutture “tradizionali”). Il “leit motiv” che rappresentava il senso comune di appartenenza all’organizzazione era: An injury to one is an injury to all.

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“Anatra all’Arancia meccanica” di Wu Ming, una recensione

Anatra all'Arancia meccanica

Se acquisti il libro da questo link hai uno sconto significativo: Anatra all’arancia meccanica. Racconti 2000-2010 (Einaudi. Stile libero big)

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Sono passati dieci mesi dalla pubblicazione di “Anatra all’Arancia meccanica“, autore il Collettivo Wu Ming. Questo il thread di “lancio”. Qui, ed anche qui, una raccolta di interventi, opinioni e recensioni. Una panoramica interessante che misura il reale “assorbimento culturale” (dov’è l’opinione pubblica?) dell’ultima fatica dei “senza nome”.

La nostra recensione sarà un’anti-recensione, come al solito, perchè i libri bisogna viverli e non riassumerli. Ed ognuno vive le parole a proprio modo (fortunatamente!). Ognuno crea la sua resistenza a propria immagine e somiglianza. Siamo come piccoli demiurghi diffusi che, attraverso la creatività, producono gioia e rivoluzione. Gioia e Rivoluzione. Saremo, quindi, banali. Estremamente banali. Perchè la banalità rende le cose per quello che sono realmente, senza nasconderle dietro l’ipocrisia del marketing o l’auto-referenzialità della scrittura.

Anatra all’Arancia meccanica è una raccolta ontologica di 16 racconti pubblicati da Wu Ming su vari spazi. Una raccolta “ontologica” (no, non è un refuso) perchè racconta la genesi di un decennio di movimento e di soggettivazione (i fantastici “Anni Zero”). Un decennio di avvenimenti (l’11 settembre americano, Genova 2001, il berlusconismo…) e di nuovi strumenti (internet, le discussioni via mail, i blog, i social network…). Una genesi straordinaria che, dalle allegorie rivoluzionarie, si riproduce in dinamiche “umane, troppo umane“. Perchè non solo tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare.

Queste 16 narrazioni sono la cornice dentro cui viene raccontato un nuovo Mondo. Un Mondo in potenza e la sua potenza fallita. Sono storie che intrecciano la realtà. Sono livelli di realtà che diventano storie. Perchè Anatra all’Arancia meccanica è la critica della Narrazione con la N maiscuola. E’ la critica della Storia con la S grande. E’ una cornice dentro cui le nostre Vite cominciano a vivere in mille modi. Attraverso stili differenti, visioni alternative ed anti-retoriche. Non c’è la grande Città pronta a sussumere ogni meccanismo sociale nelle sue viscere metropolitane (non siamo tutti metropolitani). Ci sono le periferie, le province. Piccoli mondi futuri che urlano le loro contraddizioni e reclamano spazi di visibilità.

E poi c’è la violenza. Un filo conduttore che lega le narrazioni. Violenza dell’Essere umano su se stesso. Violenza dell’Essere umano sugli elementi naturali della Terra. Ma su questo sarebbe meglio far sedimentare qualche altra riflessione.

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Terra Mare Cielo. Una presa di posizione nel Conflitto tra Kairos e Chronos.

Consideriamo innanzitutto una differenza. Meglio, pensiamo ad un conflitto rispetto a cui siamo obbligati a prendere parte. A parteggiare. C’è bisogno di dire qualcosa, di usare la parola e l’azione per fermare il Tempo, con l’intenzione di stare nel mezzo. La nostra comune esistenza è scandita da un ciclo di Vita storicamente determinato, raffigurato da un’unica linea orizzontale su cui si svolgono tutte le eventualità del quotidiano. PassatoPresenteFuturo. Con tre punti, all’inizio ed alla fine, per indicare l’infinito. È uno schema cifrato sul quale si può solo andare avanti, anzi si deve, perché ogni cosa diventa necessaria. Si devono semplicemente accumulare avvenimenti, uno dopo l’altro, per custodirli nella sacca dell’esperienza, fare fagotto e continuare il percorso. Accumulazione. Ragioniamo, in questo caso, nei termini della cronologia, ovvero dell’Evento intrappolato dal (e nel) discorso storico. Capitalismo e Rivoluzione. Ciclo di crisi e Catastrofe. È questo che ci chiede il buon senso, la teologia ed ogni scienza tecnica ed umanistica, ossia saperi che si azzuffano per divenire unici ed universali. Perché la Salvezza è sempre dietro l’angolo, a qualche passo di distanza.

Occorre ancora camminare. Lasciamoli litigare. Intanto noi tramontiamo. Al tramonto, infatti, l’Evento potrebbe ribellarsi, dimenarsi, scalciare. Cominciare a far del male. Farebbe male allo status, a tutto quello che si è sempre pensato come senso comune. Si scoprirebbe il ciuffo di capelli sulla testa di Kairos, il momento opportuno della decisione o dell’azione, che si sposta da una parte o dall’altra per determinare le vallate della storia. Sarebbe un cadere oltre l’ordine delle colonne d’Ercole. Kairos è la fine del Mondo. È la vera palingenesi senza missione. Senza messianismo.

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“I FRUTTI PURI IMPAZZISCONO”. LETTERALMENTE

(nella foto, Gianluca Cassieri, l’autore della strage di Firenze)

Puoi comprare questo classico della letteratura antropologica al seguente link con un significativo sconto: I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel XX secolo (Gli archi)

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Ho sempre creduto che il titolo del libro più famoso dell’antropologo James Clifford fosse una metafora, una poesia: “I frutti puri impazziscono”. Un titolo che è già una recensione. Ed in effetti, il titolo fa un verso ad una poesia di Carlos Williams. Ma la strage dei due Senegalesi a Firenze, Samb Modou e Diop Mor, ad opera di Gianluca Cassieri, è uno dei tanti esempi che dimostrano che l’ideologia della purezza fa letteralmente esplodere i più pericolosi istinti umani, al di fuori di ogni metafora. La purezza, in tutte le sue manifestazioni. Piuttosto che metterci a discutere se Cassieri fosse un pazzo o no, siamo comunque convinti che l’ideologia della purezza propagandata dai gruppi di estrema destra come Casapound renda psicolabili. Per cominciare a decostruire questo pericoloso mito, niente di meglio che un brano dell’antropologo Ralph Linton: “L’Americano al cento per cento”.

Non ci sono dubbi sull’americanismo dell’americano medio né sul suo desiderio di conservare ad ogni costo questa preziosa eredità. Tuttavia alcune insidiose idee straniere si sono già insinuate nella sua cultura senza che egli si sia reso conto di quello che stava accadendo. Ecco dunque il nostro insospettabile patriota che indossa il pigiama. Un indumento che ha origine nell’India orientale, e dorme sdraiato su un letto costruito secondo un modello originario persiano o dell’Asia Minore. È coperto fino alle orecchie di stoffe non americane: cotone coltivato per la prima volta in India, lino coltivato in Medio Oriente, lana prodotta da un animale originario dell’Asia Minore, oppure seta, che i cinesi hanno inventato e usato per primi. Tutti questi materiali si sono trasformati in tessuti grazie a un procedimento inventato nell’Asia sud-occidentale. Se fa piuttosto freddo può: dormire sotto un piumone a trapunta inventato in Scandinavia.

Svegliandosi dà un’occhiata alla sveglia, un’invenzione medievale europea, usa una forte parola latina in forma abbreviata, si alza in fretta e si dirige verso il bagno. Qui, se riflette un momento non può non sentire la presenza di una grande istituzione americana; ne ha sentite di storie sulla qualità e sulla diffusione dei servizi igienici nei paesi stranieri e sa che in nessuno di essi l’uomo medio effettua le sue abluzioni in mezzo a tanto splendore. Ma anche qui trova tracce dell’irritante influenza straniera. Il vetro fu inventato dagli antichi Egizi, le piastrelle vetrificate del pavimento e delle pareti nel Medio Oriente, la porcellana in Cina e l’arte di smaltare i metalli dagli artigiani mediterranei dell’età del bronzo. Anche le tubature e la tazza del cesso sono copie appena modificate rispetto agli originali romani. L’unico contributo americano a tutto il complesso è il radiatore. In questa stanza da bagno l’americano si lava con il sapone inventato dai Galli. Poi si lava i denti, una rivoluzionaria pratica europea che non si propagò in America fino agli ultimi anni del diciottesimo secolo. Quindi si fa la barba, rito masochistico la cui origine risaie ai preti dell’antico Egitto e ai sumeri. Il procedimento è reso meno penoso dal fatto che usa un rasoio di acciaio, una lega di ferro e carbonio inventata in India o in Turkestan. Infine si asciuga con un asciugamano turco.

Ritornando nella camera da letto, l’inconsapevole vittima di oscure pratiche straniere prende gli abiti dalla sedia, il cui modello è stato elaborato nel Medio Oriente, e inizia a vestirsi. Si mette un abito attillato le cui forme derivano dalle vesti di pelle degli antichi nomadi delle steppe asiatiche e lo allaccia con dei bottoni i cui prototipi comparvero in Europa alla fine dell’età della pietra. Questo vestito è abbastanza adatto per stare all’aperto in un clima freddo, ma non si addice certamente alle estati americane, né alle case con riscaldamento centrale o alle carrozze ferroviarie. Tuttavia idee e abitudini straniere hanno asservito il poveretto, anche se il buon senso gli dice che il vero abito americano di strisce di pelle e i mocassini sarebbero molto più comodi. Si infila ai piedi delle calzature rigide di cuoio confezionate secondo un procedimento inventato nell’antico Egitto e tagliate secondo un modello che risale agli antichi Greci e si assicura che siano accuratamente lucidate, anche questa un’idea greca. Infine si passa attorno al collo una striscia di stoffa dai colori vivaci, che è un vestigio sopravvissuto dello scialle che indossavano i Croati del diciassettesimo secolo. Si dà un’ultima occhiata allo specchio, vecchia invenzione mediterranea, e scende le scale… .

Si mette in testa un cappello di feltro, materiale inventato dai nomadi dell’Asia orientale e, se sta per piovere, si mette le soprascarpe di gomma, inventate dagli antichi messicani, e prende l’ombrello, inventato in India. Scatta via per prendere il treno, che è un’invenzione inglese (il treno, naturalmente, non lo scatto). Alla stazione si ferma un istante per comprare il giornale e lo paga con delle monete inventate nell’antica Lidia. Una volta in carrozza, si sistema sul retro per fumare una sigaretta, invenzione messicana, o un sigaro, invenzione brasiliana. Intanto legge le notizie del giorno, stampate con caratteri che derivano dagli antichi Semiti, stampati mediante un procedimento inventato in Germania su materiale inventato in Cina. E, mentre legge l’ultimo editoriale che parla dei disastrosi risultati che l’accettazione delle idee straniere produce sulle nostre istituzioni, non potrà fare a meno di ringraziare un Dio ebreo in una lingua indoeuropea di essere al cento per cento (sistema decimale inventato dai greci) americano (da Amerigo Vespucci, navigatore e geografo italiano).

(Ralph Linton, <<The American Mercury>>, 40 [aprile 1937], pp.427-429)

Su questo tema, vedi anche il nostro intervento: LA FILOSOFIA DEL FANATISMO

Per un richiamo alle arTi…

Ci manca la creatività. La creatività di “un’Arte nuova che tragga la Repubblica dal fango”. Perchè senza creatività siamo persi. Perchè la creatività apre l’indignazione introducendola in uno spazio gioioso di trasformazione. Ci manca la creatività perchè senza creatività siamo chiusi nell’angustia dei tempi. Siamo mosche che gozzovigliano sulla merda per poi sbattere contro una finestra chiusa dal Potere.

Filosofia, libertà e… il mare!

C’era una volta, tanto ma tanto tempo fa, su un’isola lontana lontana, un anziano pescatore. Viveva in una capanna vicino alla spiaggia del mare, mare dal quale, con la sua canna da pesca, la sua barchetta di tronco e la sua rete, riusciva a procurarsi il cibo per vivere. Era sempre calmo e sereno, limpido come il mare che lambiva l’isola. Amava stare ore e ore sdraiato all’ombra di una palma, su di una piccola altura che dominava la spiaggia ed il mare. Rimaneva sdraiato ore ed ore a riposare, a pensare ed a sognare.

Un giorno arrivò all’isola un ricco signore con una gigantesca nave da carico. Il ricco signore sbarcò sull’isola per recarsi al paesino, poco lontano dalla spiaggia del pescatore, per svolgere i suoi affari. Dopo aver concluso i suoi affari, si incamminò per tornare alla nave passando dall’altura dove il pescatore riposava. L’uomo ricco fu sorpreso dal notare questo vecchio pescatore che dormiva con il sorriso sulle labbra. Si avvicinò incuriosito al vegliardo e gli si sdraiò vicino, all’ombra dell’accogliente palma.

– Sto perdendo tempo. – pensò tra sé con ansia, – devo tornare al lavoro. – Ma lì era tutto così bello! Il cielo ed il mare non erano mai stati così vivi: sembravano due innamorati al primo appuntamento, che si scrutano, silenziosi ed imbarazzati, prima di baciarsi. Il pescatore, destatosi nel frattempo, si accorse del nuovo venuto: – E tu chi sei buon uomo?

Rispose il ricco: – Sono un commerciante di seta e di ferrame. Vedi quella grossa nave giù nella baia? È mia. Sopra vi lavorano cinquanta dipendenti, tutti miei stipendiati. Sono passato dal paesino qui vicino, ma nessuno sembra interessato alla mia merce. Pazienza. Le mie molte industrie in continente, producono più merce di quella che riesca a vendere. Dovrò aprire perciò nuovi mercati. E tu, o canuto vegliardo, chi sei?

– Io sono soltanto un povero pescatore.

– E che ci fai qui, sdraiato tutto il giorno?

– Riposo – rispose il vecchio.

– Attento, pescatore. Chi dorme non piglia pesci. – ammonì il ricco signore. – E allora? – esclamò il vecchio. Poi continuò: – Io lavoro per vivere, non vivo per lavorare. Poi, quando voglio, mi sdraio qui e mi riposo, guardo l’alba ed il tramonto, il cielo ed il mare. Penso e sogno. E tu, buon uomo, perché lavori tutto il giorno?

– Che domande! – rispose prontamente il ricco signore, – Lavoro tutto il giorno affinché un giorno, io possa permettermi di… riposare… -. Il volto del ricco signore cambiò improvvisamente. Il vecchio pescatore sorrise amabilmente: – Anche tu, come vedi, vuoi semplicemente riposare -.

A queste parole, il ricco signore rinunciò al proposito di partire: rimase sdraiato accanto al pescatore, ed insieme, continuarono a scrutare il cielo ed il mare fino al tramonto, e oltre. Chi, questa estate, passerà da quell’isola lontana, potrà ancora scorgere, arenata e logora nella vecchia baia, una grande nave carica di seta e ferrame. Sull’altura, invece, troverà il ricco signore ed il pescatore a riposare, ed a rimirare il cielo ed il mare.

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Vedi anche il sito LIBERARCHIA per un’altra avventura del pensiero

“In balia di una sorte avversa”, di B. S. Johnson. Per una “strana” recensione…

"Viandante su mare di nebbia", Caspar David Friedrich

Se compri il libro di B. S. Johnson tramite il prossimo link hai uno sconto significativo: In balia di una sorte avversa (Narrativa)

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Una bella serata di fine Novembre. Bella per essere una serata di fine Novembre, in Città. La temperatura non è ancora precipitata e si riesce ad avere le mani scoperte senza il pericolo che la pelle si rompa in cento stigmate laiche. Il cielo è ancora tagliato da una o due nuvole che, durante il mattino, hanno lasciato cadere qualche goccia di pioggia. E’ un chiaroscuro affascinante tra l’oscurità della notte, illuminata timidamente dalle luci gialle di periferia, e le differenti tonalità di grigio che caricano le nuvole. Il vialetto che porta alla fermata del bus è ricoperto di foglie ingiallite che si mischiano al terriccio bagnato. Cerco un guado sicuro mentre sistemo l’auricolare ed alzo il colletto della mia giacca marrone. Cercando di non cadere su quell’intingolo di foglie e terra, le mando un messaggio. Farò qualche minuto di ritardo. La fermata del bus ha il solito aspetto tranquillo. La Chiesa lì davanti sovrasta una piccola Edicola verde. Accanto c’è la segnaletica, la mia segnaletica. Un divieto di sosta. Un appoggio su cui sostare, aspettando di vedere più avanti il mio bus. Una canzone finisce e ne comincia un’altra. Così per altre due o tre volte. Io mi spingo in avanti per cercare di avere una visuale migliore, come se la vista avesse il potere di far accadere le cose. Come se il destino si sentisse spiato e potesse cedere ai miei bisogni. Faccio un giro intorno a me stesso e ritorno a posare la schiena sulla segnaletica. Intano finisce un’altra canzone ed un’altra ancora comincia. Decido di prendere dalla mia borsa nera il libro che sto leggendo. Acquistato qualche giorno prima su consiglio di una brava banditrice letteraria. B. S. Johnson, “In balìa di una sorte avversa“. Prefazione di Jonathan Coe. Di Jonathan Coe non ho letto molto e ricordo a stento qualche titolo, però quel poco che ho letto mi è piaciuto. Un tipo di cui ci si può fidare. Perchè con i libri, ormai, è come con le persone. Costano troppo ed è meglio andare sul sicuro. Meglio non rischiare. L’autore del libro non lo conosco per niente. Ma questa lettura, questo B. S. Johnson, mi provoca ad affrontare un’esperienza nuova. Mi piacciono le provocazioni. E’ come uno sbirro che ti fissa per farti reagire e tu devi essere così bravo da non rispondere. Mi piace rispondere alla provocazioni, o non rispondere. A seconda della provocazione. Ad ogni modo questa provocazione si presenta come un cofanetto che contiene 27 sezioni non rilegate. Un libro fatto razionalmente a brandelli e dato in pasto al lettore che, seguendo una indicazione di massima, può leggere e creare altro dopo aver letto. Non è la solita banalità della conclusione “a scelta” di chi legge. Che idiozia. Le conclusioni sono come la coda di un topo. Troppo lunghe. Troppo insignificanti. Quello che conta è il corpo. La possibilità di modificare la composizione degli organi. Mettere un rene dove Dio ha visto un pene. Sbeffeggiare in questo modo la santità dell’opera d’Arte. Che bella provocazione. Mi mancano poche sezioni. Quattro, o forse tre. Comincio a leggere, ma prima mi guardo intorno provocando il destino. Il numero, il mio numero, non si vede ancora. Ma c’è una ragazza. Comincia un’altra canzone. Comincia un’altra sezione.

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